Corriere della Sera - La Lettura
Cenerentoli
La situazione sociale, aggravata dalla crisi sanitaria, riporta alla mente la favola della fanciulla sfruttata dalla matrigna e dalle sorellastre di cui a Londra si propone una rivisitazione. A pagare il prezzo del Covid sono stati soprattutto i precari: in Europa i contratti a termine sono calati del 17% e l’Italia soffre di più, per l’alto numero di casalinghe e di giovani disoccupati che non seguono percorsi formativi. Nel nostro Paese solo il 58% degli adulti ha un impiego, contro il 65 della Francia e il 77 della Germania. Lo stesso Piano di ripresa non considera a sufficienza questa sfida, che richiede un forte impegno per l’istruzione e un ripensamento dei sistemi di protezione. Occorre riformare il welfare per adattarlo a un contesto in cui tutti cambieranno lavoro molto spesso
Sono quasi tutte donne, spesso di origine straniera, fra i trenta e cinquant’anni. Il loro livello di istruzione è basso, passano spesso il loro tempo di lavoro nei corridoi, nelle camere da letto, negli sgabuzzini. Chi sono? In Francia si chiamano femmes de chambre :le donne che lavorano nel settore dell’ospitalità alberghiera. La categoria occupazionale dove si cumula il numero maggiore di svantaggi: contratti precari e basse retribuzioni, nessuna opportunità di carriera o formazione, pesanti condizioni di lavoro. Qualcuno ha chiamato le addette ai servizi di pulizia alberghiera le
Cendrillon d’aujourd’hui, le cenerentole di oggi. Un nome azzeccato, se non fosse che nella vita di queste donne le zucche non si trasformano in carrozze. Va già bene se si riesce a conservare il posto.
La crisi Covid-19 è stata particolarmente crudele con tutto il lavoro precario. Il numero dei contratti a termine è diminuito del 17 per cento durante il primo anno di pandemia: tre quarti del calo complessivo di occupazione (in media Ue). La Spagna ha perso quasi un milione di posti; Francia, Italia e Polonia oltre mezzo milione. Il settore dove si concentrano le «nuove cenerentole» (ospitalità e ristorazione) è stato quello più colpito dalla cessazione dei contratti atipici: meno 42 per cento. Molte donne sono scivolate nell’inattività, andando a infoltire un altro esercito di cenerentole: le casalinghe.
Nella favola di Perrault, Cenerentola era proprio una giovane donna di casa. Il termine casalinga deriva da «casale rurale», evoca un mondo antico, fortemente patriarcale. Ci sono Paesi in Europa in cui le casalinghe non esistono più da molti anni, come in Scandinavia. Nell’Europa del Sud la situazione è molto diversa. Ancora oggi in Spagna le cenerentole del focolare sono il 6 per cento, in Grecia l’11 per cento e in Italia il 14 per cento della popolazione. Come attesta l’Istat, stiamo parlando di più di sette milioni di donne. La maggior parte sono ultrasessantenni, ma ci sono anche circa settecentomila casalinghe con meno di 35 anni, e molte si trovano in povertà assoluta.
Grazie alle vaccinazioni, la pandemia sta rallentando, forse entro la fine dell’anno potremo tornare a condizioni di normalità (o quasi). I fondi europei aiuteranno tutti i Paesi a rimettere in moto l’economia. La ripresa coinvolgerà anche il precariato? È naturalmente auspicabile, ma non possiamo darlo per scontato. Dopo le grandi crisi, i primi a tornare al lavoro sono gli insider, il cui contratto è stato solo «sospeso» (grazie alla cassa integrazione), ma non interrotto. Gli outsider devono invece contare sulle proprie forze. Per chi è entrato nell’inattività, è probabile che si inneschi la sindrome dello «scoraggiamento»: se trovare un posto è così difficile, tanto vale non cercarlo nemmeno, oppure rassegnarsi a qualche lavoretto nell’economia sommersa (altro grande bacino, in Italia, di cenerentole e cenerentoli).
Nel nostro Paese, poi, anche un’eventuale ritorno ai livelli di occupazione pre-crisi non risolverebbe la situazione. Infatti già prima della pandemia i posti di lavoro disponibili erano molto inferiori rispetto alla domanda. L’Italia riesce a occupare solo il 58 per cento dei propri adulti, di contro al 65 della Francia, al 77 della Germania e a una media Ue del 68 per cento. L’altissimo numero di casalinghe e di Neet (i giovani senza lavoro, che si trovano al di fuori di ogni circuito educativo o formativo) è il risultato patologico di un’economia nazionale che non è mai riuscita a dare abbastanza lavoro ai cittadini.
La grande sfida della ripresa è dunque la creazione di lavoro. Purtroppo il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) italiano, appena approvato da Bruxelles, non sembra dare a questa sfida l’attenzione che merita. Si prevede infatti che i duecento miliardi d’investimenti dei prossimi sei anni facciano salire l’occupazione di soli 4 o 5 punti percentuali. Non riusciremo così ad allinearci agli standard europei; e potremmo persino registrare un allargamento del divario.
I piatti forti della ripresa saranno la transizione digitale e quella verde. Si tratta di obiettivi obbligati per imboccare il sentiero della sostenibilità. Ma è lecito chiedersi in che misura i frutti di queste trasformazioni interesseranno anche i precari. La doppia transizione allargherà sicuramente le opportunità dei giovani con alto capitale umano. La fascia di precariato composta da laureati avrà dunque più elevate probabilità di inserimento. La maggioranza delle nostre cenerentole e dei nostri cenerentoli ha però bassi livelli di istruzione. Senza una vera offensiva sul versante della scuola e della formazione (certo non facilitata dalla conseguenze della didattica a distanza), per questa componente del precariato la situazione potrebbe addirittura peggiorare.
C’è poi un altro rischio. Non tutti i lavori «verdi» saranno di buona qualità, gratificanti e puliti (pensiamo allo smaltimento dei rifiuti). A sua volta, la robotizzazione può originare nuovi rischi per la sicurezza e la salute. Nella storia, durante le transizioni del modo di produrre, fette consistenti di persone si sono trovate e svolgere — nei settori in ascesa — mansioni insalubri e pericolose. Il rischio è oggi ridotto, ma non inesistente.
Nel suo magistrale libro sulla transizione industriale, La grande trasformazione, lo storico Karl Polanyi usò il termine «mulini satanici» per descrivere le inumane condizioni di lavoro delle fabbriche tessili che erano
spuntate come funghi lungo i fiumi inglesi nella prima metà dell’Ottocento. Ogni epoca ha i propri standard minimi e dunque la transizione digitale e quella verde non causeranno certo costi umani così alti come la rivoluzione industriale. Ma non illudiamoci che l’economia high tech sia solo rose e fiori, ossia un concentrato di lavoro creativo e ben pagato in contesti ameni come la Silicon Valley. In un libro del 2006 — significativamente intitolato Satanic Mills or Silicon Islands? — il sociologo Steve McKay ha raccontato come nei Paesi in via di sviluppo molti siti di produzione high tech stiano in realtà riproducendo in versione moderna le condizioni di lavoro dei mulini satanici ottocenteschi. Il libro si apre con una scena piuttosto raggelante: centinaia di donne filippine che vengono trasportate all’alba nel compound di una grande multinazionale di prodotti elettronici sofisticati. Queste donne devono indossare una tuta soffocante che lascia scoperti solo gli occhi e lavorano così per dodici ore collegate a un computer, osservando un assoluto silenzio, sotto la sorveglianza di «Quality Patrol Officers».
In Europa questo scenario è impensabile, per fortuna. Ma c’è il rischio che si affermi un diverso tipo di mulino satanico high tech: il lavoro su piattaforma. La gig economy può diventare un colossale motore per la generazione di beni e servizi innovativi. Per adesso, tuttavia, la maggior parte delle attività sono ripetitive e a basso contenuto professionale. Le richieste dei «compratori» sono erratiche, il flusso di reddito imprevedibile, la concorrenza spietata. Come ha un po’ ingenuamente affermato Lukas Biewald, amministratore delegato di una grande piattaforma, «prima di Internet, era davvero difficile trovare qualcuno disposto a sedersi, lavorare per te per dieci minuti e poi essere licenziato. Ma con le nuove tecnologie queste persone si trovano facilmente: le paghi poco e te ne puoi disfare non appena non ti servono più». Una manna per gli imprenditori, un possibile inferno per chi deve guadagnarsi da vivere.
La pandemia non ha prodotto solo danni, ma anche qualche promettente innovazione: pensiamo allo smart working. La produttività non ha sofferto, tanto è vero che molte imprese resteranno smart anche dopo la pandemia. Segnali importanti (almeno in termini di proposta) si sono avuti anche nel settore del welfare. Di fronte alla crescita del precariato e delle nuove forme contrattuali, la strada che si è imboccata fino ad ora è quella di censire i nuovi lavori per ritagliare su di essi il tipo di protezioni. Chiamiamola strategia della tartaruga.
L’idea che ha preso piede in alcuni Paesi (come la Francia) è quella di cambiare totalmente impostazione: riformare il welfare in modo che sia programmaticamente adatto a fornire prestazioni appropriate a chi ne ha bisogno, nei momenti in cui servono, quale che sia il tipo di contratto e lo status occupazionale. Ciascuno diventerebbe titolare di un conto sociale, alimentato da versamenti contributivi nei periodi di lavoro. Quando si è in cerca di occupazione, si fa formazione o si svolge lavoro di cura non retribuito, è lo Stato che versa i contributi. Se il reddito guadagnato resta al di sotto di una certa soglia, lo Stato integra con risorse proprie sia il reddito sia i contributi sul conto sociale. Ciascun titolare potrà prelevare dal conto quando ne ha bisogno (entro certi limiti, altrimenti non resta niente per la pensione). Naturalmente resterebbero i servizi pubblici gratuiti o quasi, finanziati dalle imposte. Chiamiamola la strategia della rana. Con un bel salto, il welfare si sposterebbe su un sentiero parallelo rispetto a quello della tartaruga, garantendo a tutti una protezione efficace.
Per moltissime cenerentole e cenerentoli, il principe azzurro è ancora oggi il posto fisso. Ma nel mondo di domani il lavoro diventerà flessibile per tutti. Passare spesso da un’attività o da un’impresa a un’altra diventerà la norma. Forse dovremo abituarci a pensare alla carriera come a una sequenza di onde. Finita la scuola, ne prenderemo una e la cavalcheremo fino a quando non s’infrange: quel posto, quell’attività avrà esaurito il suo potenziale. Aggiorneremo le nostre competenze, magari ci prenderemo una pausa. Poi cercheremo un’altra onda da cavalcare, e così via. Certo, il surf è pericoloso. Per questo avremo bisogno di salvagenti, di servizi e di tutor che ci assistano e ci segnalino le onde «buone». E poi, chissà: chi volesse fare il surf vero invece di lavorare (oppure riposare sulla spiaggia), potrebbe ricevere dallo Stato un reddito di base senza condizioni e vivere «felice e contento». Un’utopia, per ora: ma non del tutto irrealistica per il futuro.