Corriere della Sera - La Lettura
Voce sensuale che vale milioni
Una figura leggendaria, scomparsa nove giorni dopo la nascita di un altro gigante, Giuseppe Di Stefano
Adieci anni lavorava con i calzoni corti in una fonderia di Napoli. A venti, la notte del 23 novembre 1903, dopo un trionfale debutto al Metropolitan di New York, nei panni del Duca di Mantova nel Rigoletto di Verdi (sul podio c’era Arturo Vigna), nacque il mito americano di Enrico Caruso (1873-1921). Per i diciassette anni successivi fu il re di quel teatro, l’idolo incontrastato dei melomani. Quel Rigoletto fu la prima di 607 recite (c’è chi sostiene fossero 863), con un repertorio vastissimo (seguirono Aida, Tosca, Bohème, Pagliacci...), che gli fece ben presto superare il confronto con Jean de Reszke, il tenore di casa al Metropolitan.
Caruso era già una star quando arrivò in America: dopo gli inizi da ragazzino come voce di contralto in chiesa, aveva debuttato nel grande repertorio nel 1895 al Teatro Cimarosa di Caserta con Cavalleria Rusticana. Quando la motonave Sardegna buttò l’àncora nel porto di New York era l’11 novembre 1903, dodici giorni prima del debutto. Il contratto ricco che firmò con il Metropolitan si meritò grossi titoli sui quotidiani italiani. E pensare che due anni prima, il 30 dicembre 1901, fu fischiato nella sua Napoli, al teatro San Carlo, durante la messa in scena de L’elisir d’amore di Donizetti. Giurò che non avrebbe mai più cantato nella sua città e così fece. «Fu fischiato — spiega a “la Lettura” Enrico Stinchelli, storico della vocalità e conduttore insieme a Michele Suozzo della trasmissione storica di Radio3 La Barcaccia — perché cantò in maniera completamente diversa, nuova rispetto a Fernando De Lucia, che era di casa al San Carlo. Caruso fu la vera rivoluzione, il primo cantante moderno, il primo a cantare con la voce lontana dai cliché ottocenteschi». Aggiunge Suozzo, storico della musica: «La voce di Caruso è stata una voce sensuale e questa è stata la prima grande rivoluzione, perché i tenori prima usavano una voce più stilizzata, più debitrice dell’antica tradizione dei castrati. Con Caruso si arriva a una voce piena di calore e risonanze».
Per Stinchelli è stato «una velocissima parabola tenorile, che dagli esordi alla fine della sua carriera ha percorso tutte le categorie vocali legate a quel registro. Ci sono ben cinque diverse incisioni di Celeste Aida, che sembrano cantate da cinque tenori diversi. Il primo è addirittura in falsetto, altri in una specie di falsettone (amplificazione dei suoni bianchi del falsetto, ndr )e poi a mano a mano assistiamo alla metamorfosi verso il Caruso baritono con gli acuti. È una parabola impressionante. Un caposcuola che creò il filone Caruso-Beniamino Gigli-Giuseppe Di Stefano-Mario Del Monaco fino ad arrivare a Pavarotti». Quando moriva Caruso, il 2 agosto 1921, Di Stefano (altro centenario da celebrare) era al suo nono giorno di vita, nato il 24 luglio 1921. «La sensualità della voce di Caruso, dovuta a una tecnica istintiva — puntualizza Suozzo — è stata ereditata maggiormente da Di Stefano. Gigli è stato una specie di alternativa a Caruso...».
E poi c’erano le sue doti attoriali. «Durante una rappresentazione dei Pagliacci — continua Suozzo —, la sua parte più iconica, nel primo atto, in un momento passionale, si morse inavvertitamente un dito con una tale violenza da farlo sanguinare. Ricordo sempre questo aneddoto quando mi trovo davanti a tenori poco espressivi». Incidendo l’aria Vesti la giubba dai Pagliacci, Caruso potè vantare un primato assoluto: è stato il primo artista a vendere più di un milione di copie. Anche il primo a credere nella potenzialità della registrazione discografica, snobbata ai suoi albori dagli altri cantanti. Il 28 gennaio 1904, pochi mesi dopo il debutto americano, firmò un contratto in esclusiva per la casa discografica Victor, che gli fruttò molto denaro (tra il 1902 e il 1920 incise circa 250 facciate a 78 giri, ndr), oltre a quello percepito per le sue recite: i suoi cachet erano strabilianti, i cantanti di quell’epoca percepivano somme inimmaginabili oggi». Ma Caruso cantò spesso anche per beneficenza e per gli amici di Little Italy. Sottolinea infine Stinchelli che la sua voce «era molto fonogenica, aveva rifrazioni un po’ di gola che sono ottime per chi registra».
Il 24 dicembre 1920 — dopo un’estenuante tournée estiva (fra cui dodici sere di fila all’Avana a 10 mila dollari a concerto) — cantò, malato, per l’ultima volta al Metropolitan, La Juive di Halévy, poi corse a Sorrento in cerca della vita. Aveva 48 anni, il 2 agosto 1921 quando chiuse gli occhi nella sua Napoli, città dove è sepolto vicino a Totò. Lucio Dalla con la canzone Caruso ne amplificò la fama, arrivando a un pubblico ancora più vasto. Non a caso il ministro della Cultura Dario Franceschini ha costituito un Comitato nazionale per le celebrazioni carusiane. La Juive rimane la sua testimonianza discografica più commovente. Lo scrittore austriaco Joseph Roth disse: «Sarebbe diventato cantante anche se fosse venuto al mondo senza corde vocali».