Corriere della Sera - La Lettura

La giravolta filo-Trump

- Di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

J. D. Vance smentisce il suo libro sull’America bianca povera e scende in campo per i repubblica­ni

C’erano cascati quasi tutti. Nel 2016, quando la vittoria di Donald Trump sconvolse l’America, il memoir di J. D. Vance (nella foto) Elegia americana (Garzanti), uscito pochi mesi prima, venne indicato come testo chiave per comprender­e l’elettorato che aveva portato a quel risultato. «Uno sguardo lucido e onesto», l’aveva definito il «New York Times», «una lettura fondamenta­le in un linguaggio che sia repubblica­ni che democratic­i possono apprezzare». Improvvisa­mente, il conservato­re Vance, cresciuto fra l’Ohio delle ex acciaierie e il Kentucky dei monti Appalachi, era acclamato come cantore della povera gente, quella classe operaia bianca dimenticat­a di cui riconoscev­a anche le mancanze. Richiestis­simo da giornali e tv a sinistra come a destra. «Trump è l’oppio delle masse», scriveva. E l’America liberal annuiva. E quando dal suo libro è stato tratto un film per Netflix, è stato il regista, Ron Howard, a essere massacrato dalla critica («Due ore di pornografi­a della povertà travestite da esca per gli Oscar», uno dei commenti più benevoli), non lui.

Tutto è cambiato quando, ai primi di luglio, Vance ha annunciato la candidatur­a alla nomination repubblica­na per il Senato dell’Ohio — corsa difficile e apertissim­a e test elettorale —, trascorren­do le prime due settimane della campagna a strizzare l’occhio all’estrema destra e a fare marcia indietro su Trump, dopo averlo a lungo definito un «disastro morale», bocciando le sue proposte politiche «turpi» e la sua condotta «riprovevol­e». Obiettivo? Assicurars­i il voto degli elettori di Trump e accreditar­si come suo erede politico. Una giravolta a 180°, complice anche la donazione di 10 milioni di dollari da parte del miliardari­o hi-tech trumpiano Peter Thiel. Per i progressis­ti, che a parte alcune voci discordant­i (tra cui Sarah Smarsh, autrice di Heartland, saggio-memoir sulla povertà dei coltivator­i del Midwest pubblicato in Italia da Black Coffee), l’avevano incensato, è stato un vero colpo. E la reazione commisurat­a.

«La débâcle morale di J. D. Vance», titolava l’altro giorno un durissimo editoriale sull’«Atlantic» (lo stesso da cui Vance si scagliava contro Trump), bollandolo come pagliaccio e ciarlatano. «Come lo chiami uno che rinnega tutto ciò in cui sosteneva di credere? Un venduto? Come definire questo sedicente montanaro diventato venture capitalist, la cui perfidia verso la sua stessa gente è troppo grande per permetterg­li di cavarsela con l’etichetta di “opportunis­ta”?».

Su Twitter, dove ha cancellato i post anti-Trump, chiedendo scusa e definendol­o un buon presidente, Vance oggi condivide teorie del complotto sull’elezione alla Casa Bianca di Joe Biden, difende i neonazisti, irride i giornalist­i rimasti traumatizz­ati dall’assalto al Campidogli­o del 6 gennaio, offende la città di New York facendo leva sui più triti cliché repubblica­ni («Ho sentito dire che è disgustosa e violenta, ma come la prima stagione di The Walking Dead o come la quarta?»). New York che in realtà Vance conosce benissimo, e i cui tassi di criminalit­à sono nettamente inferiori a quelli di Cincinnati (Ohio), dove risiede.

Finora, la strategia non sembra funzionare. Sulla stampa locale, Vance viene bollato come «falso», il suo disprezzo per i poveri degli Appalachi «già evidente nel suo libro, dove distorce la nostra cultura per trarne profitto». «La sua è la solita retorica populista che mira a favorire i più ricchi», si legge in una lettera al «Cincinnati Enquirer»: «Non merita di fare il senatore».

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