Corriere della Sera - La Lettura
La Natura ha il diritto di avere diritti
La prima e, propriamente detta, «rivoluzione copernicana» mostrò che la Terra non era al centro del sistema solare, ma soltanto uno dei pianeti che ruotano attorno al Sole. Paradossalmente però, fu proprio l’epoca rinascimentale a cui Nicolò Copernico apparteneva a rafforzare la vecchia idea secondo cui l’essere umano è al centro e al vertice del sistema Terra, con la sua intelligenza, con la sua riflessione, con le capacità critiche, l’arte e il linguaggio. Di questi tempi, complici pandemia e cambiamento climatico, l’antropocentrismo vacilla e una nuova rivoluzione copernicana relega
Homo sapiens tra le molte specie viventi e non viventi, rifiutando il suo eccezionalismo. Siamo esseri potenti, che hanno prodotto i mezzi per distruggere il pianeta; siamo capaci di modificare i destini geologici della Terra, infatti si parla di Antropocene, ma questo non ci rende superiori agli altri abitanti del pianeta. Anzi, forse proprio questo dimostra la nostra incapacità di immaginare il futuro — una qualità che pensavamo solo umana. Il nuovo ambientalismo, l’epoca del
Koinocene (come abbiamo proposto di definirla su «la Lettura» #483 del 28 febbraio) nasce a partire dalla «frana» che ha travolto la rassicurante dicotomia tra Natura e Cultura. È difficile, ovvero impossibile, oggi sostenere l’idea secondo cui da un lato ci sarebbero gli umani con la loro capacità di agire, di decidere, di pensare e trasmettere conoscenze, con le loro società e forme di convivenza, e dall’altra, letteralmente, tutto il resto del mondo — piante, animali, minerali, acqua, aria — programmato per vivere d’istinti, di risposte già date, di comportamenti prevedibili e standardizzati. Noi dotati di ragione da una parte, i non umani immersi in leggi primordiali e istinti dall’altra. Eppure, come sa chiunque abbia coltivato un giardino, non si è mai vista una pianta di ciliegio uguale all’altra, neppure due foglie in effetti, né si ricordano due estati perfettamente sovrapponibili per temperature e piogge. È stata soprattutto la capacità della Terra, intesa come ecosistema complesso, di reagire alle attività umane a suscitare la convinzione che anche esseri che abbiamo considerato privi di capacità di azione siano capaci di vivere una vita relazionale.
Oggi la centralità e soprattutto la superiorità dell’umano è messa in discussione da molti punti di vista e proprio per questo la opposizione tra Natura e Cultura si incrina. Non si tratta di negare l’anima agli esseri umani, semmai di riconoscerla anche agli animali (nomen omen!) e persino alle piante e alle rocce. C’è nell’aria un rinnovato animismo, una sorta di revival della teoria della «partecipazione» di Lucien Lévy-Bruhl (La mentalità
primitiva, Einaudi, 1971). Con una differenza: se, secondo l’etnologo francese, la «partecipazione mistica» era una caratteristica dei primitivi, il nuovo animismo si colloca (anche) in piena contemporaneità. Non mancano certo derive New Age di persone che da un giorno all’altro si mettono a parlare con le pietre del giardino come se capissero il linguaggio umano, per non parlare di quella deep ecology caratterizzata da pericolose tensioni misantrope. E tuttavia non è più impensabi
le l’idea secondo cui animali e piante hanno delle intenzioni, esprimono progettualità, cooperano, creano tra loro e con altri legami di reciproca solidarietà e soprattutto dipendono gli uni dagli altri per la loro sopravvivenza. Alle millenarie teorie della indipendenza ed eccezionalità umane, che molti fanno risalire alla tradizione giudaico-cristiana, si contrappone oggi un fronte multidisciplinare, anzi chiaramente pronto ad abbattere le frontiere tra discipline, prima tra tutte quella tra scienze naturali e scienze dello spirito, che vedono nel riconoscimento dell’interdipendenza la chiave di volta scientifica, etica e politica dei tempi nuovissimi che viviamo. Lo sgretolamento delle vecchie certezze antropocentriche lascia spazio a frammenti e metamorfosi e qua e là si intravvede il formarsi di un nuovo paradigma che mette in continuità l’umano e l’oltre-che-umano (l’espressione che Marisol de la Cadena preferisce al contestato «non umani»).
Se alberi e fiumi, animali e minerali cessano di essere cose da dominare e sfruttare per divenire «soggetti», cioè componenti essenziali della relazione che rende possibile la vita sulla Terra, quali conseguenze giuridiche ne discendono? Quella che chiamavamo (erroneamente) Natura ha dei diritti paragonabili a quelli umani? È questa la domanda che anima un ampio volume, innovativo e pionieristico, curato da Flavia Cuturi, La Natura come soggetto di diritti (Editpress, 2021). Antropologi, etnolinguisti e giuristi dialogano per cercare di capire come cambia il loro terreno disciplinare ora che l’antropocentrismo è messo radicalmente in discussione.
Da un lato, gli studiosi e le studiose dell’anthropos fanno notare che non tutta l’umanità ha considerato gli oltre-cheumani alla stregua di cose da possedere e usare. Anzi. L’idea «estrattivista» di una Natura da sfruttare per una crescita e un progresso potenzialmente infinito è una particolarità legata alla storia dell’Occidente, che, attraverso i processi di colonizzazione del mondo, ha finito per estendersi a ogni latitudine. Travolgendo così i popoli, a lungo descritti come arretrati, che avevano viceversa elaborato visioni relazionali ed ecosistemiche del mondo umano e non umano. Oggi, argomenta Flavia Cuturi nel suo saggio, si registra una inedita convergenza tra il pensiero di società indigene o native che rialzano la testa, ponendo l’accento sull’interdipendenza tra uomini e foreste, tra società umane e animali, e il pensiero scientifico ecosistemico che ci mette in guardia contro i rischi del riscaldamento globale e della crescita senza limiti.
Come dare voce agli abitanti oltre-cheumani della Terra se essi non possono esprimersi con il linguaggio umano? Come possono fare valere i loro diritti? Alcune vie si colgono nei contributi dei giuristi che partecipano al volume. Nel mondo anglosassone per esempio si moltiplicano i casi di fiumi, laghi e montagne a cui è stata riconosciuto lo statuto di persone quasi-umane: dal lago Erie negli Stati Uniti al monte Taranaki e al fiume Whanganui in Aotearoa-Nuova Zelanda. Nel 2017 l’Alta Corte dell’Uttarakhand, in India, ha firmato un’ordinanza che decreta il Gange come «entità vivente».
In molti di questi casi, popoli indigeni che vivono da secoli e millenni in simbiosi con queste persone quasi-umane sono considerati alla stregua di porta-parola, titolari della facoltà di manifestare intenzioni e volontà degli «altri» terrestri. Per quanto innovativa, questa via giuridica alla tutela della biodiversità e dei diritti della Natura appare insufficiente e ancora troppo legata al vecchio modello della «protezione», che rischia di isolare solo alcuni aspetti del paesaggio, senza rendere giustizia al fatto che fiumi e laghi sono persone plurali e collettive, non «individuali».
Più promettente, secondo Fabrizio Fracchia, sarebbe passare da un’etica dei diritti degli oltre-che-umani a un’etica del dovere e della responsabilità. In questa prospettiva, il giurista potrebbe trovare molti strumenti di salvaguardia della Natura già negli ordinamenti presenti. Perché il diritto è inevitabilmente «antropocentrico», ma le cose cambiano radicalmente se, come sta avvenendo, molte caratteristiche dell’anthropos sono estese all’ambiente. Anche se la Costituzione italiana appare marginalmente votata alla tutela dei diritti della Natura, mentre quelle di Ecuador e Bolivia contemplano la tutela di Pacha Mama (la «Terra Madre»), ci si può chiedere se non si possa estendere l’articolo 2 della Costituzione italiana che recita: «La Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà» verso tutti gli abitanti del Pianeta.
È vero che le piante e i pesci non parlano, almeno non il nostro linguaggio. Tuttavia, neanche gli antenati e le generazioni a venire parlano il nostro linguaggio. Eppure, come avviene in molte società indigene, la cura e la responsabilità verso l’ambiente sono espressi proprio nei linguaggi simbolici degli antenati e delle persone a venire. Restringere i diritti ai viventi umani e ai loro «interessi» (il diritto soggettivo) appare davvero, ormai, una strada fortemente ristretta.
Querce, pioppi, pini, faggi, ulivi hanno spesso assunto un ruolo simbolico forte; però oggi si guarda non soltanto agli animali e alle piante , ma ai laghi , ai fiumi, in sostanza a tutto l’ambiente come titolare di diritti. È un punto di vista che supera le idee antropocentriche e afferma un nuovo concetto di interdipendenza del pianeta.
Già in Ecuador e in Bolivia norme costituzionali prevedono la tutela della Terra
Madre, forse potremmo pensarci anche in Italia