Corriere della Sera - La Lettura
I tre disertori della battaglia di Marengo
Marino Magliani fa vagare (e parlare) i soldati tra i contadini liguri
Forse non è neppure una questione di trama, che è uno degli elementi di forza di questo romanzo. E neanche di personaggi, che si attaccano sin da subito al lettore. Neppure di paesaggi, che il ligure Marino Magliani restituisce con pennellate e odori. È tutto questo assieme che rende Il cannocchiale del tenente Dumont un romanzo di rara bellezza. Perché l’autore muove la parola sulla pagina in presa diretta, quasi la componesse nel momento in cui viene — in realtà — letta da chi segue la storia.
Siamo nel 1800 e il capitano Lemoine, il tenente Dumont e il soldato semplice Urruti, sopravvissuti alla campagna disastrosa dell’Egitto, disertano la battaglia di Marengo perché — devono provarlo gli emissari del medico Zommer che li pedinano lungo la loro fuga — sono dediti all’hashish. Anche quando l’hashish non ci sarà più.
Magliani, che è prolifico e apprezzato autore (già premio LericiPea nel 2002), in questo romanzo compie un piccolo miracolo. Quello che crea l’autore — questo mondo così lontano ma capace di diventare così affine — è infatti un tempo diverso. Ed è il tempo di chi fugge, la bolla temporale della diserzione, di chi sa di non dover perdere tempo e di assaporarlo in ogni sua asprezza, anche quando i temporali inzuppano i vestiti dei fuggitivi o i crampi allo stomaco mordono dopo giorni e giorni di fame vera.
Per oltre duecento pagine Magliani ci mette accanto a questi tre soldati, profondamente e magnificamente diversi tra di loro. Per oltre un anno il tempo è quello delle loro parole, di quello che osservano nelle rispettive ribellioni da far sopravvivere all’interno di un mondo di contadini liguri. «Qui la vita è mica nient’altro, compimento delle stesse cose severe e sofferte, un’unica attesa, in mattinata si aspettano le campane di mezzogiorno, la sera quelle dell’Ave Maria, e il resto si fa fatica, preghiera da buio a buio. Poi a un certo punto le mulattiere assomigliano a colonne di formiche ed esce la luna» scrive Magliani che si fa erede di quella patria letteraria ligure che aveva «partorito» per capacità visiva Francesco Biamonti e, per avanscoperta narrativa, Vittorio G. Rossi.
Ma questo romanzo ha qualcosa di più: per trama e stile può essere idealmente accostato, a coronamento temporale, accanto a I cento giorni di Joseph Roth dove si parla del Napoleone che scappa dall’Elba (siamo nel 1815) e a L’ussaro sul