Corriere della Sera - La Lettura
Gli inventori di parole
Ci sono atti creativi dei quali si è persa memoria, maneggiamo oggetti che sembrano nati da soli. Eppure un inizio c’è sempre, e persino alcuni dei vocaboli attraverso cui ci esprimiamo hanno talvolta un’autrice o un autore. Risalire a certe radici, a certi momenti innovativi, dice molto di chi siamo e della nostra storia, ed è per questo che è utile ripercorrere con un linguista alcuni di quei sentieri. Allo stesso modo, un architetto come Mario Botta riflette su come il progetto sia lo snodo dove cultura e natura, uomo e ambiente, tradizione e modernità trovano una sintesi
Qualche settimana fa, Tommaso Zorzi — vincitore del Grande fratello Vip —ha condiviso in Instagram, dove è seguito da quasi due milioni di persone, questo elenco: «La Rinascente, Ornella, Tramezzino, Vigili del Fuoco, Scudetto, L’automobile, Saiwa (quelli dei biscotti)»; a fare da titolo c’era una domanda: «Sapete cos’hanno in comune questi termini?». Poi nel video si spiegava che erano tutti neologismi coniati da Gabriele d’Annunzio, concludendo con qualche battuta sull’inutilità dell’informazione («Non lo sapevate? Frega un cazzo? Ora lo sapete …») e ironizzando più in generale su quella della cultura.
L’episodio risulta — tuttavia — significativo, perché ci dice del fascino universale che le parole esercitano, soprattutto quando si tratta della loro storia e della loro origine. Come nascono? Chi le inventa? Perché certe diventano di moda e altre vengono subito dimenticate?
Dannunzianismi autentici e apocrifi
Le parole per cui è possibile risalire a un inventore o un’inventrice sono in realtà piuttosto rare. Se per i nomi propri, e in particolare per i nomi commerciali, la trafila può essere a volte più nitida — come nel caso della Rinascente e di Saiwa (che peraltro si limitava a rendere in un acronimo il burocratico «Società Accomandita Industria Wafer Affini»; accomàndita, Zorzi: non accomandìta) —, per i nomi comuni la ricostruzione è molto più complicata. L’attribuzione di tramezzino a d’Annunzio si basa sulla testimonianza del Dizionario moderno di Alfredo Panzini nell’edizione del 1935; qualche anno prima, sempre per sostituire sandwich, Marinetti aveva proposto traidue. Tra i due, d’altra parte, c’era una questione aperta anche a proposito del genere da dare al neologismo automobile, nato come aggettivo nell’espressione vettura automobile, dal francese voiture automobile. Marinetti preferiva il maschile: «Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia» aveva scritto nel Manifesto del futurismo, 1911; quindici anni dopo D’Annunzio si schierò apertamente per il femminile: «L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice», affermava solennemente in una lettera a Giovanni Agnelli.
Molto dubbia — invece — la paternità dannunziana di scudetto, la cui prima attestazione nota è in un’intervista all’allenatore Vittorio Pozzo in occasione della prima vittoria in campionato del Torino football club («La Stampa, 4 luglio 1927»); e ancor più quella di Vigili del fuoco, di cui si possono rintracciare esempi già in atti ufficiali del 1858 (D’Annunzio è nato nel 1863). Né è così sicura quella di Ornella, visto che D’Annunzio dovrebbe aver coniato il nome nella Figlia di Iorio del 1904, ma gli studi di onomastica storica hanno trovato almeno cinque donne con questo stesso nome nate già tra il 1900 e il 1903. Più sicuro sarebbe stato l’esempio di velivolo, coniazione di cui il Vate menava gran vanto: «La parola è leggera, fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti».
L’affluenza della riccanza
Un neologismo, peraltro, è anche il nome della trasmissione che a Tommaso Zorzi ha dato la fama: #Riccanza (la prima stagione è del 2016). Una parola che, sovrapponendosi a ricchezza, associa l’aggettivo ricco al suffisso -anza: lo stesso di abbondanza, arroganza, ignoranza.
Il modello si potrebbe cercare persino nella poesia italiana medievale, in cui — per influsso di quella dei trovatori provenzali — spesseggiavano vocaboli come allegranza, amanza, dilettanza, tardanza. Ma sarà molto più probabile il collegamento con un ben più recente vocabolo di circolazione internazionale: affluenza, nato in inglese dall’incrocio tra affluence «ricchezza» e l’italianismo medico influenza (che in quella lingua circola già dal Settecento); neologismo di gran moda nei primi anni Duemila in riferimento al malessere psicologico che colpirebbe appunto i giovani molto ricchi. Al vocabolo — che ha fatto capolino negli ultimi tempi anche in italiano, andando a collidere con l’autoctona affluenza di cose e persone — dedica più di una pagina il recente libro di Ralph Keyes dedicato alle «parole coniate»: The Hidden History of Coined Words (Oxford University Press).
Necrologi e cimiteri di parole
Il caso, in effetti, è istruttivo. Come per molti altri neologismi recenti, si tratta di una parola coniata saldando insieme pezzi di altre parole; in inglese si chiamano portmanteau word, letteralmente «parole-valigia»: espressione coniata da Lewis Carroll nel suo Through the Looking-glass (Alice attraverso lo specchio, 1872). E, come per molti altri neologismi recenti, l’attribuzione di affluenza è molto discussa: contesa, come accade di frequente, tra varie persone che la reclamano. Sembra, d’altronde, che quello di aver coniato una parola sia un merito rivendicato e riconosciuto finanche nei necrologi; come Keyes nota, non senza un filo d’ironia, citando quelli di persone altrimenti poco note come Waine Oates («È morto a 82 anni, aveva coniato il termine workaholic»), Herbert Freudenberger («Coniatore di burnout»), George Weinberg («Creò la parola homophobia»).
Solo che poi, andando a ritroso nelle ricerche, si scopre che spesso non c’è un vero creatore: piuttosto un divulgatore; perché sono molti i neologismi che — come in questo caso — hanno avuto già attestazioni, sia pure sporadiche, risalenti a molto tempo prima. Per affluenza si può arrivare almeno al 1908, quando in un quotidiano londinese la parola è segnalata come invenzione dello scrittore William Locke. Singoli esempi, però, non ci dicono di una parola entrata davvero nell’uso. E questo è un aspetto decisivo, perché — sostiene Keyes — «una parola può dirsi davvero coniata quando è usata per almeno due generazioni». Altrimenti va soltanto ad affollare il cimitero delle innumerevoli invenzioni lessicali che non hanno avuto successo, rimanendo al rango di effimeri occasionalismi.
Il dubbio sulla futura longevità si pone anche per molte altre recenti parole d’autore, come ad esempio fashionista: accolta nei vocabolari italiani almeno dal 2015, ma nata in inglese (è nell’Oxford English Dictionary dal 2002) con un suffisso spagnolo. Già, spagnolo: perché il coniatore del vocabolo — lo scrittore Stephen Fried, che l’ha usata nel libro Thing of Beauty: The Tragedy of Supermodel Gia, pubblicato nel 1993 e dedicato agli ultimi anni di vita della celebre modella Gia Carangi — dichiara di averla creata ispirandosi al movimento sandinista del Nicaragua di cui tanto si era sentito parlare. In quegli anni — va detto — cominciava a essere usata negli Stati Uniti anche la parola barista, arrivata dall’italiano. E la stessa fashion non è altro che l’anglicizzazione del francese façon «fattura, foggia», a sua volta dal latino factionem ,da facere «fare»: tanto che nei vocabolari italiani è attestato anche un façonnista «chi confeziona in serie abiti». Nondimeno, fashionista va considerata a tutti gli effetti come una delle tante parole di conio inglese che nell’ultimo mezzo secolo sono diventate neologismi anche nella nostra lingua.
Sfida all’ok correct
Nel suo libro sulle Parole d’autore pubblicato da Sansoni nel 1975, Bruno Migliorini raccoglieva oltre seicento lemmi attestati fra il XIII e il XX secolo e provenienti soprattutto dal francese, dal latino, dall’italiano: solo come quarta lingua dall’inglese. Da allora, come hanno notato Davide Colussi e Paolo Zublena nel loro più recente Parole d’autore (pubblicato lo scorso anno nella collana del «Corriere della Sera» Le parole dell’italiano), la situazione è decisamente cambiata.
Nel Lessico di frequenza dell’italiano parlato apparso nel 1993, al 427° posto tra le parole più usate (prima di cazzo, per dire, che era al 722°) si trovava okay. Etimo discusso, quello della sigla ok: oggetto di varie leggende etimologiche, ma ricondotto da Keyes a un uso deliberatamente irrispettoso dell’ortografia sperimentato dal giornalista Charles Gordon in un articolo satirico pubblicato il 23 marzo del 1839 nel «Boston Morning Post»: o.k. come abbreviazione di all correct («tt’apost», come direbbero i personaggi di Gomorra).
Ma è soprattutto negli ultimi decenni che le neoconiazioni angloamericane stanno modificando il panorama lessicale un po’ in tutto l’Occidente. Basta pensare a