Corriere della Sera - La Lettura
Berlino, agosto 1961 Un Muro per impedire la fuga di un popolo
Germania «Tagliare in due la città fu una prova di debolezza, anche il Cremlino ne era cosciente»: parla Gianluca Falanga, studioso della Ddr
Il Muro di Berlino fu costruito sessant’anni fa, il 13 agosto 1961, e rimase in piedi fino al 9 novembre 1989. Tagliava in due la città e ne isolava la parte occidentale, controllata dagli Alleati americani, britannici e francesi, dal territorio della Germania Est (Ddr), Paese comunista satellite dell’Unione Sovietica. Ne abbiamo rievocato la vicenda con Gianluca Falanga, autore di libri sulla storia tedesco-orientale, il più recente dei quali, Labirinto Stasi, è uscito da poco per Feltrinelli.
Come si arrivò a costruire il Muro?
«Fu lo sbocco delle crisi dovute alla presenza delle forze occidentali nella città divisa, che rendeva agevole il passaggio dall’Est all’Ovest e quindi la fuga dei cittadini della Ddr verso la ben più prospera Repubblica federale tedesca. La situazione all’inizio degli anni Sessanta era diventata insostenibile, perché privava la Germania Est di risorse umane preziose, per esempio medici e ingegneri. Ne risentivano le industrie, gli ospedali, la società intera andava disgregandosi».
Quando fu presa la decisione?
«La proposta partì dai vertici della Germania Est, il cui leader era lo stalinista Walter Ulbricht: uno dei pochi sopravvissuti alle purghe tra i dirigenti comunisti tedeschi rifugiati a Mosca. I sovietici, dopo essersi sincerati in via informale che gli americani avrebbero accettato il nuovo stato di fatto, riunirono nell’estate 1961 una conferenza del Patto di Varsavia che autorizzò Ulbricht a edificare il Muro».
Fu un’ammissione di debolezza?
«La Ddr era una costruzione fragile e occorreva stabilizzarla. Ma credo che gli stessi dirigenti sovietici fossero convinti che si trattava di un’entità provvisoria, anche se non lo avrebbero mai detto. Sapevano in cuor loro che il popolo tedesco non poteva rimanere diviso per l’eternità. Nel 1952 Stalin propose agli Alleati di riunificare la Germania come Stato neutrale e smilitarizzato, in modo da evitare l’adesione di Bonn alla Nato. E ritengo che anche in seguito il Cremlino pensasse che quella poteva essere una soluzione accettabile, magari attraverso una confederazione tra le due Germanie. Gli stessi governanti tedesco-orientali, poco prima che cadesse il Muro, avanzarono ipotesi del genere. Solo che l’avvento di Mikhail Gorbaciov aveva già gravemente indebolito la Ddr e il leader sovietico non esitò a sacrificarla».
Facciamo un passo indietro: la prima grave crisi di Berlino è del 1948.
«Su decisione di Iosif Stalin furono chiusi tutti gli accessi terrestri ai settori occidentali per indurre gli Alleati a lasciare la città. Ma l’iniziativa fallì miseramente, perché venne organizzato un ponte aereo per rifornire Berlino Ovest. Nel 1949 i sovietici tolsero il blocco».
Poi c’era stata la rivolta del 1953.
«Dovette intervenire con la forza l’Armata rossa per domare la ribellione popolare contro il regime comunista, che era cominciata a Berlino il 17 giugno 1953 e s’era estesa al Paese. Schiacciata la sommossa, nei tedeschi dell’Est si diffuse la consapevolezza di avere a che fare con un sistema che non avrebbe concesso alcuna riforma perché poteva farsi scudo dei carri armati sovietici».
E questo incentivò le fughe?
«Vennero viste come unica via per sottrarsi all’oppressione. In realtà da sempre gli abitanti dell’Est avevano cercato di trasferirsi a Ovest. Ma i confini tra le Germanie erano già stati militarizzati nel 1952: non restava che Berlino».
Come si comportò Willy Brandt, futuro cancelliere, che all’epoca era borgomastro, cioè sindaco, di Berlino?
«Si fece portavoce dell’intera città e del suo trauma di fronte al sorgere del Muro, che divideva molte famiglie. Brandt usò toni aggressivi verso la dirigenza dell’Est e i sovietici, denunciando il sopruso, ma diede fastidio anche agli Alleati, perché avrebbe voluto una reazione più decisa, mentre gli occidentali, a parte qualche dimostrazione vocale o muscolare, di fatto si adeguarono. Non volevano lo scontro e ritenevano che in fondo il Muro avrebbe attutito le tensioni provocate dalla divisione di Berlino, stabilizzando i rapporti internazionali».
La costruzione del Muro almeno provvisoriamente rafforzò la Ddr?
«Era l’effetto su cui contava Ulbricht. Sottratti alle lusinghe occidentali, i cittadini dell’Est si sarebbero adattati al “socialismo reale” in costruzione e ne avrebbero apprezzato i vantaggi. Ma ciò avvenne solo per una frangia della popolazione, mentre in altri settori il malcontento rimaneva profondo».
Quindi andavano sorvegliati?
«Per questo la polizia segreta della Ddr, la Stasi, a partire dalla fine degli anni Sessanta, allestì un sistema di spionaggio diffuso, che non risparmiava quasi nessuno. Questo processo si sviluppò in parallelo con il progressivo riconoscimento della Germania Est a livello internazionale. Più s’intensificavano gli scambi con altri Paesi non comunisti, più c’era bisogno di stendere sulla società una rete di vigilanza a maglie strette, con una quantità enorme d’informatori alla caccia di ogni comportamento eterodosso. Il governo della Ddr non aveva fiducia nei suoi cittadini e riteneva pericoloso ogni contatto con l’esterno».
I protagonisti del suo nuovo libro sostengono che ci fu una continuità tra Terzo Reich e Ddr. Che ne pensa?
«Si erano conservati nella società alcuni elementi che autorizzano l’analogia: nell’educazione scolastica dei bambini, nelle parate, nelle mobilitazioni di massa, nell’annullamento dell’individuo, nel ruolo del partito. A quel livello la rottura con il nazismo era stata più forte all’Ovest, che aveva conosciuto prima l’americanizzazione del costume e poi la rivolta giovanile del Sessantotto. L’ideologia del Terzo Reich e quella della Ddr sono opposte. Ma se andiamo a sondare il rapporto tra società e potere, la sensazione di continuità mi pare giustificata».
Esiste oggi nelle regioni orientali una nostalgia della Ddr?
«Non parlerei di nostalgia, certo non per la dittatura. Si va alla riscoperta di elementi identitari che rimangono nella memoria collettiva: com’erano organizzate le vacanze, quali prodotti erano in vendita. L’unificazione è stata anche la cancellazione di un passato che ora molti vogliono rivisitare, magari anche perché il passaggio a una società individualista ha prodotto scompensi per chi era abituato a uno Stato invasivo e minaccioso, ma al tempo stesso protettivo».