Corriere della Sera - La Lettura
Addio mamma Perché l’Italia non fa più figli
Sono crollate le nascite (un milione nel 1960, 400 mila oggi) ed è crollata la popolazione femminile in età feconda (13,9 milioni nel 2009, 12 milioni oggi): soltanto politiche attive efficaci e una gestione lungimirante dei flussi migratori potrebbero aiutare a invertire la tendenza. Altrimenti quello che succede in Liguria tra poco succederà ovunque
Se ci trovassimo in un giallo classico, romanzo o film, di quelli che si sogliono definire all’inglese e che hanno in Agatha Christie la regina indiscussa, sarebbe il colpevole perfetto, quello al quale non si pensa se non a lettura/visione ultimata, quando ripercorrendo la vicenda ci diciamo, picchiandoci una mano contro la fronte a sottolineare la nostra dabbenaggine, l’impietosa mancanza di perspicacia, ma certo, certo che non poteva che essere lui/lei! Era così evidente!
Già Edgard Allan Poe ci aveva suggerito nel racconto La lettera rubata di lasciare in bella mostra quel che tutti, pensandolo super nascosto, cercano chissà dove. Ma noi ci intestardiamo sempre, di fronte a qualche interrogativo, a scegliere le vie più difficili per arrivare a scioglierlo. Così, di fronte a una progressiva, ininterrotta caduta delle nascite che ci ha portato dalle oltre un milione di sessant’anni fa (con dieci milioni di abitanti in meno) alle quattrocentomila di oggi, eccoci pronti a ignorare quel che pure è in bella evidenza: il rimpicciolimento ininterrotto, tenace, passo dopo passo della popolazione femminile in età feconda, ovvero di quella quota della popolazione femminile che ha, la sfrutti o meno, la potenzialità dei figli. Eccolo lì il nostro assassino (non il solo, quello che mena la prima coltellata). Perderemo abitanti su abitanti, come da tutte le previsioni? Diventeremo sempre più vecchi dal momento che la speranza di vita tornerà a crescere dopo la parentesi pandemica, mentre non sapremmo neppure dove agganciare, a quali presupposti minimamente concreti, una eventuale, nuova e non estemporanea, fioritura delle nascite? Ebbene è sempre lì che dovete, che dobbiamo guardare, a loro, alle donne in età feconda che anno dopo anno costituiscono una parte sempre un poco più piccola del totale delle donne della popolazione italiana, tanto da essere passate a rappresentare dal 46,7 al 39,5 per cento della popolazione femminile italiana tra l’inizio del 2002 e l’inizio di quest’anno, e da essere scese dai 13,9 milioni del 2009 ai 12 milioni di quest’anno, con una perdita imponente di 1,9 milioni in una manciata d’anni.
Però. C’è una bella complicazione nel viluppo del nostro giallo perché la contrazione delle donne in età feconda, a vomilioni) ler dire le cose come stanno, è nient’altro che il risultato della diminuzione delle nascite. È insomma, questa contrazione, a un tempo la causa e l’effetto della denatalità. È l’assassino, ma è anche la vittima, due in uno, gli opposti che si congiungono e si fondono.
Ci sono poche nascite, anche a causa delle poche donne in età feconda? Le nascite in meno di oggi si tradurranno in meno donne in età feconda domani e queste ultime, a meno che non aumentino la quota di figli pro capite, daranno luogo ad ancora meno nascite. Inevitabile. È quel che succede in Italia da un pezzo, a seguito di un profondo processo di denatalità che ha preso il via attorno alla metà degli anni Settanta. Perfetto esempio di cane che si morde la coda.
Una precisazione. Se l’assassino che, come abbiamo appena scritto, è anche vittima vi è sfuggito non crucciatevi troppo. Provate a pensare che il data-base di Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione Europea, fornisce un bel po’ di indicatori demografici, ma non questo. Non la proporzione di donne in età feconda dei Paesi dell’Ue, ch’è decisivo. Se vi volete sbizzarrire nei confronti, che poi sono l’anima degli indicatori statistici e demografici, quale che sia il fenomeno che osservate, dovete saltare l’oceano e accamparvi nel data-base della Population Division, del Dipartimento delle politiche sociali ed economiche dell’Onu. Sottolineo la questione perché l’Ue è ad alto rischio demografico, eppure non sembra avere ben chiaro che quel rischio parte da lì, da quel deficit di donne in età feconda che non appare tra le sue statistiche, che occorre andare a scovare all’Onu. Ecco allora i dati della percentuale di donne in età feconda di 15-49 anni sul totale delle donne: Italia 39,5%; Europa 42,5%; mondo 49,7%. Il primo dato è quello più aggiornato che si ricava dalle statistiche Istat, gli altri due sono della Population Division.
Ora, mentre il divario tra l’Europa e il mondo è molto ampio, ben 7,2 punti percentuali in meno della prima rispetto al secondo, il divario tra l’Italia e l’Europa appare tutto sommato contenuto: tre punti percentuali in meno per l’Italia. Qualche calcolo, tuttavia, conferisce agli indicatori demografici una più immediata concretezza. Siccome le donne in età riproduttiva in Italia sono 12 milioni, ne mancano all’appello 360 mila (il 3% di 12 rispetto agli standard europei. Dal momento, poi, che in Italia il tasso di fecondità è pari a 1,27 figli in media per donna, le attuali donne in età feconda del nostro Paese partoriranno nel corso dell’intera loro vita riproduttiva, rimanendo fermo quel tasso catastroficamente basso, circa 460 mila bambini in meno di quelli che partorirebbero se rappresentassero una proporzione di donne in età feconda uguale a quella europea. Non propriamente una quisquiglia. Se poi il tasso di fecondità fosse quello medio europeo di 1,53 bambini per donna, le nascite che mancherebbero all’appello sarebbero altre 100 mila in più.
Ma la questione, si sarà capito, travalica queste cifre perché non facendo le nascite in Italia che segnare anno dopo anno il punto più basso di una discesa che sembra non avere fine, si fa presto a pronosticare una proporzione di donne in età feconda ancora più striminzita in futuro e dunque sempre più incapace di risalire la china di una natalità che colloca l’Italia nelle più lontane e staccate, affaticate retrovie del mondo.
Gran brutta situazione. Che appare
perfino più brutta alla luce di quelle che sono le caratteristiche salienti della quantitativamente deficitaria popolazione italiana in età feconda. Che proprio grazie a queste caratteristiche deficitaria lo diventa anche qualitativamente. Intanto l’età media, ch’è di 34 anni e mezzo. Insomma, le attuali donne italiane in età feconda sono entrate in questa età da quasi 20 anni e ne usciranno tra meno di 15. Se poi togliamo dall’età feconda di 15-49 anni i due quinquenni alle estremità dell’intervallo, ovvero quello di 15-19 anni e l’altro di 45-49 anni, quinquenni in cui si hanno proporzioni di nascite molto limitate se non proprio irrisorie, si vede bene come le età maggiormente riproduttive, quelle tra 20 e 35 anni, siano mediamente già passate per le donne italiane in età feconda. Certo, l’obiezione a questo calcolo sembra bell’e pronta: i quindici anni tra i 20 e i 34 rappresentavano il culmine della fertilità ieri, non così oggi. Ma trattasi di obiezione che coglie solo parzialmente il bersaglio: la classe d’età in cui si registra il maggior numero di nascite è ancora oggi quella di 30-34 anni, dopo di essa è quella di 35-39 anni la seconda classe d’età per frequenza delle nascite, ma con la classe d’età di 25-29 anni subito a ruota. È vero che a 20-24 anni di bambini quasi non se ne fanno quasi più, ma non è che a 40-44 anni si esageri con le nascite.
E poi lo stato civile. Meno del 43 per cento delle donne in età feconda sono sposate. Anche al riguardo non mancano certo le obiezioni: ci sono in questa età perfino le adolescenti di 15-19 anni, le mille miglia lontane dall’idea di sposarsi. Tra le stesse ragazze di 20-24 anni il matrimonio è merce sempre più rara, rarissima. Ma proviamo a guardare alla cosa da un’angolazione un po’ diversa: le donne in età feconda hanno in Italia un’età media di 34,4 anni e a questa età media ne risultano sposate neppure 43 su 100. Non solo dunque hanno un’età media in relazione alla quale è anche biologicamente molto più facile accontentarsi di un bambino che inoltrarsi alla ricerca del secondo — non si dica poi del terzo o del quarto. Ma tra di loro è decisamente minoritario, nonostante questa età ragguardevole, quello stato civile di coniugate che rappresenta ancora oggi, pur se non certo come negli anni Cinquanta-Ottanta, la condizione nella quale è più alta la propensione ai figli.
Infine c’è, del tutto coerentemente con quel che siamo venuti fin qui dicendo, che il deficit della popolazione delle donne in età feconda è più profondo, e praticamente ormai irreversibile, nelle regioni che hanno la più bassa natalità, la popolazione più vecchia e le prospettive demografiche più compromesse. Proprio quelle che più avrebbero bisogno di un’alta proporzione di donne in età feconda per almeno provare a risollevarsi.
La capofila di queste regioni, indiscutibilmente la Liguria, ha una proporzione di donne in età feconda tra il 34 e il 35 per cento, cinque punti percentuali sotto l’asfittica media nazionale, un altro di quei record del mondo all’incontrario che la regione vanta in campo demografico. Pessimi anche i dati dell’Umbria e del Friuli-Venezia Giulia, schiacciati sul 36 per cento basso. Tra le grandi regioni non se la passano affatto bene il Piemonte e la Toscana, la prima di poco sopra il 37 per cento, la seconda largamente sotto il 38 per cento.
In modo del tutto speciale per queste regioni le medicine sarebbero due, da somministrarsi contemporaneamente e in dosi massicce e prolungate. Consistenti flussi migratori in entrata, capaci di cominciare da subito a rianimare una popolazione fertile scesa a livelli catatonici, e un piano organico di misure nataliste per incrementare le nascite e in prospettiva la popolazione fertile. E non è detto affatto che basterebbero. Ma se non altro darebbero il senso di una possibilità che attualmente non si vede.
Però qui il discorso non è questione regionale, bensì nazionale. Personalmente non siamo grandi tifosi delle politiche nataliste classiche, ormai di efficacia piuttosto mediocre. Per combattere la denatalità serve un clima di fiducia, politiche attive del lavoro risolutamente rivolte al mondo giovanile, concreti e consistenti vantaggi, innanzi tutto sul mercato delle abitazioni, da offrire alle coppie giovani che si sposano. E una altrettanto attiva programmazione dei flussi migratori in entrata. Ma, attenzione, chi pensasse che possiamo fermarci «prima» di questa programmazione difetta di realismo. Senza la componente femminile straniera la proporzione delle donne in età fertile nel nostro Paese sarebbe di un paio di punti percentuali (tre considerando le straniere che hanno acquisito la cittadinanza italiana) ancora più bassa, ben sotto il 38 per cento, e i dolori diventerebbero fuori dalla portata di ogni cura.