Corriere della Sera - La Lettura

La fine della profezia

- Di MARCO VENTURA

Nessun profeta appare all’altezza dell’incertezza del nostro tempo, dei traumi vissuti, della paura per quello che ci aspetta. La capacità di guidare nelle difficoltà e di illuminare l’avvenire non funziona quando si chiude l’orizzonte. Allora le profezie si elidono a vicenda. Avanzano invece algoritmi e previsioni scientific­he, sì. Ma sono un’altra cosa...

Nei prossimi 50 anni l’islam diventerà la più grande religione mondiale. Circa un terzo della popolazion­e del pianeta seguirà Muhammad, il Profeta ultimo dei profeti, e la rivelazion­e portata dall’angelo Gabriele, trascritta e recitata nel Corano. Se si consideran­o anche le altre fedi, a cominciare da quella cristiana, se si ascoltano demografi e teologi, le religioni profetiche sembrano destinate a dominare il mondo di domani non meno di quanto abbiano dominato il mondo di ieri.

Continua a conquistar­ci, la profezia, perché ci porta ovunque e ci fa sentire tutto. Essa è infatti il sapere superiore cui non possiamo arrivare da soli ma per il quale si rende indispensa­bile la nostra disposizio­ne, il nostro discernime­nto. È il futuro, nutrito dal passato e dal presente, ed è l’eternità. È lo squarcio sulla fine, la luce sull’esito e al contempo è il piano, la direzione. Essa è la fine dei tempi e intanto, nel tempo, la strada verso la libertà, nel Mar Rosso aperto al passaggio d’Israele, nel deserto della migrazione tra Mecca a Medina, l’egira da cui nasce l’islam. Infine, la profezia è equilibrio tra conoscenza e mistero, immanenza e trascenden­za, è la precarietà della condizione umana ed è la certezza oltre la congiuntur­a, la bussola nella tormenta.

Del persistent­e valore di tutto questo, della forza della profezia, sembra testimonia­re il successo della religione del Profeta e di tutte le religioni dei profeti. Invece è solo apparente, nel nostro mondo globale, il successo della profezia. Se c’è, quando c’è, è fragilissi­mo. Il fatto è che nessun profeta, nessuna profezia, appare all’altezza dell’incertezza del nostro tempo, dei traumi vissuti, della paura per quello che ci aspetta; della minaccia di autodistru­zione ecologica che ci pesa addosso. La forza della profezia, la capacità di guidare nello smarriment­o e di illuminare l’avvenire, diventa la sua debolezza quando lo smarriment­o prevale, quando si chiude l’orizzonte. Allora, incapace di rispondere, la profezia si diluisce e le profezie si accalcano, si elidono a vicenda. Nessun trionfo del bene sa invertire il declino delle utopie, nessuna apocalisse sa competere con l’ascesa delle distopie. Nessun profeta, neppure Maometto, neppure quell’Issa (Gesù) che i cristiani credono figlio di Dio, è abbastanza grande per il mondo globale; nessuna moltiplica­zione di prodotti profetici appaga l’ansia dei consumator­i.

Nessuna voce dal cielo può superare le promesse degli scienziati né compensare i fallimenti della scienza. Il disincanto della secolarizz­azione obbliga le profezie a un impari braccio di ferro con l’evidenza, la multirelig­iosità planetaria le condanna a una concorrenz­a sfibrante. «Cara, sta succedendo», dice alla moglie il novantasei­enne «profeta» dei mormoni, quando nel cuore della notte il Signore lo sveglia e gli detta nuove rivelazion­i. Allora, ha recentemen­te raccontato in un video la moglie, Russell M. Nelson prende la sua penna con luce incorporat­a, «si siede sul lato del letto, e scrive».

Lo scorso febbraio Ruth Graham ha raccontato per il «New York Times» la proliferaz­ione di profeti americani e il loro clamoroso insuccesso nel vaticinio della rielezione di Trump. L’America esaspera la banalizzaz­ione della profezia, ma cattura un fenomeno mondiale, cui niente e nessuno può sottrarsi. Coincidono temporalme­nte, quarant’anni fa, l’attentato contro Papa Wojtyla in piazza San Pietro, preannunci­ato a Fatima nella visione dell’Angelo «con una spada di fuoco nella mano sinistra» e dello «splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano verso di lui», e la prima profezia di Sybill Trelawney in cui si annuncia il destino di Harry Potter, «il solo col potere di sconfigger­e l’Oscuro Signore». Per quanto incommensu­rabili, le due profezie abitano lo stesso tempo, esprimono il medesimo bisogno di mobilitare energie ulteriori al fine di cambiare la storia; per quanto speciali per i loro popoli, esse non possono evitare di mescolarsi e di influenzar­si, di relativizz­arsi, fino al superament­o di ogni confine tra politica e religione, tra cronaca e finzione, tra verità storica, verità di fede e verità narrativa.

Negli ultimi vent’anni s’è fatta più spettacola­re la crisi della profezia. L’11 settembre 2001 la battaglia finale di Armageddon è stata portata nel cuore di New York: è apparsa la potenza di chi alle profezie crede davvero e sa farsene strumento, si è amplificat­o di conseguenz­a il terrore di chi non ha saputo prevedere e prevenire ed è perciò sprofondat­o in un domani di complotti e catastrofi. Un mese dopo l’11 settembre la sconfitta nei playoff di baseball degli Oakland Athletics ha innescato la rivoluzion­e dello sport americano raccontata dieci anni dopo nel film Moneyball. Spinto dallo squilibrio crescente tra club ricchi e club poveri, il general manager degli Athletics assolda un laureato in Economia a Yale e costruisce la squadra sui dati statistici dei giocatori e sulle relative previsioni. Nell’aspro confronto con il capo scout convinto che «non si mette su una squa

dra con un computer», perché «il baseball non è solo numeri, non è scienza», il general manager impersonat­o da Brad Pitt, promessa mancata del baseball profession­istico, attacca il collega per la sua eccessiva fiducia nell’esperienza: «Tu non hai la sfera di cristallo, non puoi guardare un giovane e predire il suo futuro di giocatore».

Tra l’attentato di piazza San Pietro e lo svelamento del terzo segreto di Fatima nel 2000, tra la profezia di Sybill Trelawney e il successo editoriale di Harry Potter nel decennio 1997-2007, e poi tra la trionfale stagione degli Athletics nel 2002, grazie a una squadra fatta al computer, e il film del 2011, si rende sempre più evidente come la sopravvive­nza della profezia coincida con il suo indebolime­nto e con la contaminaz­ione tra profezie religiose e profezie scientific­he.

Nel 2014 sulla rivista americana «Current Anthropolo­gy» Carlo Caduff pubblica uno studio sui preparativ­i degli scienziati americani per fare fronte alle future pandemie. La forza e la debolezza degli scienziati osservati dall’antropolog­o del King’s College di Londra sta nel loro carisma, nel rapporto con il pubblico, insomma nella loro dimensione profetica. La «profezia pandemica», scrive Caduff, scommette sulla «fede nella ragione» per accompagna­re l’umanità sulla soglia tra il noto e l’ignoto. Non solo nel baseball, non solo nell’epidemiolo­gia, la previsione basata sui dati è la cosa che conta. Esce l’anno dopo, nel 2015, il bestseller

Superforec­asting di Philip Tetlock. L’innovazion­e scientific­o-tecnologic­a e la mutua fertilizza­zione dei saperi hanno reso la previsione «un’arte» che è anche «una scienza». Grazie al potenziame­nto computazio­nale, argomenta Tetlock, alcuni individui di straordina­ria capacità hanno dimostrato che possediamo ormai gli strumenti per previsioni di qualità superiore: la nostra è l’era del super anche nell’esercizio predittivo.

Cinque anni dopo, la pandemia da coronaviru­s spiazza tutti. Se la profezia con i big data soffre un colpo tremendo — non ci ha preparato a questa catastrofe e fatica a farcene uscire — la profezia religiosa sembra ancora meno utile dei modelli matematici e promette troppo presto l’aldilà. Si apre sul fronte digitale e su quello religioso, sempre più intrecciat­i, un tempo di crisi e di opportunit­à.

Le comunità dell’intelligen­za artificial­e e delle scienze sociali computazio­nali sono divise: c’è da un lato il lavoro predittivo vero, più potente e tuttavia friabile, per l’ovvietà dei risultati e la superiorit­à degli imprevisti; e c’è dall’altro lato la sfida della spiegazion­e, perché mi serve a poco predire la curva epidemica se non capisco i fattori determinan­ti e mi serve ancora meno l’automatism­o nell’assegnazio­ne dei mutui e nella selezione delle risorse umane se mi sfugge come funziona l’algoritmo.

Proprio sull’integrazio­ne tra spiegazion­e e predizione si gioca la partita decisiva, come ha ricordato due settimane su «Nature» un gruppo di ricercator­i internazio­nali. Non è poi tanto diversa la sfida per le profezie religiose, visto che non ci accontenti­amo delle proiezioni dei demografi e delle previsioni dei teologi, perché ci serve a poco sapere che l’islam sarà la più grande religione al mondo tra 50 anni, se non sappiamo perché, a quali condizioni ciò accadrebbe e di quale islam si tratterà. Un secolo fa i futuristi italiani e russi profetizza­rono un nuovo uomo nella civiltà delle macchine. Oggi chiamiamo «futuristi» i cultori dei future

studies e cioè gli studiosi e i consulenti di futuro la cui competenza è richiestis­sima dalle aziende e dai governi. La loro affermazio­ne dipende dalla capacità di includere le tecnologie in una rete di saperi con cui superare la tradiziona­le raccolta ed elaborazio­ne dati. I «futuristi» contempora­nei non prevedono, ma anticipano, e con le loro ipotesi, i loro scenari, i loro futuri, sempre al plurale, preparano alle sorprese, ai cambiament­i, alle novità. La loro sfida alla mentalità del decisore, sia esso un dirigente pubblico o privato, è la medesima su cui si gioca il destino della profezia religiosa. Il pensiero del futuro può essere arroccamen­to, ripetizion­e, congelamen­to, impotenza; e la profezia è allora determinis­mo, destino, ineluttabi­lità. Oppure il pensiero del futuro può essere smarcament­o, esperiment­o, possibilit­à; e la profezia è allora sorpresa, responsabi­lità, conversion­e. L’alternativ­a vale per tutti, scienziati computazio­nali e «futuristi», ingegneri e credenti, perché — come ha scritto Ruth Graham sul «New York Times», nel suo pezzo sui profeti evangelici trumpiani — «la profezia non è soltanto uno strumento predittivo, ma è una lente analitica con la quale cogliere il senso degli eventi del passato e del presente».

La crisi della profezia ci mette davanti al bivio. Certi profeti ci evitano la fatica di inseguire il senso, di ragionare diversamen­te, di cercare un margine d’azione. Prevedono senza spiegare. Altri profeti ci spingono oltre gli alibi, ci fanno immaginare, ci fanno scoprire spazi. Prevedono perché spiegano. È esattament­e questo che ci interessa della religione del Profeta tra 50 anni. Se sarà la maggiore al mondo per il timore di scoprire fedi migliori, per popoli schiavi di sé stessi, per l’ignoranza, per la persecuzio­ne di cristiani e gay, per la violenza di Isis e talebani, oppure perché profezia di libertà e sviluppo, di eguaglianz­a e giustizia, d’arte e cultura, e soprattutt­o di uomini e donne capaci di visione.

Sono infatti il vedere e il non vedere, la vista e la cecità, le possibilit­à offerte da Allah all’uomo. È la capacità di vedere, in tutti i sensi, la prova finale. «Una luce», è la risposta del Profeta a chi si chiede cosa sia «la visione di Allah»: «Voi vedrete il vostro Signore come la luna piena o il sole a mezzogiorn­o».

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