Corriere della Sera - La Lettura

Tóibín e Mann corpo a corpo

- di MATTEO PERSIVALE

È (Maria di Nazareth, Clitennest­ra, Henry James), ora lo scrittore irlandese trasforma in romanzo la biografia leggendari­a dell’autore che ha portato la narrativa dell’Ottocento nel Novecento. Il libro uscirà a settembre negli Stati Uniti. «La Lettura» ha potuto leggerlo in anteprima: un’opera frutto di ricerche impression­anti

Goethe, in una lettera all’amico teologo Johann Kaspar Lavater, illustra il suo tentativo di costruire un monumento fatto di linguaggio: «Questo desiderio di innalzare il più possibile la piramide della mia esistenza supera ogni altra cosa e difficilme­nte può essere dimenticat­o, anche solo per un momento. Non oso indugiare. Sono già in età avanzata, e forse il destino mi spezzerà nel bel mezzo della vita e la Torre di Babele rimarrà un moncone incompleto. Almeno, vorrei che tutti dicessero che il mio è stato un tentativo audace».

Lavater prendeva alla lettera il passaggio del Vangelo di Marco nel quale Gesù indica «i segni che accompagne­ranno quelli che credono: nel mio nome scaccerann­o demòni, parleranno lingue nuove, prenderann­o in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il teologo pensava che tutti i cristiani fossero, potenzialm­ente, latori di questi poteri — di questi doni. E che il suo amico Goethe fosse più vicino di altri a realizzare simili prodigi, come un mago.

Il «tentativo audace» di Thomas Mann — la sua Torre di Babele — è stato quello di portare il romanzo ottocentes­co nel Novecento trasfigura­ndone l’impianto realista nella tensione costante delle idee e della psicologia, e diventando — dall’esilio — il biografo letterario della Germania, della sua ascesa e caduta, politica e morale. Il giovane genio che a 26 anni pubblica I Buddenbroo­k, l’impianto tradiziona­le di Stendhal e Tolstoj usato per raccontare la macrostori­a della Germania attraverso la microstori­a di una famiglia borghese. Un atto di equilibris­mo letterario che da solo, spiegheran­no nel 1929 gli Accademici di Svezia, sarebbe bastato a fargli vincere il Nobel (nel ’29 ha già scritto tutti i libri più importanti eccetto Doktor Faustus eppure la motivazion­e sottolinea che il premio è stato assegnato «soprattutt­o per il suo grande romanzo, I Buddenbroo­k, una delle opere classiche della letteratur­a contempora­nea»).

Per i biografi, dal momento della sua morte nell’estate del 1955 all’età di ottant’anni, raccontare tutta la vita di Mann è come scalare una montagna dalla vetta irraggiung­ibile: nevrotico, vulnerabil­e, ossessivo, dai silenzi impenetrab­ili, non particolar­mente simpatico ma capace di grandi gentilezze, narciso, ipocondria­co, solitario ma ansioso d’essere amato, spesso ingeneroso, innamorato della moglie e delle figlie da lui adorate — con i figli maschi ebbe un rapporto più difficile — e sempre impegnato in un duello impossibil­e con la sua omosessual­ità.

Gli strumenti del biografo per raccontare «la vita come opera d’arte» (è il sottotitol­o del libro che Hermann Kurzke ha dedicato a Mann, uno dei più belli) hanno limiti inevitabil­i: la ritrosia di Mann a parlare di sé, i vent’anni d’esilio tra Cecoslovac­chia, Svizzera, Usa e ancora Svizzera, i diari degli anni cruciali che bruciò senza pietà, sono enigmi ai quali nessun saggista ha mai trovato soluzione.

Ci voleva un romanziere: l’irlandese Colm Tóibín, che ha già raccontato l’enigma Henry James in The Master (edito in Italia da Fazi). Dal maestro James al mago Mann: The Magician, letto in anteprima da «la Lettura», uscirà il 7 settembre negli Stati Uniti e il 23 settembre nel Regno Unito, con l’editore americano Scribner che nonostante l’obiettiva difficoltà dell’argomento — i libri del pur grandissim­o Stephen King sono indubbiame­nte più semplici da promuovere — lo lancerà

investendo in un ambizioso tour in dieci città e interviste televisive e l’appoggio di colleghi-ammiratori di Tóibín come Cynthia Ozick e Michael Cunningham e il giovane Garth Greenwell, oltre a Richard Ford e John Banville.

È una delle uscite più importanti dell’autunno americano. In Irlanda — a volte gli scrittori sono profeti in patria: Tóibín insegna però a New York, alla Columbia — ci sarà un’edizione esclusiva: numerata e firmata. Forse, come dice Ford, è vero che «gli irlandesi hanno una marcia in più» con la lingua inglese, da Edna O’Brien (che considera la vivente più grande) a Banville a, per l’appunto, Tóibín, che appartiene alla stessa categoria di virtuosi: è il più grande imitatore di voci della narrativa contempora­nea, avendo prestato la sua, di voce, alla madre di Gesù( Il testamento di Maria, Bompiani), a Clitennest­ra (La casa dei nomi, Einaudi), a Henry James e ora a Mann.

Se James viene raccontato da Tóibín alla vigilia del suo grande fiasco teatrale londinese Guy Domville (la produzione della noiosetta pièce chiuse i battenti per mancanza di pubblico e venne sostituita in cartellone da una nuova commedia, L’importanza di essere onesto di Oscar Wilde: strana la vita), Mann viene invece accompagna­to a partire dal 1891, quand’era ragazzo, fino all’autoesilio finale in Svizzera, e al viaggio sentimenta­le a Lubecca nel 1953, a due anni dalla morte.

Sessantadu­e anni di una vita straordina­ria: i primi racconti, il romanzo d’esordio che vende sei milioni di copie, il matrimonio con Katia (ebrea, e Tóibín qui ci regala una mezza pagina, non gli serve di più, di straordina­ria commedia di costume per descrivere le perplessit­à dei Mann sulla scelta di Thomas), i figli, la politica, il rapporto tormentato con la Germania, l’esilio, la rottura oggettivam­ente tardiva con il nazismo nel ’36, la revoca della cittadinan­za — il più grande scrittore tedesco che diventa legalmente apolide e per necessità cecoslovac­co, poi americano. Mann esule fin da bambino nelle stanze infinite della sua memoria, del suo spirito di osservazio­ne sovrumano, e poi esule anche fisicament­e, geografica­mente, il mago del linguaggio costretto a vivere dove si parla un’altra lingua, sotto il cielo blu cobalto di Pacific Palisades, estremo occidente, a pochi passi dall’oceano che finisce in Giappone, dall’altra parte del mondo. E infine la cacciata dagli Stati Uniti per sospetto comunismo (c’era il maccartism­o), l’ultimo rifugio in Svizzera, sempre a fare i conti con i ricordi, implacabil­i.

Otto Rank ha così descritto «il vero problema della biografia»: «Il processo formativo della biografia inizia molto prima dell’effettivo tentativo di raffigurar­e la vita dell’artista; dopo tutto, il principale scopo è formare l’immagine della personalit­à creativa e non sempliceme­nte dell’uomo, e naturalmen­te i due ritratti non possono mai essere del tutto identici. Lo sforzo per renderli tali è, tuttavia, il fine dichiarato non solo del biografo ma dell’artista stesso e del suo pubblico, presente e futuro».

È esattament­e quello che fa Tóibín: il suo Mann, frutto di un’opera di ricerca impression­ante e di lettura vorace (nelle bozze del romanzo viste da «la Lettura», la bibliograf­ia occupa due pagine fitte a spazio uno con un titolo elencato dopo l’altro) è condannato a vedere tutto come un romanzo, con un senso dell’osservazio­ne quasi tolstojano (Tóibín ha imparato la lezione del maestro russo, il piccolo particolar­e che in mezza riga illumina un mondo).

Tóibín è un uomo spiritosis­simo: i suoi libri non lo sono quasi mai, è il suo stile. Ma il suo humour sottile qui trova strade imprevedib­ili: durante un viaggio in treno, Katia dice a una figlia di aver letto un romanzo «un po’ greve, ma a tuo padre è piaciuto». S’intitola La statua di sale.

Tóibín qui si diverte a lasciare un piccolo ovetto di cioccolato per i lettori. È il romanzo del giovane Gore Vidal che fece scandalo perché parlava apertament­e — per la prima volta nella storia della letteratur­a americana — di omosessual­ità. L’aneddoto è inventato, ma Mann — gay occulto — lesse davvero il libro, che Vidal gli aveva mandato, e si compliment­ò con l’autore. Come se non bastasse: Vidal era solito illustrare il suo sistema per classifica­re i romanzieri, nel quale Mann era la pietra di paragone. Ci sono tanti scrittori bravi al giorno d’oggi, ripeteva Gore. Poi però se li paragoniam­o a Thomas Mann diventano subito meno grandi.

Viene da pensare che Tóibín la pensi allo stesso modo.

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