Corriere della Sera - La Lettura
La fabbrica forgia i vent’anni. E l’amore
Un’iniziazione picaresca tra operai cialtroni e quadri arroganti raccontata da Lu Nei
C’era un tempo in cui le fabbriche fabbricavano uomini. In Cina quella stagione è durata fino agli anni Novanta, quando l’accelerazione delle riforme e la dismissione dei grandi impianti statali cambiarono il paesaggio industriale ma soprattutto sociale del Paese. Erano state, fino ad allora, fabbriche-casa, fabbriche-mondo, anche fabbrichemamma e fabbriche-moglie. Ed è in uno stabilimento così che viene forgiato Lu Xiaolu, protagonista di Giovane Babilonia di Lu Nei, autore dai molti mestieri dietro le spalle che nel 2007 si affermò con questo romanzo, ambientato nell’immaginaria ma plausibile città di Daicheng e collocato nel 1992.
Il giovane Lu indossa i propri vent’anni con spudorata temerarietà: entra nella fabbrica di saccarina e si ritrova a orbitare in un microcosmo che rispecchia fedelmente il macrocosmo burocratico di un Paese che comincia a farsi risucchiare dalla vertigine del turbocapitalismo socialista con caratteristiche cinesi. «Il genere umano evolve. Di generazione in generazione subisce delle trasformazioni, ma negli anni Novanta sembrava che progredisse di anno in anno. È stato un decennio davvero strano», fa dire Lu Nei al suo protagonista, che incappa in capireparto cialtroni, quadri arroganti e truffatori, torpide «ziette», tutta un’umanità che nei meandri dello stabilimento è prigioniera e insieme protetta.
Prosa scanzonata, amaramente beffarda, a tratti un po’ alla Yu Hua. I personaggi, nella generale inconsapevolezza, vivono un mutamento epocale, mentre Lu Xiaolu pian piano cresce, s’inoltra in una sorta di percorso iniziatico, conosce cose, apprende i piccoli misteri della vita. «Trasudavo l’odore di classe operaia da tutti i pori, non ero più l’apprendista titubante che farfugliava»: peccato che, nella Cina che cambia, la classe operaia non sia più quella di una volta. Anzi non sia proprio più nulla: non una classe, appunto, ma un’accozzaglia di individui che s’infrattano per ubriacarsi o dormire, si scazzottano, vogliono fare il karaoke. Gli anziani surrogano per un attimo la figura paterna, quindi come padri mediocri spariscono o deludono. Per fortuna di Lu Xiaolu nella fabbrica c’è anche la dottoressa Bai Lan, che «sembrava un frutto trapiantato fuori stagione in quell’edificio buio». Lui acquista fiducia, capisce che quando scavalca i muri della fabbrica lo fa «per provare la sensazione di fuggire dalla realtà» e che quelli come lui «assomigliano ai poeti». Orfana di genitori, cinica il giusto e molto lucida, inizialmente distante, Bai Lan si staglia contro l’universo picaresco e impone al protagonista la divorante evidenza dell’amore: lo spossessamento di sé si manifesta nel desiderio, non più nell’alienazione del lavoro. Un salto di prospettiva, di tutto. Bai Lan «era efficiente e metodica, al contrario di me. Era un onore che avesse pianificato la sua vita nei dettagli e poi fosse venuta a letto con un piccolo mascalzone come me». Si ameranno, si perderanno. La produzione di saccarina sarà pure stata un disastro, ma almeno un paio di destini la fabbrica li plasma.