Corriere della Sera - La Lettura
Nella Crimea straziata da Bianchi e Rossi
Ivan Šmelëv descrive la tragedia della guerra civile tra reazionari e bolscevichi
Se si parla di Crimea, oggi, si pensa all’occupazione russa del 2014 e al conflitto tuttora in corso tra le forze di Vladimir Putin e l’Ucraina nel Donbass. Eppure la Crimea fu epicentro importante anche nel corso della guerra civile russa, per motivi geopolitici in parte analoghi a quelli di oggi.
Proprio sul quello scontro in Crimea giunge adesso, a quasi un secolo di distanza, un romanzo immaginifico e profondo, scritto nel 1923 in Francia, che piacque molto a Thomas Mann. Il sole dei morti — questo il titolo del libro di Ivan Šmelëv edito da Bompiani — è un’epopea della sofferenza, di cui le vittime prime e inconsapevoli sono gli animali, un racconto di disumanità — tale è la guerra civile sia da parte dei Bianchi che dei Rossi — in cui le persone fanno fatica a distinguere un’apparenza di razionalità, nel contesto di una natura bella e fortunata come quella della Crimea meridionale.
Il romanzo, mai pubblicato prima in Italia, anche se tradotto negli anni Trenta, è un lungo canto funebre che pone in contrasto una natura rigogliosa e una storia — quella russa di sette anni ininterrotti di guerra e miseria, violenza e brutalità — che sembra sopraffare gli esseri umani come una tragedia antica. L’agonia del territorio attorno ad Alusta, tra i monti e il Mar Nero, colpisce animali e uomini, case e monasteri, vigne, frutteti e roseti, frutto della «vendetta» dei vincitori, di quell’«audace esperimento rivoluzionario» che tratta tutti coloro che vivono nella riviera della Crimea, indiscriminatamente, da «nemici del popolo».
Šmelëv emigra alla fine del 1922, quando ha ormai perso la speranza di ritrovare il figlio vivo, con un visto per Berlino, e nel gennaio successivo a Parigi dove viene accolto da Ivan Bunin, che vi è scappato nel 1919 per avere combattuto contro i bolscevichi.
La splendida traduzione di Sergio Rapetti ci immerge nel racconto della bellezza molteplice del paesaggio circostante («il lirismo delle descrizioni della natura — scrive — tra le più belle della letteratura russa»), ed è accompagnata da una postfazione — questa dovrebbe essere la regola: non prefazioni che anticipano e indirizzano la lettura, ma suggerimenti e riflessioni per meglio comprendere e contestualizzare quanto si è letto e apprezzato — che rende giustizia, sia pure in modo riassuntivo, a una voce importante e da noi sconosciuta, lontana dal racconto stereotipato della letteratura russa dei primi trent’anni del Novecento.
Rapetti, che già ci aveva aiutato a conoscere meglio Bunin, adesso ci regala questo nuovo ritratto critico di un grande romanziere, che colloca giustamente nella scia di Gogol’ e Leskov. Gor’kij l’aveva apprezzato fin dall’inizio, come uno dei più promettenti scrittori di quell’atmosfera rivoluzionaria successiva al 1905, ma l’avevano subito amato anche Hesse e Kipling. Entusiasta della rivoluzione di Febbraio — che incolperà negli anni tardi dell’esilio di essere all’origine della successiva tragedia bolscevica — Šmelëv è una (ri)scoperta che meritava di essere compiuta e Il
sole dei morti una lettura imprescindibile per comprendere la ricchezza della letteratura russa di inizio Novecento, ma anche per meglio guardare a un evento così poco conosciuto come la guerra civile russa.