Corriere della Sera - La Lettura
Enrico Caruso Una caricatura d’arte
È l’aspetto meno noto e frequentato del grandissimo tenore morto a Napoli il 2 agosto di un secolo fa: vent’anni di ritratti, autoritratti, schizzi che desacralizzano e irridono (soprattutto) il suo mondo. Il divo che sbeffeggia anche sé stesso
Siamo nel 1903. Enrico Caruso è seduto al tavolo di un ristorante newyorkese. Insieme con lui, Marziale e Alessandro Sisca, editori di «La Follia», tra i periodici più diffusi nella comunità italiana. In una pausa del pranzo, il grande tenore, sul retro del menu, disegna una caricatura di sé stesso. Da quel giorno, per lui, diventa una consuetudine. Fino al giorno della morte (2 agosto 1921), Caruso continuerà a realizzare schizzi, che donerà gratuitamente a «La Follia», respingendo le offerte di tanti magnati della stampa americana, sempre fedele ai piccoli editori del giornale italiano.
Un divertissment, certo. Ma non solo. Anche una distrazione. E una pausa, per sottrarsi alle pressioni del mercato e delle tournée. E ancora: una liturgia. Un rito quasi scaramantico. Ma, forse, soprattutto la conferma di una passione coltivata a lungo e in silenzio. Che ci aiuta ad accostarci alla costellazione-Caruso da una prospettiva diversa. Perché, in fondo, non c’è solo un Caruso: ce ne sono tanti, come emerge da un recente documentario Voice of Gold/Voice of God, diretto da Laura Valente (con la sceneggiatura della stessa Valente e di Enzo d’Errico), esito di una lunga e attenta ricerca archivistica.
Appartiene alla leggenda il tenore-divo, il «sovrano assoluto» che si esibisce al Metropolitan di New York dal 1903 al 1920: «Nessuno è degno di lustrargli un solo gioiello della corona», dice una sua collega. Il successo, la notorietà e i cachet di cui gode Caruso non hanno paragoni nella storia della musica lirica. È una sorta di eroe dei due mondi, impegnato ad abbattere i confini tra cuore e talento, tra passione e tecnica, tra musica popolare e colta, tra la tradizione della canzone napoletana — lingua materna, radice che non si recide — e la nobiltà formale dell’opera italiana. Un artista nella cui voce potente si impastano inquietudini, ricordi, nostalgie, allegrie, l’«amaro pane» della lontananza, un profondo istinto di sopravvivenza e la fame di vita.
Poi, c’è la celebrity. Il mito, che riesce a comprendere come pochi le regole della nascente società dello spettacolo. Proveniente dal Sud, di origini umili, privo di studi accademici, Caruso capisce subito lo spirito del tempo. Prodigioso nel caricare il «belcanto» sottile e astratto di uno spessore espressivo più sanguigno e possente, in America, diventa presto una star mediatica (non troppo diversa da Che Guevara o da Marilyn Monroe), come suggeriscono anche le tante «mirabilia» radunate nel Caruso Museum di New York. È tra le vette dell’arte del Novecento: il protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann paragona un suo sogno all’esaltazione provata nell’ascoltare uno strepitoso «tenore italiano» (evidente allusione a Caruso). Dunque, un’autentica icona moderna: non senza qualche eccesso, in un sondaggio sui giganti dello scorso millennio, il «Washington Post» ha considerato Caruso addirittura come «il più grande».
Infine, c’è il lato meno esplorato del talento multiforme di questo antesignano delle rockstar contemporanea: il suo lavoro da artista. Negli anni giovanili, Caruso disegna fontane, che poi, da operaio, realizza in fonderia. Inoltre, ha l’ambizione di trasformare Villa Bellosguardo (oggi sede di un museo) — la sua reggia in un angolo di Toscana — in un piccolo Vittoriale. Ne segue gli iniziali progetti di ripristino; ne cura l’arredamento; la riempie di mobili, di orologi antichi, di oggetti preziosi, di stoffe pregiate e di opere d’arte commissionate a tanti importanti pittori e scultori: fasti che, oggi, vivono solo in sbiadite immagini d’epoca.
Approdo di tali interessi è l’attività da involontario erede di Daumier e Grandville, di Monnier e Gavarni. Che, in poco meno di vent’anni, ha composto un’inedita galleria satirica, abitata da autoritratti e da ritratti. Per coglierne il senso, potremmo richiamarci a quel che aveva osservato Baudelaire in un celebre saggio del 1846 dedicato all’«essenza del riso e del comico nelle arti plastiche». Occorre distinguere due diversi tipi di caricature, ricordava il poeta dei Fiori del male .Da un lato, il «comico assoluto»: schizzi poco immediati, sofisticati, che possono essere apprezzati solo per intuizione, attraversati da un «elemento misterioso, duraturo, eterno». Dall’altro lato, il «comico significativo»: esercizi basati su un linguaggio «più chiaro, più facile a intendersi da parte della massa», che valgono soprattutto per il loro contenuto, destinati a scomparire «come i fogli volanti dei giornali», trascinati via da un «vento continuo».
Nel secondo gruppo di caricature potremmo iscrivere gli appunti di Caruso. Che non hanno nessuna particolare ambizione pittorica: pensati non per entrare in un museo o in una galleria, ma per essere pubblicati su un magazine popolare, di larga diffusione. Questo pittore dilettante si attiene a un metodo preciso. Egli muove sempre da qualche personaggio esistente: sé stesso (ad esempio, nei Pagliacci ,in Tosca, nella Bohème, nel Faust) e anche tanti protagonisti del mondo musicale dell’epoca (critici, direttori d’orchestra, cantanti, attori, musicisti...). Nel riprendere in maniera inconsapevole la grande tradizione che ha legato, sin dal Quattrocento, pittura e fisiognomica, mira a fare affiorare i caratteri distintivi di ogni soggetto. Ne studia i moti dell’animo partendo dai tratti del volto. Li astrae da ogni contesto di riferimento, procedendo per primi piani. Non di rado, nei suoi giocosi ghirigori su carta, ne accentua i tratti distintivi, le movenze, i tic. Li sbeffeggia. Li desacralizza. Li irride. Li camuffa. Li clownizza.
Dinanzi ai noi si compone una mascherata con tanti pupazzetti dalle facce buffe. Come una «festa dell’insignificanza» (per dirla con il titolo di un romanzo di Milan Kundera), Originali motti di spirito, che lambiscono i territori della nonserietà. Scarabocchi, che rivelano una contagiosa giocosità. Appunti nei quali decisivo è il ricorso allo strumento critico dell’ironia.
Accostando le parti di questo vasto corpus, si delineano i contorni dell’identità doppia di Caruso: la sua inclinazione tipicamente partenopea allo sberleffo e alla smitizzazione e, al tempo stesso, la sua sapienza nell’osservare il sistema dello spettacolo con un misto di stupore e di disincanto. Per afferrare l’originalità del Caruso caricaturista, potremmo ritornare a un’altra riflessione di Baudelaire. Che, nel Salon del 1859, sottolineava come un bravo ritrattista non debba comportarsi come uno storico portato a riprodurre quel che ha dinanzi agli occhi. Egli, invece, deve concepire i suoi dipinti come biografie, rappresentare «il dramma naturale immanente a ogni uomo». Infine, indossare gli abiti del suo personaggio. È quel che fa ogni bravo attore: «Come suo compito, assume tutti i caratteri e tutti i costumi».