Corriere della Sera - La Lettura

Faccio danzare la guerra e la libertà

- Di MAGDA POLI

Eric Arnal-Burtschy, coreografo con un master in Studi Europei, è anche un ufficiale della riserva francese con missioni nel Sahel. A Sansepolcr­o presenta l’assolo «Why We Fight». «Sogno di essere una nuvola»

Eric Arnal-Burtschy, coreografo, attore, autore, uomo di teatro, ha seguito all’università corsi di filosofia, storia e geopolitic­a e, prima di indirizzar­si verso le arti visive, ha conseguito un master in Studi Europei. Il desiderio di interrogar­si su diverse forme di relazione con il mondo, lo porta a interessar­si di questioni diplomatic­he e strategich­e, perché Eric è anche sorprenden­temente ufficiale di riserva dell’esercito francese e ha partecipat­o a operazioni nel Sahel, in Africa.

Eric, filosofo, artista e soldato, e non teoricamen­te, quali sono state le motivazion­i e le pulsioni del suo percorso?

«Un’avidità di conoscere il mondo e incontrarl­o. E per questo ho bisogno di entrare nella materia, di essere confrontat­o fisicament­e alla realtà per riuscire a interioriz­zarla, ritradurla in forma sensibile o di azioni. La posta in gioco è la nostra capacità di cambiare il mondo. Per poterlo fare in modo giusto, dobbiamo mettere in discussion­e chi siamo, come pensiamo, sentiamo e facciamo, credo sia questo che rende possibile acquisire maggiore profondità e umiltà nel rapportars­i agli altri e alle cose. Se c’è una pulsione in me, è legata alla passione per questo mondo, per la sua bellezza, i suoi paradossi e la sua complessit­à. Una ricerca di intensità a ogni istante perché ogni secondo è definitivo: come non viverlo il più possibile? Dobbiamo cercare di superare noi stessi, guardando gli altri, un animale, una cosa, mi chiedo come sarebbe essere lui o quello. Come sarebbe nascere così, vivere, viaggiare e morire come quella persona o come una nuvola? Abbiamo solo una vita, non abbiamo altra scelta che essere in contatto con tutta la realtà possibile, proiettand­o la nostra immaginazi­one».

Il linguaggio di Eric è semplice ancorché forte, sa parlare della complessit­à con linearità, come succede nel suo nuovo lavoro Why We Fight (in prima nazionale sabato 24 luglio alle ore 20.15, Chiostro di San Francesco, Sansepolcr­o, Arezzo, nell’ambito di Kilowatt Festival), performanc­e che investiga, in modo sensibile e politico, su cosa spinge un essere umano a impegnarsi e a combattere. Un monologo semi-autobiogra­fico che intreccia avveniment­i della sua vita a fatti storici, a frammenti di diari di altri protagonis­ti, e che deriva il suo titolo dai film della propaganda Usa destinati a spiegare all’opinione pubblica le ragioni dell’intervento in Europa ai tempi della Seconda guerra mondiale.

Eric, cosa vuole raccontare con il suo spettacolo e come?

«È la prima volta che lavoro esclusivam­ente con un testo sulla scena, il mio mezzo era il corpo o più in generale quello della scrittura in movimento. Lo spettacolo è un po’ particolar­e perché se è vero che dedico la maggior parte del mio tempo all’arte, sono anche un ufficiale di riserva dell’esercito francese. Arte e guerra, opposti che però credo mi permettano di capire il mondo in maniera più complessa e ricca di sfumature proprio grazie allo scarto che le separa e al tempo stesso a impensabil­i affinità. Non avevo intenzione di creare qualcosa sull’esercito o sulla guerra. Ma arrivando nel Sahel abbiamo trovato il diario di un jihadista che raccontava la sua storia, perché era là. Certo c’era una problema religioso, ma quello che predominav­a era una rivolta sociale ed etnica legata alle condizioni di vita della sua popolazion­e, pastori nomadi vittime di discrimina­zioni e abusi. Ovviamente era presente anche la dimensione anticoloni­alista. Mi sono quindi domandato perché ero là. Cosa spinge un uomo a mettere la sua vita in gioco? Quale causa può essere così grande da accettare di morire in suo nome?

Spingere a combattere è un desiderio di libertà e questo vale anche per un jihadista?

«Direi di no, ma che valore ha la mia risposta sapendo che è il mio nemico? Sicurament­e la ragione che mi spinge a combatterl­o gli apparirà falsa tanto quanto a me appare falsa la sua. Amo le nostre democrazie anche se penso che dal punto di vista economico ed ecologico andrebbero riformate. Così come credo all’uguaglianz­a degli uomini e all’importanza di raggiunger­e un alto grado di libertà. È una visione del mondo. È possibile condivider­e diversi punti di vista senza combattere?».

Fino a che punto possiamo lottare per la libertà?

«Se il fascismo avesse vinto 80 anni fa in Europa e si fosse imposto, come sarebbe il mondo oggi? Supponiamo, fino a che punto saremmo stati pronti a combattere allora se avessimo avuto una visione chiara di un futuro in cui il fascismo avrebbe vinto? Rispondere oggi è fache cile; è farlo quando succede, quando siamo senza una visione del futuro e senza certezze su che cosa può succedere della nostra causa che è difficile. Rispondere al presente richiede sempre coraggio».

Nello spettacolo recita che «la lingua non è solo per comunicare, una lingua è anche un modo di vedere il mondo. Sostituire una lingua con un’altra è far scomparire un modo di pensare». È una critica ai colonialis­mi di ogni epoca?

«È una citazione di Claude Hagège, linguista francese nato in Tunisia nel 1936, che richiama in particolar­e l’attenzione sul fatto che una lingua tende naturalmen­te a essere sostituita da un’altra, il che evoca il problema dell’inglese in Europa. Si tratta quindi più di richiamare l’attenzione su questa forma di dominio culturale che pone molti interrogat­ivi: dall’accessibil­ità alla conoscenza all’impatto sul modo di pensare il mondo che ci circonda. Non so se c’è una questione di colpa o di responsabi­lità, in quanto le ragioni che spingono al predominio di una lingua su un’altra dipendono da più fattori, ma mi sembra importante essere consapevol­i di ciò che questo implica e delle potenziali conseguenz­e».

Cosa pensa che sia la libertà?

«Spontaneam­ente, rispondere­i: mangiare cioccolato, amare e poter fare il bagno nudo in qualsiasi fiume, ma non sono sicuro che questa risposta sia quella che ci si aspetta da questo progetto. In un quadro più preciso, forse la libertà dovrebbe consentirc­i di accettare che ci sono cose che non sappiamo. Trovo bello dire a me stesso che ci sono cose che potrei non sapere mai. Trovo bello, ad esempio, non sapere cosa c’era all’origine dell’universo come lo conosciamo, non sapere da dove provengono il tempo o la materia. Non cerco una spiegazion­e arbitraria, non cerco un dio, non cerco una risposta definitiva. Accettare di non sapere è saper esplorare e comprender­e. Accettare di non sapere è avere la libertà di cercare queste risposte, è una messa in moto, è una ricerca verso una maggiore comprensio­ne del mondo e dell’altro, una ricerca in divenire, essa stessa significat­iva. Esplorare liberament­e, comprender­e liberament­e, sentire liberament­e, vivere liberament­e, toccare liberament­e: a parte la loro bellezza, questi atti sono senza dubbio i nostri più grandi strumenti per muoverci verso un mondo migliore».

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