Corriere della Sera - La Lettura
Ritorno in Sardegna La vendetta del figlio
L’esordio di Giovanni Gusai affronta il viaggio di un giovane dal nome arcaico nella propria terra e nella propria storia genetica. Un’ambientazione locale accoglie la lezione universale di Grazia Deledda rifiutando il facile folklorismo
Se Antine, il giovane protagonista dal nome arcaico del romanzo di esordio di Giovanni Gusai Come in cielo, così in mare (Sem), sapesse declinare l’intero paradigma delle generazioni non ci sarebbe bisogno di 233 pagine per raccontare questa storia. Tuttavia la storia che leggerete ha senso, ed è persino necessaria, proprio perché racconta del viaggio di un eroe all’interno della propria genetica. Come in un B-movie di fantascienza, il giovane Antine si fa microscopico per entrare nel corpo della sua genìa. Ed esplorare la sua stirpe. Antine, figlio di Salvatore, figlio di Bertu, viaggia come il capitano Nemo dentro un pregresso che gli era del tutto sconosciuto. Si potrebbe dire che questo romanzo così fresco e così maturo vuole contribuire al racconto infinito dell’infinita lotta tra generazioni per la conquista di un senso di sé. Della da cui origina Antine ha il nome radicalmente dialettizzato, profondamente locale anche per i locali. Sicché del suo corrispondente nazionale, Costantino, non resta traccia. Ora Antine è cresciuto e ha studiato a Milano, dove quel nome profonde esotismo ed enigma.
Ipotizzare qualcosa fuori dalle storie qualche volta può servire a squadernare le storie stesse senza limitarsi al semplice atteggiamento promozionale. Perciò la scelta di questo nome alieno mi pare materia più che sufficiente a chiarire fino a che punto la propria vicenda esistenziale e la coscienza di essa determini le decisioni che il protagonista si trova a prendere. In definitiva si tratterebbe della «solita storia» della guerra titanica tra genitori e figli, della messa a punto di quel particolare sistema di valori che permette ai giovani edipi di questa terra, e di questo mare, di «uccidere» i propri padri attraverso la disobbedienza, il rischio, la tracotanza.
Ora nello svolgersi plastico di questo romanzo, così ben scritto, è chiaro che le generazioni si vendicano alternativamente: i nipoti resuscitano quei nonni che, da padri, sono stati, precedentemente, «uccisi» dai propri figli. Antine, che della Sardegna porta il nome, combatte contro Salvatore che della Sardegna porta il rifiuto, e tenta di annientarlo con l’accettazione di tutte quelle caratteristiche che a lui trent’anni prima erano sembrate tossiche. Certo, si possono prendere le parti del giovane eroe che si avvia verso un precipizio senza paracadute e sperare in qualche sterpo affiorante che ne attutisca la caduta. Ma qui ci troviamo in una metafora che è assai più complessa di tutto ciò, perché il risultato effettivo di certe spedizioni punitive contro i padri può essere quello di cominciare a conceSardegna pirli e quindi dargli quel senso che la lotta cieca ha fino a quel punto negato. E insieme al senso magari un barlume di comprensione.
Fare i nonni è sempre stato più semplice che fare i padri: è uno status che riunisce tutti i benefit della paternità senza i problemi che ne conseguono. La teoria del mio, di nonno, era che viziare i nipoti fosse un diritto e un dovere, dopo che si era passata una vita a raddrizzare i figli. Qui non si fa eccezione, la promozione delle generazioni è giocata sul piano della soddisfazione di sé: il figlio di un pastore non vuole fare il pastore, ma il nipote di un pastore, come una sindrome immunodepressiva che salti una generazione, sì. L’inganno è che l’ambientazione sarda faccia di questo maturo romanzo d’esordio di Giovanni Gusai, un romanzo sardo. Non è così: Come in cielo, così in mare, è di quelle storie che valgono per quello che raccontano.
Qui l’ambientazione locale non ha proprio nulla di locale, proprio come dovrebbe accadere a un nipote nuorese diretto discendente di Grazia Deledda, come tutti gli scrittori nuoresi, che, rifiutando l’appeal del facile folklorismo, ritorna esattamente all’obiettivo primo di quella nonna geniale spesso dileggiata, fraintesa o semplicemente ignorata. E cioè generare narrazioni universali, affrontare l’hybris di tentare una propria variante alla «solita storia», fino a quel verso con cui Withman ci chiede di contribuire. Il verso di questo romanzo è quella che in teatro si definirebbe la prossemica, lo studio cioè del significato della distanza che interponiamo tra noi e gli altri. C’è, in questo senso, un punto focale nel romanzo di Giovanni Gusai che da solo ne giustificherebbe la lettura entusiastica. E cioè quando Antine, che ha deciso di rimanere in Sardegna contro il parere di suo padre, può sperimentare dal vivo, a contatto diretto, le asperità e le reticenze di suo nonno. Reticenze che tenta, con ostinazione, e direi finalmente, di risolvere con suo padre. Ma ora suo padre da cui ha preteso la distanza è davvero distante, oltre il mare, in quella Milano che nella sua fase polemica era sembrata a Antine prosaica. E dunque non è faccia a faccia che si deve dipanare questa matassa, ma al telefono, guardandosi senza guardarsi, sentendo un resoconto vocale proveniente da un altrove. Una vicinanza che si riconquista a distanza. Perché accumulare un patrimonio di sé è come avere i bagagli sempre pronti. Alla fine «decidere di rimanere» è un atto che si compie pienamente solo se si hanno molti bagagli, anzi «moltissimi».