Corriere della Sera - La Lettura
Nessuna parola ci salva dopo la fine Forse lo fa la neve
fu la prima austriaca a raccontare dei campi di sterminio. Le sue liriche tradotte ora
Dal Novecento a oggi, per quanto riguarda la poesia, in Italia si è tradotto davvero tanto. Di conseguenza non capita spesso che arrivi come una primizia qualche opera di valore proveniente dagli anni passati. Ma è giusto quello che accade adesso con
Consiglio gratuito di Ilse Aichinger, la scrittrice austriaca di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita (viennese, è mancata nel 2016) e che qualche lettore italiano conoscerà per il romanzo autobiografico La speranza più grande.
Pubblicato nel 1978 e poi, con l’aggiunta di qualche testo, nel 1991, Consiglio gratuito è l’unico libro di poesia di quest’autrice ebrea per parte di madre, la cui esistenza fu tragicamente segnata dall’avvento del nazismo e dalle persecuzioni razziali (è stato curato e tradotto da Giusi Drago). Detto in breve, la sorella gemella era stata mandata in Inghilterra nel 1938 dopo una visita in casa Aichinger nientemeno che del dottor Josef Mengele, già allora interessato alle coppie di gemelli. Ma poi lo scoppio della guerra impedì al resto della famiglia di fare altrettanto. Nel 1942 la nonna e la zia furono così deportate e uccise a Minsk.
Il lettore di queste poesie, che per altro sono strettamente connesse col resto dell’opera di Aichinger (il romanzo, alcuni racconti formidabili e qualche prosa), dovrà dunque sempre tenere presente l’esistenza di questo taglio o discrimine storico-esistenziale — il nazismo, il genocidio degli ebrei — anche quando non richiamato esplicitamente. Non è un caso che proprio a lei si debba il primo scritto della letteratura austriaca
(Il quarto cancello, un racconto del 1945) nel quale si fa riferimento diretto ai campi di concentramento.
Come Primo Levi, come Paul Celan, Ilse Aichinger è dunque una scrittrice postuma alla vita, una scrittrice del dopo: il dopo-Auschwitz, il dopo la fine. E lo è certo a suo modo, con poche e scrupolosissime parole, senza spreco di fiato (è una poesia laconica, la sua), e con la capacità di sentire il silenzio non come un limite di cancellazione e annichilimento, ma come una possibilità di pulizia dello sguardo e della lingua, come verità, forse anche come purificazione. Del resto, l’idea del vivere e dello scrivere partendo dalla fine («i giorni della fine» di cui dice in una sua poesia) ha costituito di fatto la sua poetica, sia in prosa sia in poesia. «Chi mi chiarisce il quadro,/ chi ripesca fuori dalla pioggia/ le loro figure leggere,/ chi cattura i loro cappucci di nuvole,/ chi mi regola la meridiana?», scrive riferendosi agli amici perduti. Ma il tema dell’orientamento nel tempo presente non assume qui la direzione forse più prevedibile: quella di una ricostruzione a partire dalle macerie, di un’illusione di cominciamento e di futuro. Al contrario, si trova in questi versi una continua deprecazione del fare finta che, della cecità, della condiscendenza, delle speranze facili, della dimenticanza. E infatti: «Non mi fido della pace/ dei vicini, dei cespugli di rose,/ della parola sussurrata». Ma poi anche «il sopportabile si rende sospetto».
Come accade sempre nei poeti veri, allora, il rapporto con la realtà diventa immediatamente un rapporto con la lingua. Così in Ilse Aichinger è anzitutto alla parola che viene rivolto il primo sospetto, come una specie di diffidenza costante e tutto sommato insuperabile, tant’è che si ritrova anche nei raggiungimenti poetici più alti e indubitabili. Queste poesie sono fortemente evocative, perché dicono senza spiegare o parafrasare, lasciando invece ampio spazio all’immaginazione, che è chiamata a seguire e ricostruire un pensiero sulla vita che si avverte comunque fondato e profondo. Ma certo non sono poesie sussurrate. La pronuncia è invece forte e decisa, il discorso poetico procede con un segno netto e marcato, appoggiandosi a parole elementari, basiche, che questa poetessa mostra di prediligere particolarmente. Ad esempio neve, siepe, fieno.
In tanta attenzione e in tanto senso di realtà affiora così anche una tensione mistica. E forse sta proprio qui il senso ultimo di questa poesia: «La certezza che non esiste consolazione/ bensì l’esultanza,/ fieno, neve e fine».