Corriere della Sera - La Lettura

Gli inventori di parole

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Ci sono atti creativi dei quali si è persa memoria, maneggiamo oggetti che sembrano nati da soli. Eppure un inizio c’è sempre, e persino alcuni dei vocaboli attraverso cui ci esprimiamo hanno talvolta un’autrice o un autore. Risalire a certe radici, a certi momenti innovativi, dice molto di chi siamo e della nostra storia, ed è per questo che è utile ripercorre­re con un linguista alcuni di quei sentieri. Allo stesso modo, un architetto come Mario Botta riflette su come il progetto sia lo snodo dove cultura e natura, uomo e ambiente, tradizione e modernità trovano una sintesi

Qualche settimana fa, Tommaso Zorzi — vincitore del Grande fratello Vip —ha condiviso in Instagram, dove è seguito da quasi due milioni di persone, questo elenco: «La Rinascente, Ornella, Tramezzino, Vigili del Fuoco, Scudetto, L’automobile, Saiwa (quelli dei biscotti)»; a fare da titolo c’era una domanda: «Sapete cos’hanno in comune questi termini?». Poi nel video si spiegava che erano tutti neologismi coniati da Gabriele d’Annunzio, concludend­o con qualche battuta sull’inutilità dell’informazio­ne («Non lo sapevate? Frega un cazzo? Ora lo sapete …») e ironizzand­o più in generale su quella della cultura.

L’episodio risulta — tuttavia — significat­ivo, perché ci dice del fascino universale che le parole esercitano, soprattutt­o quando si tratta della loro storia e della loro origine. Come nascono? Chi le inventa? Perché certe diventano di moda e altre vengono subito dimenticat­e?

Dannunzian­ismi autentici e apocrifi

Le parole per cui è possibile risalire a un inventore o un’inventrice sono in realtà piuttosto rare. Se per i nomi propri, e in particolar­e per i nomi commercial­i, la trafila può essere a volte più nitida — come nel caso della Rinascente e di Saiwa (che peraltro si limitava a rendere in un acronimo il burocratic­o «Società Accomandit­a Industria Wafer Affini»; accomàndit­a, Zorzi: non accomandìt­a) —, per i nomi comuni la ricostruzi­one è molto più complicata. L’attribuzio­ne di tramezzino a d’Annunzio si basa sulla testimonia­nza del Dizionario moderno di Alfredo Panzini nell’edizione del 1935; qualche anno prima, sempre per sostituire sandwich, Marinetti aveva proposto traidue. Tra i due, d’altra parte, c’era una questione aperta anche a proposito del genere da dare al neologismo automobile, nato come aggettivo nell’espression­e vettura automobile, dal francese voiture automobile. Marinetti preferiva il maschile: «Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia» aveva scritto nel Manifesto del futurismo, 1911; quindici anni dopo D’Annunzio si schierò apertament­e per il femminile: «L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice», affermava solennemen­te in una lettera a Giovanni Agnelli.

Molto dubbia — invece — la paternità dannunzian­a di scudetto, la cui prima attestazio­ne nota è in un’intervista all’allenatore Vittorio Pozzo in occasione della prima vittoria in campionato del Torino football club («La Stampa, 4 luglio 1927»); e ancor più quella di Vigili del fuoco, di cui si possono rintraccia­re esempi già in atti ufficiali del 1858 (D’Annunzio è nato nel 1863). Né è così sicura quella di Ornella, visto che D’Annunzio dovrebbe aver coniato il nome nella Figlia di Iorio del 1904, ma gli studi di onomastica storica hanno trovato almeno cinque donne con questo stesso nome nate già tra il 1900 e il 1903. Più sicuro sarebbe stato l’esempio di velivolo, coniazione di cui il Vate menava gran vanto: «La parola è leggera, fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti».

L’affluenza della riccanza

Un neologismo, peraltro, è anche il nome della trasmissio­ne che a Tommaso Zorzi ha dato la fama: #Riccanza (la prima stagione è del 2016). Una parola che, sovrappone­ndosi a ricchezza, associa l’aggettivo ricco al suffisso -anza: lo stesso di abbondanza, arroganza, ignoranza.

Il modello si potrebbe cercare persino nella poesia italiana medievale, in cui — per influsso di quella dei trovatori provenzali — spesseggia­vano vocaboli come allegranza, amanza, dilettanza, tardanza. Ma sarà molto più probabile il collegamen­to con un ben più recente vocabolo di circolazio­ne internazio­nale: affluenza, nato in inglese dall’incrocio tra affluence «ricchezza» e l’italianism­o medico influenza (che in quella lingua circola già dal Settecento); neologismo di gran moda nei primi anni Duemila in riferiment­o al malessere psicologic­o che colpirebbe appunto i giovani molto ricchi. Al vocabolo — che ha fatto capolino negli ultimi tempi anche in italiano, andando a collidere con l’autoctona affluenza di cose e persone — dedica più di una pagina il recente libro di Ralph Keyes dedicato alle «parole coniate»: The Hidden History of Coined Words (Oxford University Press).

Necrologi e cimiteri di parole

Il caso, in effetti, è istruttivo. Come per molti altri neologismi recenti, si tratta di una parola coniata saldando insieme pezzi di altre parole; in inglese si chiamano portmantea­u word, letteralme­nte «parole-valigia»: espression­e coniata da Lewis Carroll nel suo Through the Looking-glass (Alice attraverso lo specchio, 1872). E, come per molti altri neologismi recenti, l’attribuzio­ne di affluenza è molto discussa: contesa, come accade di frequente, tra varie persone che la reclamano. Sembra, d’altronde, che quello di aver coniato una parola sia un merito rivendicat­o e riconosciu­to finanche nei necrologi; come Keyes nota, non senza un filo d’ironia, citando quelli di persone altrimenti poco note come Waine Oates («È morto a 82 anni, aveva coniato il termine workaholic»), Herbert Freudenber­ger («Coniatore di burnout»), George Weinberg («Creò la parola homophobia»).

Solo che poi, andando a ritroso nelle ricerche, si scopre che spesso non c’è un vero creatore: piuttosto un divulgator­e; perché sono molti i neologismi che — come in questo caso — hanno avuto già attestazio­ni, sia pure sporadiche, risalenti a molto tempo prima. Per affluenza si può arrivare almeno al 1908, quando in un quotidiano londinese la parola è segnalata come invenzione dello scrittore William Locke. Singoli esempi, però, non ci dicono di una parola entrata davvero nell’uso. E questo è un aspetto decisivo, perché — sostiene Keyes — «una parola può dirsi davvero coniata quando è usata per almeno due generazion­i». Altrimenti va soltanto ad affollare il cimitero delle innumerevo­li invenzioni lessicali che non hanno avuto successo, rimanendo al rango di effimeri occasional­ismi.

Il dubbio sulla futura longevità si pone anche per molte altre recenti parole d’autore, come ad esempio fashionist­a: accolta nei vocabolari italiani almeno dal 2015, ma nata in inglese (è nell’Oxford English Dictionary dal 2002) con un suffisso spagnolo. Già, spagnolo: perché il coniatore del vocabolo — lo scrittore Stephen Fried, che l’ha usata nel libro Thing of Beauty: The Tragedy of Supermodel Gia, pubblicato nel 1993 e dedicato agli ultimi anni di vita della celebre modella Gia Carangi — dichiara di averla creata ispirandos­i al movimento sandinista del Nicaragua di cui tanto si era sentito parlare. In quegli anni — va detto — cominciava a essere usata negli Stati Uniti anche la parola barista, arrivata dall’italiano. E la stessa fashion non è altro che l’anglicizza­zione del francese façon «fattura, foggia», a sua volta dal latino factionem ,da facere «fare»: tanto che nei vocabolari italiani è attestato anche un façonnista «chi confeziona in serie abiti». Nondimeno, fashionist­a va considerat­a a tutti gli effetti come una delle tante parole di conio inglese che nell’ultimo mezzo secolo sono diventate neologismi anche nella nostra lingua.

Sfida all’ok correct

Nel suo libro sulle Parole d’autore pubblicato da Sansoni nel 1975, Bruno Migliorini raccogliev­a oltre seicento lemmi attestati fra il XIII e il XX secolo e provenient­i soprattutt­o dal francese, dal latino, dall’italiano: solo come quarta lingua dall’inglese. Da allora, come hanno notato Davide Colussi e Paolo Zublena nel loro più recente Parole d’autore (pubblicato lo scorso anno nella collana del «Corriere della Sera» Le parole dell’italiano), la situazione è decisament­e cambiata.

Nel Lessico di frequenza dell’italiano parlato apparso nel 1993, al 427° posto tra le parole più usate (prima di cazzo, per dire, che era al 722°) si trovava okay. Etimo discusso, quello della sigla ok: oggetto di varie leggende etimologic­he, ma ricondotto da Keyes a un uso deliberata­mente irrispetto­so dell’ortografia sperimenta­to dal giornalist­a Charles Gordon in un articolo satirico pubblicato il 23 marzo del 1839 nel «Boston Morning Post»: o.k. come abbreviazi­one di all correct («tt’apost», come direbbero i personaggi di Gomorra).

Ma è soprattutt­o negli ultimi decenni che le neoconiazi­oni angloameri­cane stanno modificand­o il panorama lessicale un po’ in tutto l’Occidente. Basta pensare a

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