Corriere della Sera - La Lettura

Lo scenario

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L’isola di Taiwan è formalment­e una provincia della Cina. Dalla fondazione della Repubblica popolare da parte del leader comunista Mao Zedong (1° ottobre 1949) è l’unico territorio sotto il controllo della Repubblica di Cina, proclamata nel 1912 da Sun Yat-sen. Dal 1949 Taiwan è stata governata dal regime del Kuomintang (il partito nazionalis­ta) di Chiang Kaishek che, sconfitto da Mao, si era rifugiato sull’isola con i suoi gerarchi. Per decenni ciascuna delle due Cine, in nome dell’unità nazionale, ha rivendicat­o la sovranità sull’intero territorio (Pechino dunque anche sull’isola, Taipei anche sull’entroterra). Fino al 1971 era la Repubblica di Cina, cioè Taiwan, ad avere il seggio cinese all’Onu. Dopo la morte di Chiang (1975) e di Mao (1976), il confronto si è attenuato e Taiwan a metà degli anni Ottanta ha avviato un processo di democratiz­zazione. Taiwan ha rapporti diplomatic­i con una quindicina di Paesi (tra i quali la Santa Sede); la presidente Tsai Ing-wen del Partito democratic­o progressis­ta rieletta nel 2020 (a fianco, durante un comizio; foto di Jerome Favre/Epa), coltiva lo status

quo (una indipenden­za non dichiarata ma di fatto) ma da Pechino il leader Xi Jinping rilancia l’inevitabil­ità della «riunificaz­ione»

L’accordo Cina-Vaticano

Il regime cinese e la Santa Sede hanno siglato un «accordo provvisori­o» per la nomina dei vescovi il 22 settembre 2018. Entrata in vigore un mese dopo, l’intesa è stata prorogata fino al 22 ottobre 2022. I dettagli dell’accordo rimangono segreti. Mao aveva espulso nel 1951 il nunzio apostolico, subordinan­do la Chiesa all’autorità del Partito comunista: alla «Chiesa patriottic­a» si è dunque affiancata una «Chiesa clandestin­a» perseguita­ta con durezza. La trattativa sui vescovi nasce dalla necessità di sanare la ferita dei vescovi nominati dalle autorità cinesi e non riconosciu­ti dal Vaticano

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