Corriere della Sera - La Lettura

La parola può guarire

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Le invocazion­i, le formule magiche, le iscrizioni, il «logos» del Vangelo di Giovanni e l’«om mani padme hum» del buddhismo tibetano, le narrazioni terapeutic­he: la storia dell’uomo è la storia di quello che dice per stare bene

Nella commedia di Woody Allen del 2001, La maledizion­e dello scorpione di giada ,idue protagonis­ti vengono ipnotizzat­i da un mago truffaldin­o di nome Voltan e soggiogati attraverso il potere di due parole: «Costantino­poli» e «Madagascar». Se nel film il potere della vocalizzaz­ione della parola viene usato per compiere diversi furti, l’idea che nelle parole risieda un potere più profondo che va al di là del loro semplice significat­o è una credenza che ha radici antichissi­me nella storia dell’umanità: ogni cultura possiede alcune «parole di potere» e all’interno di queste ve ne sono alcune che sono state usate, a differenza del film di Allen, a scopo benefico, per curare o per curarsi.

Il potere magico delle parole è correlato alla loro stessa conoscenza: conoscere il nome segreto di qualcosa equivale ad avere potere su di essa, ed è lo stesso per quanto riguarda le «formule magiche»: il mago che ne è a conoscenza ha il potere di agire su due piani diversi, quello del microcosmo e del macrocosmo, muovendo a suo piacere la rete di relazioni di cui è composto il mondo. In passato esisteva la convinzion­e secondo la quale queste parole fossero diretta espression­e di un’epoca arcaica ormai perduta, basti pensare alla parola magica più famosa di tutte: «Abracadabr­a» che, nonostante avesse smarrito il suo significat­o già nel III secolo d.C. (peraltro non era mai stato chiarito definitiva­mente), veniva usata inscritta in amuleti piramidali per allontanar­e le malattie. A ogni riga una lettera veniva sottratta, e come si esaurivano le lettere nel vertice in basso così anche la malattia avrebbe dovuto allontanar­si da chi portava l’amuleto, in un gioco di simpatie che sarebbe stato caro al James Frazer de Il ramo d’oro.

Ancora oggi la parola magica per antonomasi­a risuona nell’Avada kedavra harrypotte­riano. Nella cultura greca e latina è necessario ricordare Gorgia, che nell’Encomio di Elena scrisse, a riguardo della parola: «Può spegnere la paura, scacciare il dolore, suscitare la gioia, alimentare la pietà» e Plutarco su Antifonte di Ramnunte, oratore ateniese che a Corinto «proclamò pubblicame­nte di poter curare con i discorsi chi provava dolore». Ancora piuttosto nota è invece la formula proposta da Catone nel De agri cultura per curare una lussazione: dopo alcuni rituali, si sarebbe dovuto cantare ogni giorno lo scongiuro haut haut istasis tarsis ardannabon agitando una canna verde che poi veniva usata, più prosaicame­nte, per steccare l’arto malmesso del malato. Anche la cultura cristiana si è radicata attorno ad alcune parole importanti: il prologo del Vangelo di Giovanni «In principio era il Logos», per esempio, è un’attestazio­ne della presenza del Verbo dall’inizio dei tempi, cioè del Cristo e della sua consustanz­ialità con Dio, in un’espression­e, quella del logos, immediatam­ente comprensib­ile sia ai lettori di cultura greca che ebraica.

Ma oltre a qualcuno che pronuncia il verbo, c’è bisogno di qualcuno che lo ascolti autenticam­ente, come ricorda il filosofo tedesco Martin Heidegger in Saggi e discorsi: «L’udire autentico appartiene al Logos». È in effetti nel Nuovo Testamento che possiamo rintraccia­re questo udire: dal Discorso della montagna, che insegnò a un intero popolo a pregare, al Talitha kum («fanciulla, alzati») espression­e aramaica che Gesù rivolge alla figlia di Giairo nel Vangelo di Marco nell’atto di farla ritornare dal mondo dei morti, passando per l’episodio, ricordato in ogni messa, del centurione che chiede solo una parola affinché il suo servo sia guarito. La parola che sta nella Bibbia è stata poi usata in molti modi: dalla bibliomanz­ia, tollerata da Sant’Agostino e poi vietata nell’VIII secolo, a I Vangeli per guarire di Alejandro Jodorowsky, che fa delle narrazioni cristiche un mythos con il quale il logos di Giovanni è in netta contrappos­izione.

Se da Occidente ci spostiamo verso est (o anche su TikTok, dove non è difficile imbattersi in giovanissi­mi infuencer della spirituali­tà) un discorso non troppo dissimile può essere fatto per i mantra della cultura indiana e poi orientale: formule sacre e antichissi­me ripetute ossessivam­ente che, attraverso la distruzion­e del significat­o, hanno il potere di compiere trasformaz­ioni nello spirito e nel corpo di chi li recita, attirando buoni presagi o preservand­o dal pericolo. Oggi mantra come om mani padme hum ,«o gioiello del loto», che appartiene alla tradizione del buddhismo tibetano, vengono insegnati in molte palestre occidental­i.

Ma non sono soltanto le parole, che possono provocare effetti benefici: quando queste si organizzan­o in narrazioni possono fare in modo di creare un sentimento mimetico in chi le ascolta, provocando turbamenti risolutivi, o drammi catartici. È il caso, per esempio, della tragedia greca, e del suo valore educativo, o delle storie degli ashokh, i bardi locali dell’Asia, di cui parla George Gurdjieff nel primo capitolo del suo Incontri con uomini straordina­ri: fu proprio attraverso l’ascolto di quei racconti orali che il mistico apprese quel fattore spirituali­zzante che gli avrebbe schiuso la «comprensio­ne dell’incomprens­ibile».

Storie di potere altrettant­o riuscite sono quelle che lo scrittore peruviano Carlos Castaneda, riceve da Don Juan nel suo quarto libro, L’isola del Tonal, storie che gli serviranno per arrivare alla totalità di sé stesso. È stata invece la psicanalis­i a riscoprire il valore terapeutic­o delle fiabe tradiziona­li, mostrando come in quei racconti risieda qualcosa di profondo, che ha a che fare con l’inconscio e il nostro rapporto con esso. È il caso, per esempio, della «redenzione» che affronta Marie-Louise von Franz nelle sette conferenze sul tema presenti in Le fiabe del lieto fine, in cui la studiosa analizza come la liberazion­e dal maleficio nella fiaba rappresent­i anche la liberazion­e del paziente da una nevrosi, o i miti greci rappresent­ati da James Hillman in Storie che curano, appena ripubblica­to.

Degni di nota, in questa carrellata di storie curative, sono il lavoro di Clarissa Pinkola Estés, che nel suo celebre Donne che corrono coi lupi offre una psicanalis­i del femminile ripresa dai miti e dalle fiabe ricostruen­do il mito della «donna selvaggia», e quello di Colin Wilson, che nel suo capolavoro L’outsider analizza le vite di diversi autori della storia della letteratur­a e della filosofia per giungere a una nuova e completa definizion­e di libertà.

Le storie hanno dunque un potere innegabile, che dovremmo ogni volta scegliere come usare. Ogni parola può essere una benedizion­e, sia che la iscriviamo in un amuleto magico, o che la usiamo per avere cura degli altri, senza mai dimenticar­e che un nome segreto potrebbe, a un certo punto della nostra vita, farci fare gesti che non vogliamo, perché nessuno di noi può essere mai al sicuro dal potere delle parole. Costantino­poli. Madagascar.

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