Corriere della Sera - La Lettura
La fine della profezia
Nessun profeta appare all’altezza dell’incertezza del nostro tempo, dei traumi vissuti, della paura per quello che ci aspetta. La capacità di guidare nelle difficoltà e di illuminare l’avvenire non funziona quando si chiude l’orizzonte. Allora le profezie si elidono a vicenda. Avanzano invece algoritmi e previsioni scientifiche, sì. Ma sono un’altra cosa...
Nei prossimi 50 anni l’islam diventerà la più grande religione mondiale. Circa un terzo della popolazione del pianeta seguirà Muhammad, il Profeta ultimo dei profeti, e la rivelazione portata dall’angelo Gabriele, trascritta e recitata nel Corano. Se si considerano anche le altre fedi, a cominciare da quella cristiana, se si ascoltano demografi e teologi, le religioni profetiche sembrano destinate a dominare il mondo di domani non meno di quanto abbiano dominato il mondo di ieri.
Continua a conquistarci, la profezia, perché ci porta ovunque e ci fa sentire tutto. Essa è infatti il sapere superiore cui non possiamo arrivare da soli ma per il quale si rende indispensabile la nostra disposizione, il nostro discernimento. È il futuro, nutrito dal passato e dal presente, ed è l’eternità. È lo squarcio sulla fine, la luce sull’esito e al contempo è il piano, la direzione. Essa è la fine dei tempi e intanto, nel tempo, la strada verso la libertà, nel Mar Rosso aperto al passaggio d’Israele, nel deserto della migrazione tra Mecca a Medina, l’egira da cui nasce l’islam. Infine, la profezia è equilibrio tra conoscenza e mistero, immanenza e trascendenza, è la precarietà della condizione umana ed è la certezza oltre la congiuntura, la bussola nella tormenta.
Del persistente valore di tutto questo, della forza della profezia, sembra testimoniare il successo della religione del Profeta e di tutte le religioni dei profeti. Invece è solo apparente, nel nostro mondo globale, il successo della profezia. Se c’è, quando c’è, è fragilissimo. Il fatto è che nessun profeta, nessuna profezia, appare all’altezza dell’incertezza del nostro tempo, dei traumi vissuti, della paura per quello che ci aspetta; della minaccia di autodistruzione ecologica che ci pesa addosso. La forza della profezia, la capacità di guidare nello smarrimento e di illuminare l’avvenire, diventa la sua debolezza quando lo smarrimento prevale, quando si chiude l’orizzonte. Allora, incapace di rispondere, la profezia si diluisce e le profezie si accalcano, si elidono a vicenda. Nessun trionfo del bene sa invertire il declino delle utopie, nessuna apocalisse sa competere con l’ascesa delle distopie. Nessun profeta, neppure Maometto, neppure quell’Issa (Gesù) che i cristiani credono figlio di Dio, è abbastanza grande per il mondo globale; nessuna moltiplicazione di prodotti profetici appaga l’ansia dei consumatori.
Nessuna voce dal cielo può superare le promesse degli scienziati né compensare i fallimenti della scienza. Il disincanto della secolarizzazione obbliga le profezie a un impari braccio di ferro con l’evidenza, la multireligiosità planetaria le condanna a una concorrenza sfibrante. «Cara, sta succedendo», dice alla moglie il novantaseienne «profeta» dei mormoni, quando nel cuore della notte il Signore lo sveglia e gli detta nuove rivelazioni. Allora, ha recentemente raccontato in un video la moglie, Russell M. Nelson prende la sua penna con luce incorporata, «si siede sul lato del letto, e scrive».
Lo scorso febbraio Ruth Graham ha raccontato per il «New York Times» la proliferazione di profeti americani e il loro clamoroso insuccesso nel vaticinio della rielezione di Trump. L’America esaspera la banalizzazione della profezia, ma cattura un fenomeno mondiale, cui niente e nessuno può sottrarsi. Coincidono temporalmente, quarant’anni fa, l’attentato contro Papa Wojtyla in piazza San Pietro, preannunciato a Fatima nella visione dell’Angelo «con una spada di fuoco nella mano sinistra» e dello «splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano verso di lui», e la prima profezia di Sybill Trelawney in cui si annuncia il destino di Harry Potter, «il solo col potere di sconfiggere l’Oscuro Signore». Per quanto incommensurabili, le due profezie abitano lo stesso tempo, esprimono il medesimo bisogno di mobilitare energie ulteriori al fine di cambiare la storia; per quanto speciali per i loro popoli, esse non possono evitare di mescolarsi e di influenzarsi, di relativizzarsi, fino al superamento di ogni confine tra politica e religione, tra cronaca e finzione, tra verità storica, verità di fede e verità narrativa.
Negli ultimi vent’anni s’è fatta più spettacolare la crisi della profezia. L’11 settembre 2001 la battaglia finale di Armageddon è stata portata nel cuore di New York: è apparsa la potenza di chi alle profezie crede davvero e sa farsene strumento, si è amplificato di conseguenza il terrore di chi non ha saputo prevedere e prevenire ed è perciò sprofondato in un domani di complotti e catastrofi. Un mese dopo l’11 settembre la sconfitta nei playoff di baseball degli Oakland Athletics ha innescato la rivoluzione dello sport americano raccontata dieci anni dopo nel film Moneyball. Spinto dallo squilibrio crescente tra club ricchi e club poveri, il general manager degli Athletics assolda un laureato in Economia a Yale e costruisce la squadra sui dati statistici dei giocatori e sulle relative previsioni. Nell’aspro confronto con il capo scout convinto che «non si mette su una squa
dra con un computer», perché «il baseball non è solo numeri, non è scienza», il general manager impersonato da Brad Pitt, promessa mancata del baseball professionistico, attacca il collega per la sua eccessiva fiducia nell’esperienza: «Tu non hai la sfera di cristallo, non puoi guardare un giovane e predire il suo futuro di giocatore».
Tra l’attentato di piazza San Pietro e lo svelamento del terzo segreto di Fatima nel 2000, tra la profezia di Sybill Trelawney e il successo editoriale di Harry Potter nel decennio 1997-2007, e poi tra la trionfale stagione degli Athletics nel 2002, grazie a una squadra fatta al computer, e il film del 2011, si rende sempre più evidente come la sopravvivenza della profezia coincida con il suo indebolimento e con la contaminazione tra profezie religiose e profezie scientifiche.
Nel 2014 sulla rivista americana «Current Anthropology» Carlo Caduff pubblica uno studio sui preparativi degli scienziati americani per fare fronte alle future pandemie. La forza e la debolezza degli scienziati osservati dall’antropologo del King’s College di Londra sta nel loro carisma, nel rapporto con il pubblico, insomma nella loro dimensione profetica. La «profezia pandemica», scrive Caduff, scommette sulla «fede nella ragione» per accompagnare l’umanità sulla soglia tra il noto e l’ignoto. Non solo nel baseball, non solo nell’epidemiologia, la previsione basata sui dati è la cosa che conta. Esce l’anno dopo, nel 2015, il bestseller
Superforecasting di Philip Tetlock. L’innovazione scientifico-tecnologica e la mutua fertilizzazione dei saperi hanno reso la previsione «un’arte» che è anche «una scienza». Grazie al potenziamento computazionale, argomenta Tetlock, alcuni individui di straordinaria capacità hanno dimostrato che possediamo ormai gli strumenti per previsioni di qualità superiore: la nostra è l’era del super anche nell’esercizio predittivo.
Cinque anni dopo, la pandemia da coronavirus spiazza tutti. Se la profezia con i big data soffre un colpo tremendo — non ci ha preparato a questa catastrofe e fatica a farcene uscire — la profezia religiosa sembra ancora meno utile dei modelli matematici e promette troppo presto l’aldilà. Si apre sul fronte digitale e su quello religioso, sempre più intrecciati, un tempo di crisi e di opportunità.
Le comunità dell’intelligenza artificiale e delle scienze sociali computazionali sono divise: c’è da un lato il lavoro predittivo vero, più potente e tuttavia friabile, per l’ovvietà dei risultati e la superiorità degli imprevisti; e c’è dall’altro lato la sfida della spiegazione, perché mi serve a poco predire la curva epidemica se non capisco i fattori determinanti e mi serve ancora meno l’automatismo nell’assegnazione dei mutui e nella selezione delle risorse umane se mi sfugge come funziona l’algoritmo.
Proprio sull’integrazione tra spiegazione e predizione si gioca la partita decisiva, come ha ricordato due settimane su «Nature» un gruppo di ricercatori internazionali. Non è poi tanto diversa la sfida per le profezie religiose, visto che non ci accontentiamo delle proiezioni dei demografi e delle previsioni dei teologi, perché ci serve a poco sapere che l’islam sarà la più grande religione al mondo tra 50 anni, se non sappiamo perché, a quali condizioni ciò accadrebbe e di quale islam si tratterà. Un secolo fa i futuristi italiani e russi profetizzarono un nuovo uomo nella civiltà delle macchine. Oggi chiamiamo «futuristi» i cultori dei future
studies e cioè gli studiosi e i consulenti di futuro la cui competenza è richiestissima dalle aziende e dai governi. La loro affermazione dipende dalla capacità di includere le tecnologie in una rete di saperi con cui superare la tradizionale raccolta ed elaborazione dati. I «futuristi» contemporanei non prevedono, ma anticipano, e con le loro ipotesi, i loro scenari, i loro futuri, sempre al plurale, preparano alle sorprese, ai cambiamenti, alle novità. La loro sfida alla mentalità del decisore, sia esso un dirigente pubblico o privato, è la medesima su cui si gioca il destino della profezia religiosa. Il pensiero del futuro può essere arroccamento, ripetizione, congelamento, impotenza; e la profezia è allora determinismo, destino, ineluttabilità. Oppure il pensiero del futuro può essere smarcamento, esperimento, possibilità; e la profezia è allora sorpresa, responsabilità, conversione. L’alternativa vale per tutti, scienziati computazionali e «futuristi», ingegneri e credenti, perché — come ha scritto Ruth Graham sul «New York Times», nel suo pezzo sui profeti evangelici trumpiani — «la profezia non è soltanto uno strumento predittivo, ma è una lente analitica con la quale cogliere il senso degli eventi del passato e del presente».
La crisi della profezia ci mette davanti al bivio. Certi profeti ci evitano la fatica di inseguire il senso, di ragionare diversamente, di cercare un margine d’azione. Prevedono senza spiegare. Altri profeti ci spingono oltre gli alibi, ci fanno immaginare, ci fanno scoprire spazi. Prevedono perché spiegano. È esattamente questo che ci interessa della religione del Profeta tra 50 anni. Se sarà la maggiore al mondo per il timore di scoprire fedi migliori, per popoli schiavi di sé stessi, per l’ignoranza, per la persecuzione di cristiani e gay, per la violenza di Isis e talebani, oppure perché profezia di libertà e sviluppo, di eguaglianza e giustizia, d’arte e cultura, e soprattutto di uomini e donne capaci di visione.
Sono infatti il vedere e il non vedere, la vista e la cecità, le possibilità offerte da Allah all’uomo. È la capacità di vedere, in tutti i sensi, la prova finale. «Una luce», è la risposta del Profeta a chi si chiede cosa sia «la visione di Allah»: «Voi vedrete il vostro Signore come la luna piena o il sole a mezzogiorno».