Corriere della Sera - La Lettura
Nei discorsi di Mattarella l’identikit del successore
Alla vigilia del semestre bianco (che si apre il 3 agosto), due studiosi di Diritto costituzionale del Sant’Anna di Pisa hanno analizzato i discorsi di Sergio Mattarella su quasi tutti i predecessori (il capo dello Stato, fino a oggi, non è intervenuto su Leone e Napolitano). Li accomuna la lunga frequentazione del Parlamento, del governo e delle istituzioni internazionali; l’attitudine al dialogo; l’autorevolezza e la credibilità personale. Ne nasce un possibile ritratto del successore...
Per comprendere le istituzioni, si dice spesso, bisogna considerare il percorso, lo stile, la personalità di coloro che nel tempo le abitano e le incarnano. Questa constatazione non può che applicarsi anche a una carica monocratica come quella di presidente della Repubblica: per comprendere la presidenza, insomma, bisogna concentrarsi su chi l’ha occupata, di mandato in mandato, nel corso dei 75 anni della Repubblica. Si tratta di una constatazione ovvia, in certa misura. Se viene portata alle estreme conseguenze, però, si può essere portati a pensare che ciascun mandato presidenziale faccia storia a sé, che sia difficile o addirittura impossibile rintracciare elementi unificanti nel succedersi dei settennati.
Sergio Mattarella, il cui mandato entrerà il 3 agosto nel semestre bianco, sembra avere contrastato questa idea. In una serie di discorsi commemorativi, si è misurato attentamente con il modo in cui i suoi predecessori hanno interpretato la carica presidenziale e l’estensione dei relativi poteri: da Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato per 15 giorni dopo il referendum del 2 giugno 1946, fino a Carlo Azeglio Ciampi; unica eccezione, al momento: Leone, al quale finora non ha dedicato alcun discorso, come a Giorgio Napolitano, ancora in vita.
I discorsi di Mattarella sui predecessori
vogliono mettere in evidenza una forte continuità nella traiettoria della Presidenza della Repubblica, dagli anni Quaranta a oggi. I precedenti posti da ciascun presidente, interpretando le norme costituzionali e agendo in situazioni concrete, hanno contribuito a conferire una fisionomia ben riconoscibile all’istituzione presidenziale. In questo, ogni presidente ha potuto contare sulle interpretazioni delle norme costituzionali e sui precedenti consegnatigli dai predecessori. Si tratta di un vero Leitmotiv.
Nel 1954, in una nota citata a più riprese da Mattarella — e prima di lui da Napolitano — il presidente Einaudi affermava seccamente che il presidente della Repubblica in carica ha il compito di «evitare che si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». Come ricorda Mattarella, del resto, Einaudi, primo presidente eletto dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, «sapeva che i suoi atti avrebbero fissato i confini all’esercizio del mandato presidenziale, per sé e per i suoi successori».
Non si può negare che questa azione «ricostruttiva» di Mattarella abbia avuto una accelerazione con l’avvio della legislatura in corso. Senza considerare la pandemia, gli ultimi tre anni e mezzo sono stati caratterizzati da importanti e inedite crisi politiche e istituzionali, che hanno chiamato in causa anche il presidente della Repubblica: le difficoltà che hanno preceduto e accompagnato la formazione del primo governo Conte; la grave crisi del sistema dei partiti e la cronica instabilità delle compagini governative, fino alla svolta del governo Draghi: un esecutivo «di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica»; la conflittualità persistente fra politica e magistratura e i gravi scandali che hanno colpito il Csm; le incertezze sulla collocazione internazionale dell’Italia, ulteriormente acuite dalle crisi nel nostro estero vicino: questa legislatura ha visto alternarsi ammiccamenti filorussi e filocinesi e la riaffermazione del tradizionale ancoraggio euroatlantico del Paese.
Nei discorsi sui suoi predecessori Mattarella non si limita a rievocare vicende istituzionali del passato, ma si sofferma su precedenti significativi che offrono una guida per l’azione del capo dello Stato nel presente. E «sorvola» — con grande abilità — su alcuni passaggi più dirompenti (ad esempio, del settennato di Cossiga) o divisivi.
Quale può essere il ruolo del presidente della Repubblica in una situazione così complessa? In un importante intervento dedicato a Giovanni Gronchi, pronunciato a Pontedera il 18 ottobre 2018, Mattarella ha ricordato che situazioni di crisi politica o istituzionale possono rendere necessario un intervento del presidente della Repubblica, fino ad assumere «un ruolo istituzionale sino ad allora non sperimentato». Può accadere, insomma, che la contingenza renda necessario un maggiore attivismo del capo dello Stato.
Si tratta, però, di iniziative che si svolgono sempre entro un perimetro: quello che Mattarella chiama la «cassetta degli attrezzi contenuta nella Carta fondamentale, la nostra Costituzione». Contro le letture che prospettano evoluzioni in senso presidenziale o pseudopresidenziale della nostra forma di governo, Mattarella ha sottolineato che le possibilità di intervento del capo dello Stato (e di espansione del suo ruolo) non sono illimitate né lasciate all’arbitrio del presidente in carica: il limite, in ogni caso, è dato dalla Costituzione. Talvolta, però, il presidente può segnalare l’opportunità di un aggiornamento puntuale di specifiche disposizioni costituzionali. Nei giorni che hanno preceduto l’incarico a Draghi, Mattarella ha ricordato il messaggio indirizzato alle Camere nel 1963 dal presidente Antonio Segni, che propose di eliminare la regola costituzionale relativa al semestre bianco, ritenuta disfunzionale, e, come contrappeso, di introdurre il divieto di rielezione del capo dello Stato.
Rientrano nella cassetta degli attrezzi del presidente della Repubblica i poteri che questi può esercitare durante la formazione del governo. È stato così, del resto, fin dalle prime battute della storia repubblicana, durante il settennato di Luigi Einaudi (1948-1955). Dopo una legislatura, la prima, segnata dalla maggioranza assoluta della Dc alla Camera e dominata dalla leadership di De Gasperi, le elezioni del 1953 ebbero un esito assai meno nitido. In un importante discorso tenuto a Dogliani il 12 maggio 2018 — in coincidenza con le trattative fra Lega e M5S che portarono al varo del Conte I — Mattarella ha ricordato che Einaudi aveva costantemente perseguito una «leale sintonia con il governo e il Parlamento», ma che «si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo ufficio». Constatato l’insuccesso dell’incarico attribuito ad Attilio Piccioni, infatti, Einaudi non svolse nuove consultazioni e affidò l’incarico di formare il nuovo esecutivo a Giuseppe Pella; e così facendo «non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Democrazia cristiana». Al di là delle indicazioni che gli vengono offerte dai partiti durante la crisi di governo, insomma, il capo dello Stato mantiene importanti margini per una valutazione autonoma del quadro politico e delle iniziative da assumere.
Ricordando Cossiga a Sassari a dieci anni dalla sua scomparsa, Mattarella si è soffermato anche sulla nomina dei ministri, che il presidente della Repubblica effettua, stando all’articolo 92 della Costituzione, «su proposta» del presidente del Consiglio incaricato. In particolare, ha rievocato una lettera inviata dal presidente Cossiga al presidente del Consiglio incaricato Giulio Andreotti: il sassarese ribadì «i poteri che la Costituzione conferisce al capo dello Stato nella nomina dei ministri e descrisse il vaglio presidenziale come non comprimibile». Sulla scia delle polemiche legate al caso Paolo Savona (lo studioso euroscettico inizialmente proposto dalla Lega come ministro dell’Economia), Mattarella ha rivendicato che il potere presidenziale di nomina dei ministri «non può esaurirsi nella mera ricezione delle proposte del presidente del Consiglio».
Un altro tema a cui il capo dello Stato, prendendo spunto dall’operato dei suoi predecessori, ha dedicato grande attenzione è quello della politica estera, europea e di difesa. Il tema è stato oggetto di discussioni, talora aspre, nel corso dei due mandati di Napolitano. Ad avviso di Mattarella, sin dagli anni di Gronchi, il presidente della Repubblica esercita attribuzioni formali — quelle, ad esempio, che gli derivano dal suo ruolo di presidente del Consiglio supremo di difesa — ma assume anche iniziative di altro genere, meno chiaramente formalizzate.
E, soprattutto, deve essere sempre attivo un flusso d’informazioni fra il governo e il Quirinale: Ciampi, ricorda Mattarella, segnalò al presidente del Consiglio Giuliano Amato «la necessità di essere informato prima che decisioni in materia di politica internazionale venissero assunte in sede governativa, per potere esprimere anticipatamente “giudizi, esortazioni e valutazioni”». Ma, soprattutto, ha ricordato che l’azione dei suoi predecessori sulla scena internazionale si è svolta sempre all’insegna di due stelle polari: atlantismo ed europeismo. Non si tratta, però, di un’adesione acritica. Ricordando Scalfaro, infatti, presidente negli anni del post-Maastricht, Mattarella ha sottolineato come «non rinunciava a polemizzare con la concezione “ragionieristica” ed “egoistica” che, a volte, dominava — e tuttora si manifesta — sia a Bruxelles sia tra gli Stati membri».
Quale il senso di questa raffinatissima operazione di ricostruzione storico-costituzionale? Si badi che il Quirinale ha dedicato al tema una piccola pubblicazione, disponibile sul sito Internet della presidenza. A nostro giudizio, in primo luogo, affidare al successore una «cassetta degli attrezzi» ben fornita e documentata attraverso un filo rosso che tiene insieme l’intera storia repubblicana, enfatizzando gli aspetti di continuità e tralasciando volutamente quelli più divisivi.
Ma ci pare che l’obiettivo sia pure delineare un possibile profilo del futuro capo dello Stato. Nei discorsi sui predecessori sono sempre esaltati il cursus honorum, la lunga frequentazione del Parlamento (in ruoli apicali), del governo e delle istituzioni internazionali; l’attitudine a essere uomini di dialogo e mediazione; l’autorevolezza e la credibilità personale per «parlare» dalla «cattedra del Quirinale». Al di là delle «tattiche» parlamentari che, da sempre, caratterizzano l’elezione presidenziale, i presidenti della Repubblica, sino a oggi, hanno svolto un lungo apprendistato «costituzionale» nelle supreme magistrature che ha conferito loro prestigio e indipendenza. Come a dire: attenzione a imporre al Quirinale uomini nuovi e alla volontà di creare, a tavolino, «rotture» istituzionali nella vicenda repubblicana. Tutti temi che questa legislatura, nella sua fase iniziale, ha posto e a cui Mattarella ha inteso, anche in questo modo, rispondere.