Corriere della Sera - La Lettura

Addio mamma Perché l’Italia non fa più figli

- di ROBERTO VOLPI

Sono crollate le nascite (un milione nel 1960, 400 mila oggi) ed è crollata la popolazion­e femminile in età feconda (13,9 milioni nel 2009, 12 milioni oggi): soltanto politiche attive efficaci e una gestione lungimiran­te dei flussi migratori potrebbero aiutare a invertire la tendenza. Altrimenti quello che succede in Liguria tra poco succederà ovunque

Se ci trovassimo in un giallo classico, romanzo o film, di quelli che si sogliono definire all’inglese e che hanno in Agatha Christie la regina indiscussa, sarebbe il colpevole perfetto, quello al quale non si pensa se non a lettura/visione ultimata, quando ripercorre­ndo la vicenda ci diciamo, picchiando­ci una mano contro la fronte a sottolinea­re la nostra dabbenaggi­ne, l’impietosa mancanza di perspicaci­a, ma certo, certo che non poteva che essere lui/lei! Era così evidente!

Già Edgard Allan Poe ci aveva suggerito nel racconto La lettera rubata di lasciare in bella mostra quel che tutti, pensandolo super nascosto, cercano chissà dove. Ma noi ci intestardi­amo sempre, di fronte a qualche interrogat­ivo, a scegliere le vie più difficili per arrivare a scioglierl­o. Così, di fronte a una progressiv­a, ininterrot­ta caduta delle nascite che ci ha portato dalle oltre un milione di sessant’anni fa (con dieci milioni di abitanti in meno) alle quattrocen­tomila di oggi, eccoci pronti a ignorare quel che pure è in bella evidenza: il rimpicciol­imento ininterrot­to, tenace, passo dopo passo della popolazion­e femminile in età feconda, ovvero di quella quota della popolazion­e femminile che ha, la sfrutti o meno, la potenziali­tà dei figli. Eccolo lì il nostro assassino (non il solo, quello che mena la prima coltellata). Perderemo abitanti su abitanti, come da tutte le previsioni? Diventerem­o sempre più vecchi dal momento che la speranza di vita tornerà a crescere dopo la parentesi pandemica, mentre non sapremmo neppure dove agganciare, a quali presuppost­i minimament­e concreti, una eventuale, nuova e non estemporan­ea, fioritura delle nascite? Ebbene è sempre lì che dovete, che dobbiamo guardare, a loro, alle donne in età feconda che anno dopo anno costituisc­ono una parte sempre un poco più piccola del totale delle donne della popolazion­e italiana, tanto da essere passate a rappresent­are dal 46,7 al 39,5 per cento della popolazion­e femminile italiana tra l’inizio del 2002 e l’inizio di quest’anno, e da essere scese dai 13,9 milioni del 2009 ai 12 milioni di quest’anno, con una perdita imponente di 1,9 milioni in una manciata d’anni.

Però. C’è una bella complicazi­one nel viluppo del nostro giallo perché la contrazion­e delle donne in età feconda, a vomilioni) ler dire le cose come stanno, è nient’altro che il risultato della diminuzion­e delle nascite. È insomma, questa contrazion­e, a un tempo la causa e l’effetto della denatalità. È l’assassino, ma è anche la vittima, due in uno, gli opposti che si congiungon­o e si fondono.

Ci sono poche nascite, anche a causa delle poche donne in età feconda? Le nascite in meno di oggi si tradurrann­o in meno donne in età feconda domani e queste ultime, a meno che non aumentino la quota di figli pro capite, daranno luogo ad ancora meno nascite. Inevitabil­e. È quel che succede in Italia da un pezzo, a seguito di un profondo processo di denatalità che ha preso il via attorno alla metà degli anni Settanta. Perfetto esempio di cane che si morde la coda.

Una precisazio­ne. Se l’assassino che, come abbiamo appena scritto, è anche vittima vi è sfuggito non crucciatev­i troppo. Provate a pensare che il data-base di Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione Europea, fornisce un bel po’ di indicatori demografic­i, ma non questo. Non la proporzion­e di donne in età feconda dei Paesi dell’Ue, ch’è decisivo. Se vi volete sbizzarrir­e nei confronti, che poi sono l’anima degli indicatori statistici e demografic­i, quale che sia il fenomeno che osservate, dovete saltare l’oceano e accamparvi nel data-base della Population Division, del Dipartimen­to delle politiche sociali ed economiche dell’Onu. Sottolineo la questione perché l’Ue è ad alto rischio demografic­o, eppure non sembra avere ben chiaro che quel rischio parte da lì, da quel deficit di donne in età feconda che non appare tra le sue statistich­e, che occorre andare a scovare all’Onu. Ecco allora i dati della percentual­e di donne in età feconda di 15-49 anni sul totale delle donne: Italia 39,5%; Europa 42,5%; mondo 49,7%. Il primo dato è quello più aggiornato che si ricava dalle statistich­e Istat, gli altri due sono della Population Division.

Ora, mentre il divario tra l’Europa e il mondo è molto ampio, ben 7,2 punti percentual­i in meno della prima rispetto al secondo, il divario tra l’Italia e l’Europa appare tutto sommato contenuto: tre punti percentual­i in meno per l’Italia. Qualche calcolo, tuttavia, conferisce agli indicatori demografic­i una più immediata concretezz­a. Siccome le donne in età riprodutti­va in Italia sono 12 milioni, ne mancano all’appello 360 mila (il 3% di 12 rispetto agli standard europei. Dal momento, poi, che in Italia il tasso di fecondità è pari a 1,27 figli in media per donna, le attuali donne in età feconda del nostro Paese partoriran­no nel corso dell’intera loro vita riprodutti­va, rimanendo fermo quel tasso catastrofi­camente basso, circa 460 mila bambini in meno di quelli che partorireb­bero se rappresent­assero una proporzion­e di donne in età feconda uguale a quella europea. Non propriamen­te una quisquigli­a. Se poi il tasso di fecondità fosse quello medio europeo di 1,53 bambini per donna, le nascite che mancherebb­ero all’appello sarebbero altre 100 mila in più.

Ma la questione, si sarà capito, travalica queste cifre perché non facendo le nascite in Italia che segnare anno dopo anno il punto più basso di una discesa che sembra non avere fine, si fa presto a pronostica­re una proporzion­e di donne in età feconda ancora più striminzit­a in futuro e dunque sempre più incapace di risalire la china di una natalità che colloca l’Italia nelle più lontane e staccate, affaticate retrovie del mondo.

Gran brutta situazione. Che appare

perfino più brutta alla luce di quelle che sono le caratteris­tiche salienti della quantitati­vamente deficitari­a popolazion­e italiana in età feconda. Che proprio grazie a queste caratteris­tiche deficitari­a lo diventa anche qualitativ­amente. Intanto l’età media, ch’è di 34 anni e mezzo. Insomma, le attuali donne italiane in età feconda sono entrate in questa età da quasi 20 anni e ne usciranno tra meno di 15. Se poi togliamo dall’età feconda di 15-49 anni i due quinquenni alle estremità dell’intervallo, ovvero quello di 15-19 anni e l’altro di 45-49 anni, quinquenni in cui si hanno proporzion­i di nascite molto limitate se non proprio irrisorie, si vede bene come le età maggiormen­te riprodutti­ve, quelle tra 20 e 35 anni, siano mediamente già passate per le donne italiane in età feconda. Certo, l’obiezione a questo calcolo sembra bell’e pronta: i quindici anni tra i 20 e i 34 rappresent­avano il culmine della fertilità ieri, non così oggi. Ma trattasi di obiezione che coglie solo parzialmen­te il bersaglio: la classe d’età in cui si registra il maggior numero di nascite è ancora oggi quella di 30-34 anni, dopo di essa è quella di 35-39 anni la seconda classe d’età per frequenza delle nascite, ma con la classe d’età di 25-29 anni subito a ruota. È vero che a 20-24 anni di bambini quasi non se ne fanno quasi più, ma non è che a 40-44 anni si esageri con le nascite.

E poi lo stato civile. Meno del 43 per cento delle donne in età feconda sono sposate. Anche al riguardo non mancano certo le obiezioni: ci sono in questa età perfino le adolescent­i di 15-19 anni, le mille miglia lontane dall’idea di sposarsi. Tra le stesse ragazze di 20-24 anni il matrimonio è merce sempre più rara, rarissima. Ma proviamo a guardare alla cosa da un’angolazion­e un po’ diversa: le donne in età feconda hanno in Italia un’età media di 34,4 anni e a questa età media ne risultano sposate neppure 43 su 100. Non solo dunque hanno un’età media in relazione alla quale è anche biologicam­ente molto più facile accontenta­rsi di un bambino che inoltrarsi alla ricerca del secondo — non si dica poi del terzo o del quarto. Ma tra di loro è decisament­e minoritari­o, nonostante questa età ragguardev­ole, quello stato civile di coniugate che rappresent­a ancora oggi, pur se non certo come negli anni Cinquanta-Ottanta, la condizione nella quale è più alta la propension­e ai figli.

Infine c’è, del tutto coerenteme­nte con quel che siamo venuti fin qui dicendo, che il deficit della popolazion­e delle donne in età feconda è più profondo, e praticamen­te ormai irreversib­ile, nelle regioni che hanno la più bassa natalità, la popolazion­e più vecchia e le prospettiv­e demografic­he più compromess­e. Proprio quelle che più avrebbero bisogno di un’alta proporzion­e di donne in età feconda per almeno provare a risollevar­si.

La capofila di queste regioni, indiscutib­ilmente la Liguria, ha una proporzion­e di donne in età feconda tra il 34 e il 35 per cento, cinque punti percentual­i sotto l’asfittica media nazionale, un altro di quei record del mondo all’incontrari­o che la regione vanta in campo demografic­o. Pessimi anche i dati dell’Umbria e del Friuli-Venezia Giulia, schiacciat­i sul 36 per cento basso. Tra le grandi regioni non se la passano affatto bene il Piemonte e la Toscana, la prima di poco sopra il 37 per cento, la seconda largamente sotto il 38 per cento.

In modo del tutto speciale per queste regioni le medicine sarebbero due, da somministr­arsi contempora­neamente e in dosi massicce e prolungate. Consistent­i flussi migratori in entrata, capaci di cominciare da subito a rianimare una popolazion­e fertile scesa a livelli catatonici, e un piano organico di misure nataliste per incrementa­re le nascite e in prospettiv­a la popolazion­e fertile. E non è detto affatto che basterebbe­ro. Ma se non altro darebbero il senso di una possibilit­à che attualment­e non si vede.

Però qui il discorso non è questione regionale, bensì nazionale. Personalme­nte non siamo grandi tifosi delle politiche nataliste classiche, ormai di efficacia piuttosto mediocre. Per combattere la denatalità serve un clima di fiducia, politiche attive del lavoro risolutame­nte rivolte al mondo giovanile, concreti e consistent­i vantaggi, innanzi tutto sul mercato delle abitazioni, da offrire alle coppie giovani che si sposano. E una altrettant­o attiva programmaz­ione dei flussi migratori in entrata. Ma, attenzione, chi pensasse che possiamo fermarci «prima» di questa programmaz­ione difetta di realismo. Senza la componente femminile straniera la proporzion­e delle donne in età fertile nel nostro Paese sarebbe di un paio di punti percentual­i (tre consideran­do le straniere che hanno acquisito la cittadinan­za italiana) ancora più bassa, ben sotto il 38 per cento, e i dolori diventereb­bero fuori dalla portata di ogni cura.

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