Corriere della Sera - La Lettura
Ho guidato sulla Luna
Il 26 luglio 1971 decollò la missione Apollo 15: portò sul satellite il primo rover per l’esplorazione geologica. Al comando David Scott. Oggi la «sfida automobilistica» è ripartita. In campo General Motors, Lockheed Martin, Toyota
«L’uomo deve esplorare. Quando scesi con il Falcon ai piedi degli Appennini lunari mi resi conto che stavo vivendo il momento più alto nella storia dell’esplorazione umana». David Scott era il comandante dell’Apollo 15 il 26 luglio di cinquant’anni fa. I voli precedenti avevano dimostrato (anche con il brivido dell’Apollo 13) che il grande razzo Saturn V, con la sua astronave abitata, governava bene le difficoltà del viaggio. L’obiettivo di Kennedy di riconquistare la superiorità degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica nella gara verso lo spazio era raggiunto. Ora bisognava andare oltre per giustificare il costo (salato) degli sbarchi. Servivano scienziati, prima ancora che astronauti, per indagare l’ambiente lunare. Il modulo di servizio Endeavour di Apollo 15 fu stipato di strumenti di osservazione e il modulo per l’allunaggio venne alleggerito per ospitare un veicolo, il Lunar Rover Vehicle, un’auto elettrica capace di ampliare il territorio di esplorazione molto oltre le limitate possibilità concesse dalle faticose passeggiate.
Fu così che il 31 luglio Scott e il compagno James Irwin accesero i motori del rover per iniziare la prima traversata di uno dei luoghi più affascinanti dell’orografia lunare, disegnato dall’impatto di un grande corpo celeste: un luogo attraversato da canyon, solcato da un mare di lava solidificata, con il fronte montagnoso degli Appennini che formava la catena di vette più imponenti (il Monte Huygens raggiunge i 5.500 metri), frutto evidente dello scontro cosmico.
L’idea di un rover era stata lanciata da Wernher von Braun, scienziato e ingegnere tedesco naturalizzato statunitense, già negli anni Cinquanta nei suoi articoli sulla popolare rivista «Collier’s», dove dimostrava con ragionata fantasia l’efficacia di un suo impiego per indagare con maggiore successo la geografia del nostro satellite naturale. Quando la Nasa approvò il progetto, un decennio dopo, fu sempre von Braun — direttore del Centro
Marshall in Alabama — a guidarne la costruzione insieme con quella del grande razzo Saturn V. Per la sua realizzazione si candidarono diverse società. Alla fine la Nasa scelse la Boeing con altri collaboratori, tra cui General Motors. Ne uscì un gioiello tecnologico da 38 milioni di dollari.
«Ah, il piccolo rover — ricorda oggi Scott, che ha 89 anni —. Era difficile guidarlo, dovevi tenere gli occhi aperti in ogni momento. La gravità sei volte inferiore a quella della Terra ti faceva rimbalzare facilmente e bisognava prestare molta attenzione nei movimenti lungo il tragitto per non finire contro una roccia o scivolare in un cratere. Sulla Luna non ci sono strade — evidentemente — e la superficie è molto irregolare. Ma il rover era divertente da pilotare. Non si riusciva ad andare molto veloci, appena 12 chilometri orari; però sembrava di correre. La cosa importante è che ci ha permesso di viaggiare su grandi distanze estendendo notevolmente l’esplorazione e di raccogliere una ricca varietà di campioni del suolo. Questo ha aiutato la scienza a determinare con maggiore precisione le caratteristiche geologiche di un’area molto più ampia rispetto a quella indagata dalle passeggiate».
Scott ricorda anche un momento di particolare stupore, quando dal rover vide brillare in modo eccezionale una pietra nella penombra. Gli uscì un’esclamazione in italiano — mamma mia — subito non compresa dai controllori di Houston. Furono le uniche parole in italiano pronunciate durante la spedizione. «Grazie al rover — precisa Scott — la nostra missione Apollo 15 fu definita la prima spedizione scientifica su larga scala della Luna. Rimanemmo nella zona degli Appennini-Hadely il doppio del tempo che era stato concesso per gli sbarchi precedenti in altre zone. Eravamo bene addestrati nella ricognizione geologica. Non solo. Grazie al piccolo rover per tre giorni ci siamo trasferiti agilmente, studiando aspetti scientifici altrimenti impossibili da affrontare».
Durante le soste i due astronauti fotografarono ogni pietra e riposero in una sacca quelle giudicate più interessanti da portare sulla Terra. La regione di esplorazione fu scelta anche per la possibilità di scoprire rocce di anortosite, ritenuta da alcuni geologi il primo materiale a solidificarsi nello strato più esterno. Scott ne trovò un esemplare e lo ripose nella custodia. Un grande obiettivo era stato raggiunto. La pietra fu battezzata Genesis rock, pietra della Genesi. Per Irwin, appassionato di montagne, il panorama intorno offriva una «desolante bellezza». I due esploratori rimasero lassù 67 ore, 19 delle quali dedicate alle escursioni con il rover, percorsero 28 chilometri e portarono a casa 77 chilogrammi di rocce. Quando risalirono sul modulo per ricongiungersi con Alfred Worden, che li attendeva in orbita, sulla loro auto elettrica abbandonata poco lontano rimase una targa con inciso: «Le prime ruote dell’uomo sulla Luna, trasportate da Falcon. 30 luglio 1971».
Anche nelle due successive e ultime spedizioni Apollo il rover si rivelò un veicolo eccezionale per la ricerca geologica. Questa è la ragione per la quale la Nasa, impegnata a riportare gli astronauti sulla Luna con il Programma Artemis, già prevede il ricorso a un veicolo elettrico per spostarsi. Due società (General Motors e Lockheed Martin) sono coinvolte nel progetto. Stanno immaginando un mezzo di trasporto molto diverso dai primi storici rover. Intanto, sarà un veicolo elettrico chiuso e climatizzato capace di ospitare più persone (almeno quattro) e dotato di guida automatica. Gli astronauti inseriranno le destinazioni e poi si autoguiderà evitando ostacoli di ogni genere — massi e crateri compresi. Ma non potendo usare alcuna bussola e nemmeno il Gps, i computer del nuovo Lunar Rover utilizzeranno percorsi memorizzati mentre i sensori faranno riferimento alle stelle e al Sole. L’auto li riporterà poi autonomamente al punto di partenza.
Sul progetto è già nata una sfida, tecnologica e politica. Al programma Artemis partecipa anche l’agenzia spaziale giapponese Jaxa, che ha assegnato alla Toyota l’incarico di sviluppare un Lunar Cruiser con le caratteristiche indicate dalla Nasa. Per questo è nato Team Japan: riunisce numerose industrie nipponiche produttrici di tecnologia d’avanguardia ed è determinato a innalzare la bandiera giapponese nei grigi orizzonti della superficie lunare.