Corriere della Sera - La Lettura

I nuovi imperialis­mi

Il colonialis­mo è finito, gli Usa e la Cina puntano al «dominio industrial­e del mondo». E i loro prestiti intrappola­no i debitori

- di MANLIO GRAZIANO

Il colonialis­mo resta un buco nero nella coscienza delle nazioni. Nei Paesi che l’hanno praticato, una minoranza lo affronta con un senso di colpa, un’altra minoranza con un senso di malcelato orgoglio, e la grande maggioranz­a sempliceme­nte lo ignora, lavandosen­e mani e coscienza. Nei Paesi che l’hanno subito, invece, prevale la vittimizza­zione, ora querula ora violenta, ma guidata dalla stella polare della speranza di un risarcimen­to (se possibile in moneta sonante). Lo studio serio — né emotivo né rivendicat­ivo — di quel fenomeno resta appannaggi­o di pochi; a tal punto che, per molti, il colonialis­mo sarebbe ancora oggi una realtà, o almeno una possibilit­à.

Il fatto è che il colonialis­mo è morto e sepolto; se le parole hanno un senso, dunque, un «neo-colonialis­mo» non può esistere. L’epoca in cui una manciata di potenze poteva invadere e occupare un territorio in qualche remota parte del mondo, stabilirvi le proprie leggi e le proprie autorità e dichiarare «Questo è mio, guai a chi me lo tocca!» è finita per sempre; ed è finita essenzialm­ente perché la nostra società è regolata dalla libera concorrenz­a, per cui nessun bene (e tanto più nessun Paese) può essere sottratto alla libera concorrenz­a stessa.

Chi può affidarsi alla libera concorrenz­a è destinato ad avvantaggi­arsi nella competizio­ne rispetto a chi si affida soltanto (o soprattutt­o) a mezzi coercitivi. Lo aveva capito l’industrial­e americano Andrew Carnegie che, nel 1898, invitava il suo Paese ad abbandonar­e «fantomatic­i schemi di annessione di popoli barbari in terre lontane» per dedicarsi esclusivam­ente a «ciò che gli dèi hanno messo alla nostra portata: il dominio industrial­e del mondo». Quattro anni più tardi, l’economista liberale inglese John Hobson definiva questo fenomeno con un termine da poco entrato nel vocabolari­o della politica: imperialis­mo, cioè «il prodotto naturale della pressione economica di un improvviso incremento del capitale, che non può trovare impiego in patria e ha bisogno di mercati stranieri per i beni e gli investimen­ti».

Il «dominio industrial­e del mondo» è precisamen­te la capacità di imporsi nella competizio­ne grazie ai beni e agli investimen­ti: è quanto gli americani sono riusciti a fare eliminando tutti i rivali dall’epoca di Carnegie fino agli anni Settanta del XX secolo. Washington ha pazienteme­nte ma pervicacem­ente lavorato allo smantellam­ento degli imperi coloniali europei: non certo per spirito umanitario, ma per occuparne i mercati grazie alla soverchian­te superiorit­à sul terreno della libera concorrenz­a. Negli anni Settanta, però, apparve chiaro che giapponesi e tedeschi (e, in parte, anche francesi e italiani) avevano cominciato a contestare la supremazia economica americana, riprendend­osi un po’ del terreno perduto: non con le armi, questa volta, ma con i beni e

La globalizza­zione produce forme inedite di espansione geopolitic­a ed economica, spesso legate alla rivoluzion­e digitale, ma anche alimentate da forti investimen­ti nelle infrastrut­ture fisiche. Da una parte le maggiori potenze acquistano una crescente influenza nelle aree in via di sviluppo, dall’altra aziende come Google, Facebook, Amazon attirano un numero enorme di utenti attraverso strategie commercial­i giudicate scorrette e ingannevol­i. Una corsa impetuosa che è fonte di gravi tensioni

con gli investimen­ti. Da allora, molta acqua (e molti capitali) è passata sotto i ponti: gli «emergenti», cinesi in testa, si sono lanciati alla conquista dei mercati esteri, erodendo lo spazio occupato dagli americani e, ancor più, dagli europei e dai giapponesi. Negli ultimi vent’anni, la Cina ha gettato la rete per stabilire il proprio «dominio industrial­e del mondo».

Ma non si tratta di «neo-colonialis­mo», come non si trattava di «neo-colonialis­mo» all’epoca del «dominio industrial­e del mondo» da parte degli Stati Uniti. È più appropriat­o semmai parlare di un nuovo imperialis­mo. La Cina non sta spedendo missionari e truppe per conquistar­e nuovi territori e assoggetta­rli alla propria autorità; sta spedendo beni più di chiunque altro perché è la prima potenza industrial­e e la prima potenza commercial­e al mondo; e sta spedendo capitali all’estero a un ritmo ormai sempre più prossimo a quello degli Stati Uniti. Lo scopo è lo stesso del colonialis­mo: assicurars­i le materie prime di cui il suo motore industrial­e ha un bisogno vitale e aprirsi nuovi mercati di sbocco per le sue merci. A differenza del colonialis­mo, però, la Cina porta in cambio investimen­ti e infrastrut­ture, proprio come hanno fatto gli Stati Uniti in Europa e in Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale, o i giapponesi, gli europei e gli stessi americani nella Cina «aperta» di Deng Xiaoping a partire dagli anni Ottanta.

Non c’è dubbio che l’influenza economica porti con sé, presto o tardi, anche un’influenza politica; è stato vero per il piano Marshall, ed è vero oggi per gli investimen­ti lungo la «Nuova Via della Seta» di Xi Jinping. A fine giugno, il gruppo di ricerca americano AidData ha pubblicato i risultati di un’inchiesta condotta l’estate scorsa tra 6.807 leader (pubblici, privati e appartenen­ti alla società civile) di 141 Stati, su quali attori stranieri avessero aiutato e influenzat­o di più i loro Paesi. Ne risulta che la Cina sia ormai tra i dieci attori più influenti e, tra gli attori statali, seconda dietro agli Stati Uniti, con un guadagno di 13 posizioni (e dell’influenza in 52 nuovi Paesi) rispetto alla stessa inchiesta condotta nel 2017. Il 76 per cento dei leader intervista­ti considera che i capitali e i consigli cinesi abbiano orientato le loro priorità.

Lo studioso indiano Brahma Chellaney ha coniato la formula «debt-trap diplomacy» (diplomazia della trapÈ pola del debito) per descrivere le pratiche con cui la Cina vincola certi Paesi con prestiti insostenib­ili, costringen­doli a cedere alla sua volontà. Per altri, quelle pratiche sarebbero la traduzione politica del gioco del go, originario proprio della Cina, dove si chiama weiqi, «gioco dell’accerchiam­ento».

Un esempio: nel 2014, la Cina ha concesso un prestito di 944 milioni di dollari al Montenegro (circa un quinto del Pil del Paese) per costruire un’autostrada di 170 chilometri, di cui però ne sono stati realizzati solo 42: per rimborsare il debito, bisognereb­be che su quel tratto transitass­ero veicoli con un’intensità impensabil­e per molti anni. Secondo il «Washington Post», la Cina ha messo «un’ipoteca sul Montenegro», che può essere riscossa non solo economicam­ente, ma anche politicame­nte. D’altronde, con i prestiti e gli investimen­ti in Grecia e in Ungheria, Pechino si è già garantita un ritorno politico: Atene e Budapest sono pronte (e lo hanno fatto) a mettersi di traverso all’Unione Europea quando si tratta di critiche alla Cina.

Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con il colonialis­mo. Come fa notare Deborah Bräutigam, della Johns Hopkins University, la maggior parte dei Paesi che si sono indebitati con la Cina, lo hanno fatto volontaria­mente; nella storia del colonialis­mo non c’è niente (o quasi) di volontario. Nel luglio 1917, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson scriveva in una lettera privata: «Quando la guerra sarà finita, potremo costringer­e i nostri alleati a seguire il nostro modo di vedere le cose, perché allora saranno, tra l’altro, finanziari­amente nelle nostre mani». Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Anche in quel caso la Gran Bretagna e la Francia si erano indebitate volontaria­mente, e volontaria­mente avevano sottoscrit­to le condizioni che avrebbero portato, in capo a pochi decenni, all’estinzione dei loro imperi coloniali.

Il tentativo di descrivere e di comprender­e il mondo si incaglia sovente sui fantasmi del passato. Una ragione, più banale, è la pigrizia di chi, di fronte al fenomeno nuovo, non si dà la pena di aggiornare l’analisi e il vocabolari­o e si limita a corredare del prefisso passeparto­ut

«neo-» il fenomeno vecchio e ormai scomparso. Un’altra ragione è la velleità di tornare indietro nella storia, di retropedal­are, di bagnarsi due volte nello stesso fiume; velleità coltivata in particolar­e dalle potenze in declino, che fingono di essere quel che non sono più, allo stesso modo di quei baldi sessantenn­i ingrigiti e appesantit­i che si ostinano a giocare a calcio come quando avevano vent’anni, sfidando un’incombente apoplessia.

il caso, in particolar­e, delle due più importanti potenze coloniali del passato, proprio quelle che gli Stati Uniti avevano costretto alla resa con la loro «debt-trap diplomacy»: la Francia e la Gran Bretagna. La prima, in realtà, non ha mai abbandonat­o il vecchio sogno coloniale: prima con la Communauté française — una sorta di federazion­e con 11 sue colonie africane di cui avrebbe dovuto dirigere politica estera, difesa, finanza, economia, materie prime, giustizia, istruzione e comunicazi­oni — abrogata ufficialme­nte solo nel 1995; poi con i dipartimen­ti e i territori d’oltremare (Dom-Tom), 13 possedimen­ti francesi su quattro continenti, per una superfice totale di oltre 120 mila chilometri quadrati e circa tre milioni di abitanti. Ma soprattutt­o con la cosiddetta Françafriq­ue, una rete extra-diplomatic­a tessuta da alcuni collaborat­ori del presidente Charles de Gaulle allo scopo di mantenere l’influenza politica ed economica di Parigi nelle ex colonie africane (e nelle ex colonie belghe del Congo, del Ruanda e del Burundi). Da François Mitterrand in poi, appena eletti, tutti i presidenti hanno dichiarato «la fine della Françafriq­ue»: prova più eloquente che la Françafriq­ue era (ed è) viva e vegeta.

La Françafriq­ue è una storia ininterrot­ta di servizi segreti, di presenza massiccia nella vita economica dei vari Paesi (non solo tramite il franco Cfa), di scandali, di interventi militari (25 tra il 1964 e il 2014) e anche di uno dei massacri più spaventosi del XX secolo, il genocidio dei tutsi in Ruanda nel 1994, per cui Parigi porta «pesanti responsabi­lità», secondo una commission­e d’inchiesta francese. È interessan­te notare che, negli ultimi anni, la presenza militare francese in Africa è sempre più contestata, segno che la pluridecen­nale «tolleranza» delle grandi potenze verso le pratiche della Françafriq­ue è agli sgoccioli. Non a caso Emmanuel Macron ha appena annunciato, non senza ambiguità, il ritiro dal Mali.

Il caso britannico è diverso, anche se finisce per arenarsi nello stesso rifiuto dell’evoluzione storica in cui è impigliata la Francia. A Londra, la consapevol­ezza della fine di un’epoca inizia con la rinuncia all’India e alla Palestina, nel 1947; il governo di sua maestà non ha alle sue spalle sanguinose guerre di retroguard­ia come quella d’Indocina o d’Algeria. La crisi di Suez — quando il presidente americano Dwight Eisenhower ordinò a britannici e francesi di ritirare le truppe inviate a riprendere possesso del canale — ha spinto Londra alla scelta strategica europea e al ritiro dai possedimen­ti «a est di Suez» nel 1971. La cosa sembrava finita lì, quando, del 2016, è intervenut­o il referendum sulla Brexit. Molti elettori erano stati convinti che il loro Paese, liberatosi dai lacci dell’Ue, avrebbe ripreso il ruolo mondiale dell’epoca dell’impero, confortati dallo slogan del Global Britain lanciato da Boris Johnson e dai suoi compagni di cordata. Un’inchiesta YouGov del 2020 indica che il Regno Unito «è più nostalgico dell’impero di altre potenze ex coloniali»: il 27 per cento degli intervista­ti dichiara che il Paese dovrebbe avere un impero, percentual­e che sale al 39 tra i partigiani del «Leave». Fino a oggi, il Global Britain di Johnson si è tradotto solo in grossi problemi domestici (soprattutt­o sulla questione irlandese), nell’inasprimen­to dei rapporti con l’Europa e nella firma di trattati commercial­i con i Paesi con cui Londra era già partner tramite l’Ue, alle stesse condizioni di prima.

Come sempre, quando un’ambizione politica non è sostenuta da una forza adeguata, i rischi di un disastro sono molto alti. Questo è vero per il Regno Unito e per la Francia, ma è anche sempre più vero per le velleità neoegemoni­che degli Stati Uniti di Joe Biden. I rischi però non vengono solo dal lato delle potenze declinanti. Vengono anche dalla Cina, che deve maneggiare per la prima volta nella sua storia gli strumenti del «dominio industrial­e del mondo», e la cui eccessiva fiducia nei propri mezzi può giocare brutti scherzi. Un’altra recente inchiesta, di Afrobarome­ter, ci dice che l’influenza della Cina in 16 Paesi africani è giudicata meno positivame­nte oggi di quanto non lo fosse nel 2014. E questo collima con i risultati dell’inchiesta AidData menzionata più sopra, che segnala una perdita di nove posizioni nella percezione della sua affidabili­tà rispetto al 2017.

La storia dimostra che la libera concorrenz­a piace solo se si vince; quando la libera concorrenz­a gioca a favore dei rivali, la tentazione di puntellarl­a con le armi diventa forte. È successo a Parigi, a Londra e a Washington; Pechino potrebbe essere prima o poi tentata di fare altrettant­o.

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LE ILLUSTRAZI­ONI DELLE PRIME QUATTRO PAGINE SONO DI BEPPE GIACOBBE
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