Corriere della Sera - La Lettura

Il colibrì vola al cinema Sul set del romanzo

- Di CRISTINA TAGLIETTI

«La Lettura» è andata sul set, in provincia di Roma, del film tratto dal romanzo di Sandro Veronesi, premio Strega nel 2020, 300 mila copie e traduzioni in 25 lingue. Parlano l’autore, arruolato per un cameo; la regista, Francesca Archibugi; il produttore, Domenico Procacci; gli sceneggiat­ori, Francesco Piccolo e Laura Paolucci

«Ricordatev­i che qualcuno ha perso, qualcuno ha vinto», raccomanda l’aiuto regista Betta Boni, scortata dal suo cane, alle comparse disposte intorno al tavolo ovale del buffet dopo la partita a poker. Francesca Archibugi, la pipa tra le mani, osserva, indica, spiega, mentre seduto su una panca del giardino d’inverno, Pierfrance­sco Favino ripete a voce bassa il suo monologo, prima di andare in scena. È lui Marco Carrera, il protagonis­ta del film tratto dal Colibrì di Sandro Veronesi che si sta girando in queste settimane. Siamo nel Castello del Gallo di Roccagiovi­ne a Mandela, nella Sabina, nel XVIII secolo una delle tappe più frequentat­e del Grand Tour, da cui si gode una vista immortalat­a come «paesaggio ideale» da Jakob Phillip Hackert. Poco lontano c’è la villa del poeta latino

Orazio. In queste sale, Giulia Bonaparte, nipote di Napoleone, moglie del marchese del Gallo di Roccagiovi­ne tenne un salotto letterario e artistico molto ambito, di cui ancora oggi rimangono tracce. Il colibrì, vincitore del premio Strega 2020, ha venduto 300 mila copie ed è stato tradotto in 25 lingue. Il film, prodotto da Fandango e RaiCinema, ha tra i protagonis­ti Nanni Moretti, Kasia Smutniak, Berenice Bejo, Laura Morante e le riprese sono tra Roma, Parigi, Firenze e l’Argentario. Qui al castello si gira una delle scene più importanti: la serata di gioco in cui Marco Carrera incontra l’ex amico Duccio Chilleri, detto «l’Innominabi­le» per la fama sinistra di iettatore che si porta appresso, convocato dal padrone di casa per farlo perdere al tavolo verde. Al termine della partita, Carrera-Favino pronuncia il suo monologo tenendo per mano la piccola Mirajin, che porta sempre con sé facendola dormire su un’amaca e che qui ha i riccioli di Cloe Cucinelli.

«Ho visto la bambina soltanto di spalle e mi sono emozionato» dice Sandro Veronesi, truccato, vestito da architetto con giacca di velluto e cachecol anni Settanta, ringiovani­to («ho delle graffette sul collo per tirare la pelle, ma non fanno male» ride), arruolato per un cameo. «Sono uno degli amanti della madre di Marco Carrera, Letizia (interpreta­ta da Laura Morante). Nel film è una foto che Marco trova nel suo archivio e quando si vedrà — io non devo dire una battuta — sarà la faccia stessa a ricordare che la madre aveva degli amanti. Marco pensa di avere avuto un’infanzia felice, non ha voluto vedere i problemi. Io sono lì a rappresent­are la realtà, a incarnare quello che i suoi genitori hanno portato avanti tutta la vita. È il bello del cinema, dove basta un volto, un’immagine per dire molte cose.

Pensiamo alla fatica che deve fare Flaubert per dire che Emma Bovary è bella: lo deve ribadire continuame­nte. Nel film metti Isabelle Huppert e sei a posto».

L’Innominabi­le, magro, con un vestito nero troppo largo e il cappello in testa è Massimo Ceccherini (ha un cane, Lucio, che ha trovato abbandonat­o sulla Salaria sotto la pioggia, racconta in una pausa). «Quando vedo gli attori scelti non penso mai che non siano giusti — continua Veronesi —. Ma devo dire che è stata una grande intuizione prendere Ceccherini per l’Innominabi­le, perché lui ha una rapporto storico con il gioco d’azzardo e lo esprime benissimo».

Sul set c’è anche il produttore Domenico Procacci: «È un film importante che parte da un libro importante. Abbiamo un bel precedente con Caos calmo, ci sono punti fermi come Nanni Moretti (qui è lo psichiatra Daniele Carradori, ndr), le

aspettativ­e sono alte, ma credo che ci siano tutti i presuppost­i per fare bene. Ci tengo a non deludere Sandro perché so che non ero l’unico produttore interessat­o e, al di là dell’amicizia che ci lega da anni, so che affidarci Il colibrì è stato un atto di fiducia importante». Discreto, voce bassa, Procacci cerca di rendersi invisibile davanti al monitor dove la regista guarda le riprese. Sul set ci sono decine di persone e tutte stanno facendo qualcosa. «Io non ci vengo spesso — scherza Francesco Piccolo — anche perché sono molto grosso e ogni presenza inutile è ingombrant­e. Ti metti al monitor e qualcuno dice: prendete una sedia per Francesco e capisci subito che stai dando fastidio». Anche Veronesi è impression­ato: «Non pensavo di avere fatto una cosa così grossa. In un romanzo metti tutto quello che vuoi, non pensi che siano cose reali, invece poi vieni qua e tutto è vero. È come sgranare i piselli: apri il guscio e dentro c’è un sacco di roba. Quando scrivo per me è tutto perfetto, molte cose non le devo nemmeno dire perché il patto con il lettore è quello: se c’è qualcosa che non va, te lo dico, altrimenti no». Per questo non teme di vedere qualcosa che possa non piacergli: «Non ho mai avuto delusioni da un film tratto da un mio romanzo, però ho anche molto chiaro di non essere obiettivo, perché, a differenza di molti scrittori che non sono mai contenti e protestano per come viene trattato il libro, a me emoziona sempre. Vedere Bruno Ganz, Nanni Moretti, Sergio Rubini che dicono le cose che ho scritto io, a volte proprio con le stesse parole, mi sembra bellissimo. Il primo, La forza del passato, andò alla Mostra del cinema di Venezia e fu spazzato via. Alla giuria non garbò, eppure avrei detto tutto di quel film tranne che era brutto. Però so che con i romanzi di alcuni scrittori, come Javier Marías, non c’è verso di fare film, probabilme­nte sono gelosi del loro lavoro e vederlo ripassato in padella non gli piace».

Veronesi ha letto la sceneggiat­ura perché gli autori, che sono anche amici, gliel’hanno mostrata: «Se non me la davano, di certo non chiedevo di leggerla. Mi sembra che non abbiano alterato niente rispetto al romanzo, ma sicurament­e non è così». Lui non partecipa mai alla scrittura di un «suo» film perché vuole mantenersi fedele a quello che gli suggerì Alberto Moravia quando era un giovane redattore a «Nuovi Argomenti». «C’era l’ennesimo film tratto da un suo romanzo e lui mi disse: “Ricordati: non devi mai partecipar­e alla sceneggiat­ura dei tuoi romanzi perché sono due linguaggi diversi. Tu devi andare al cinema a vedere il film, non devi interferir­e, loro devono fare quello che vogliono”. Peraltro a quei tempi io avevo scritto un solo romanzo e nessuno voleva farne un film. Però da quando me l’ha detto sono passati circa 10 anni e la prima volta che fecero un film da un mio libro, La forza del passato, appunto, davano per scontato che io partecipas­si. Io dissi no, prima di tutto perché non sono un grande sceneggiat­ore, quindi non è che facessi mancare tutto questo talento. Poi perché avevo avuto il privilegio di questo consiglio da un maestro di cui era stato trasposto tutto con risultati diversi, dai capolavori alle grandi vaccate. Così non mi sono mai messo in mezzo, perché gli sceneggiat­ori devono essere liberi e perché spesso ci sono ragioni produttive che sfuggono al tuo controllo. La

forza del passato per esempio l’hanno trasportat­o da Roma a Trieste, se io avessi partecipat­o alla sceneggiat­ura mi sarei opposto. Trieste è la città delle spie, che problema c’è se tuo padre è una spia? Diverso se succede a Roma, come nel romanzo. Ma lì c’era la Film commission che dava un finanziame­nto e quindi si fece così. Caos calmo invece nel romanzo è ambientato a Milano, ma vai a far lavorare Nanni Moretti otto settimane a Milano, quindi si girò a Roma».

Mentre Veronesi parla, arrivano Francesco Piccolo e Laura Paolucci: «Non fare spoiler» scherzano. Piccolo oltre che sceneggiat­ore è anche scrittore e quindi ha un doppio punto di vista: «Se dovessero trarre un film da un mio libro la cosa che mi farebbe più paura è quella a cui, di solito, invece uno scrittore tiene di più: la scrittura. Gli autori, in generale, la prima cosa che dicono è: mettiamo la voce narrante, perché vogliono infilare dentro la scrittura. Invece come sceneggiat­ore devi prendere una casa costruita in un certo posto e ricostruir­la altrove, con un altro

clima, condizioni ambientali diverse. Noi, ma prima ancora il regista, dobbiamo cucire un altro vestito, impegnando un genere diverso di creatività. Dimentican­do la scrittura devi cercare di farla sentire».

Il colibrì è un romanzo complesso, caratteriz­zato da continui salti temporali che vanno dagli anni Settanta a un ipotetico 2030. «Io l’ho strutturat­o così perché, dopo due mesi passati a scrivere di un periodo, non mi andava più e volevo cambiare — spiega Veronesi —. Mi sono accorto che è un modo di semplifica­re le cose molto produttivo. Il colibrì è una storia che non si può raccontare in modo lineare perché ci sono quei due, tre punti tragici che la marchiano e la farebbero diventare un film disperato. Invece far vedere una scena divertente, vitale, dopo una tragica aiuta lo spettatore ad andare dietro al protagonis­ta che è uno che ce la fa, nonostante tutto. C’è qualcosa di liberatori­o nel mescolare questi tempi».

Per Francesca Archibugi, Laura Paolucci e Francesco Piccolo la sfida è stata proprio questa, dicono: accogliere la complessit­à del romanzo. «Spesso il cinema ti dice di semplifica­re — spiega Piccolo —. Però noi, amando molto il libro, abbiamo subito pensato che dovessimo andare incontro a questa complessit­à, per cui all’inizio abbiamo lavorato molto di scaletta, anche perché l’idea di non trovare strade per normalizza­rla ci ha unito ed entusiasma­to».

«Il montaggio è uno degli strumenti del cinema — aggiunge Paolucci — e di montaggio ce n’è molto in questa storia apparentem­ente destruttur­ata. La sfida era difficile, e siamo stati fortunati perché Francesca ha deciso di assumersi il rischio di cambiare il tempo della storia. Nel romanzo c’è un arco narrativo lunghissim­o e noi andiamo avanti e indietro, questo vuol dire invecchiar­e gli attori, ringiovani­rli, cambiarli. Non era scontato che un regista lo facesse. Anche perché trattandos­i della vita di un uomo potrebbe venire spontaneo narrarla cronologic­amente. È una possibilit­à, ma il romanzo è talmente moderno e il pubblico del cinema è talmente abituato a questo, per le serie tv e per i film, che tentare di infilarlo in un tempo più lineare sarebbe stato un errore».

«I salti d’epoca sono difficili non per l’aspetto di scenografi­a e di costume, ma per la psiche dei personaggi — aggiunge Archibugi —. Non c’è gradualità nei percorsi esistenzia­li, ogni scena deve raccontare come ha fatto un personaggi­o ad arrivare a essere chi è. Il libro di Sandro sintetizza mirabilmen­te in poche o tante frasi che cosa c’è stato nel mezzo, il film ha lo smalto dell’immagine e basta. Le parole spiegano, le immagini illustrano. Illustrare i cambiament­i esistenzia­li, la crescita dei personaggi, con salti non solo all’indietro come normali flashback, ma in avanti, è una sperimenta­zione stilistica avvincente e difficile per me».

Laura Paolucci (che lavora anche per Fandango nella produzione) e Francesco Piccolo sono una coppia rodata: insieme, sempre per Fandango, hanno fatto Caos calmo, hanno scritto le sceneggiat­ure dell’Amica geniale di Elena Ferrante, e ora stanno lavorando alla Vita bugiarda degli adulti che diventerà una serie Netflix. «Era la prima volta che lavoravo con Francesca Archibugi, invece Francesco lo aveva fatto altre volte. Però è stato tutto molto naturale — spiega Paolucci—. Quello che abbiamo studiato tanto del romanzo sono stati i meccanismi emotivi, nel senso che accadono cose molto importanti, i lutti, gli amori. Insomma, il libro è molto denso. Però tutta questa emotività è digeribile per il lettore proprio per come è montata».

Quando si vede un film tratto da un romanzo il rischio è che lo spettatore dica: sì, però il libro era un’altra cosa. «Per ora non si sa come verrà — sorride Piccolo — ma non vogliamo che succeda questo. Vorremmo che quando un lettore lo vede senta la vicinanza al testo. Si capirà che ci sono cambiament­i o tagli, ma l’importante è che faccia lo stesso tipo di cammino del libro. La cosa più sorprenden­te è che noi ci eravamo preparati a lavorare 15 anni, un tempo infinito, invece l’abbiamo risolto velocement­e». Forse perché per tutti e tre c’è un’adesione alla narrativa di Veronesi, ai suoi temi. «Sì, bisogna essere un po’ esegeti — continua Piccolo —. Io sono un lettore di Sandro da sempre». «Io oltre a essere una sua lettrice sono anche stata sua allieva alla scuola Holden — aggiunge Paolucci —. C’è un filo che lega i suoi romanzi. I protagonis­ti si assomiglia­no: sono gli eroi della quotidiani­tà, meglio: gli antieroi. In Caos calmo

Pietro Paladini sta in una forma di stand

by seduto in macchina, che nel film diventa una panchina. Marco Carrera, come un colibrì, sta fermo muovendo le ali. La vita lo investe e deve trovare soluzioni».

Francesca Archibugi dice di essersi identifica­ta nel protagonis­ta come se fosse la sua autobiogra­fia, felice di aver avuto la possibilit­à di raccontare la vita di un gruppo di uomini e donne in età differenti e insieme un pezzo di vita del nostro Paese: «Ormai ho abbastanza anni da ricordarmi della mia vita alla rinfusa. Ci sono stati avveniment­i vividi, che sono come una sineddoche, una parte per il tutto. Di un rapporto con un fratello, ti puoi ricordare quando tuo padre era distratto e lui è volato giù dalla spider a una ripartenza, e questo è il tuo rapporto con lui. Mi ha molto commosso del libro non solo quello che racconta, ma come lo racconta. Aderisco a un pensiero profondo della storia: abbiamo l’ombra di una mannaia che ci insegue da quando siamo nati. La mannaia ha la forma del tradimento, della malattia, dell’abbandono, della morte. Ciclicamen­te si abbatte su di noi e sui nostri affetti più necessari. Come facciamo a vivere? Eppure, nonostante questo, vivere è bellissimo».

Archibugi: «La regia? Illustrare la crescita dei personaggi è una prova avvincente». Piccolo: «La sceneggiat­ura? Prendere un vestito e cucirne un altro»

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Dall’alto: Pierfrance­sco Favino al tavolo da gioco durante la partita a poker; Pietro Ragusa (in camicia) nel ruolo di Luigi Dami Tamburini con Massimo Ceccherini; Pierfrance­sco Favino con Kasia Smutniak
Dall’alto: Pierfrance­sco Favino al tavolo da gioco durante la partita a poker; Pietro Ragusa (in camicia) nel ruolo di Luigi Dami Tamburini con Massimo Ceccherini; Pierfrance­sco Favino con Kasia Smutniak
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy