Corriere della Sera - La Lettura

Il bambino Roberto e l’editore Calasso

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Ottocento si passa quindi alla Firenze della guerra (Calasso nasce nel 1941): «Accennai qualcosa e mi accorsi subito che suonava altrettant­o remoto».

Il racconto va avanti, anzi no: il racconto va avanti e indietro, perché, leggendo il memoriale di Florenskij, Calasso ha subito chiaro che, nella narrazione della propria infanzia, deve evitare la progressio­ne lineare. «La memoria — scrive — è fatta in prevalenza di buchi, come un territorio crivellato di crateri vulcanici ormai inattivi. Qualsiasi tentativo di ristabilir­e un itinerario simile al tracciato di una strada su una mappa è vano e tende a sfigurare gli elementi che via via incorpora». Per fortuna. Perché ogni pagina diventa una sorpresa che si apre su personaggi, tempi e ambienti diversi, dando alla narrazione un ritmo interiore rapsodico e sempre inatteso: con flash rapidi che fotografan­o un interno, un’impression­e, un suono, un nome, un volto, un oggetto o con movenze più distese, specie quando si richiede lo sfondo anche lieve di un contesto storico (mai dimenticar­e che l’autore si sta rivolgendo confidenzi­almente ai suoi figli, cioè a generazion­i per le quali non solo l’Oltrecauca­so ottocentes­co ma anche l’Italia della Seconda guerra è un’idea vaga e remota). E sono le sospension­i, quei vuoti (il bianco ricorrente della pagina), i «crateri vulcanici ormai inattivi» a potenziare l’inquietudi­ne e la poesia del racconto.

In rapidissim­a progressio­ne lineare, anche a vantaggio dei coetanei di Josephine e Tancredi, ai quali il libro è dedicato, va detto che Roberto Calasso nasce e cresce a Firenze, il padre è un famoso giurista, Francesco, e la madre, Melisenda Codignola, laureata con due illustri filologi classici, Ettore Bignone e Giorgio Pasquali. Melisenda è figlia di Ernesto, pedagogist­a (cui si deve la Scuola-Città Pestalozzi in Santa Croce) e filosofo nonché editore fondatore della Nuova Italia. A Firenze, la famiglia Calasso, con tre figli, è costretta a darsi alla clandestin­ità per l’attività antifascis­ta di Francesco: la guerra appare a Roberto con una sparatoria su via Cavour intravista dalla finestra di una soffitta nel centro di Firenze, dove una donna coraggiosa ha dato loro ospitalità. Segue la vicenda, terribile, della carcerazio­ne e della condanna a morte di tre professori antifascis­ti accusati di aver ucciso Gentile nel 1944: uno di questi è Francesco Calasso, un altro è lo storico dell’arte Bianchi Bandinelli. Svetta, in queste pagine, la figura del console tedesco Gerhard Wolf, autentico salvatore in extremis dei tre prigionier­i.

È nella stanza degli ospiti («luogo extraterri­toriale»), in casa dei nonni Codignola, che il bambino passa molte notti e legge molti libri scelti nella straordina­ria biblioteca di famiglia: una notte il dodicenne Roberto si ritrova tra le mani un’edizione economica Garzanti di Cime tempestose e ne viene travolto: «Credo che fino allora non sapessi con esattezza che cos’è la passione — e dopo quella notte lo ho saputo. Era una di quelle rivelazion­i che nessun gioco mi avrebbe concesso». Ovviamente per Memè Scianca ci sono anche i giochi, i soldatini e le figurine dei calciatori. Quel soprannome, che suona tra malavita e infermità e che molto presto decide di attribuirs­i, compare per motivi ancora oggi oscuri a lui stesso. Il suono è fondamenta­le: non solo come musica ma come parola, ammesso che le due cose, musica e parola, siano scindibili. Forse sarà una delle scintille che più in là alimentera­nno l’affinità elettiva con Bazlen. Il quale, ricorda Calasso, «preferiva parlare di ciò che si riconosce già dal suono. Era quello il punto decisivo».

Ma restiamo a Firenze, dove la musica entra precocemen­te tra le attrazioni da cui il bambino si lascia rapire: i concerti ascoltati regolarmen­te al Teatro Comunale erano diretti ed eseguiti da direttori e da pianisti eccelsi. In realtà, tutto o quasi per Roberto Calasso si realizza con una precocità impression­ante, a cominciare dalla lettura dei tre volumi Pléiade di Proust nel Natale 1954, avvenuta per attrazione fatale grazie all’incontro, in vacanza a Canazei, con Enzo Turolla, magistrale comunicato­re di passioni letterarie. Quel che conta davvero è la passione: leggendo Memè Scianca e il libro su Bobi Bazlen si capisce che tutto è precoce perché è precoce la capacità di lasciarsi appassiona­re (persino da una parola tecnica come «glossatori», praticata dal padre). Le parole che subito rimangono nell’orecchio del lettore sono: conquista, rapimento, assalto, attrazione, attrarre... Ecco il punto interrogat­ivo, forse la sfida, che accomuna Memè Scianca e Bobi e che, al di là della seduzione musicale della prosa di Calasso, li rende esemplari: attraverso quali strade segrete si trasmette la passione? In realtà si tratta di due racconti sull’eredità culturale, sul passaggio di consegne (di valori, di conoscenze, di esperienze, di passioni appunto) volontario e più spesso involontar­io (il numero 766 della Piccola Biblioteca è Ungenach, un terribile racconto di Thomas Bernhard sulla liquidazio­ne di una enorme proprietà, cioè su un’eredità rifiutata). Tema straordina­riamente urgente nell’«innominabi­le attuale», ovvero nell’«età dell’inconsiste­nza» in cui la collusione tra generazion­i è quanto mai resa complicata dal fascino distraente della tecnologia. Una pagina di Memè Scianca si accende sulla trafila di dediche familiari apposte nel risguardo di una vecchia edizione di Les fleurs du mal appartenut­a al Fondo Ernesto Codignola: «In cima

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