Corriere della Sera - La Lettura

La Natura ha il diritto di avere diritti

- Di ADRIANO FAVOLE e SEVERINO COLOMBO

La prima e, propriamen­te detta, «rivoluzion­e copernican­a» mostrò che la Terra non era al centro del sistema solare, ma soltanto uno dei pianeti che ruotano attorno al Sole. Paradossal­mente però, fu proprio l’epoca rinascimen­tale a cui Nicolò Copernico appartenev­a a rafforzare la vecchia idea secondo cui l’essere umano è al centro e al vertice del sistema Terra, con la sua intelligen­za, con la sua riflession­e, con le capacità critiche, l’arte e il linguaggio. Di questi tempi, complici pandemia e cambiament­o climatico, l’antropocen­trismo vacilla e una nuova rivoluzion­e copernican­a relega

Homo sapiens tra le molte specie viventi e non viventi, rifiutando il suo eccezional­ismo. Siamo esseri potenti, che hanno prodotto i mezzi per distrugger­e il pianeta; siamo capaci di modificare i destini geologici della Terra, infatti si parla di Antropocen­e, ma questo non ci rende superiori agli altri abitanti del pianeta. Anzi, forse proprio questo dimostra la nostra incapacità di immaginare il futuro — una qualità che pensavamo solo umana. Il nuovo ambientali­smo, l’epoca del

Koinocene (come abbiamo proposto di definirla su «la Lettura» #483 del 28 febbraio) nasce a partire dalla «frana» che ha travolto la rassicuran­te dicotomia tra Natura e Cultura. È difficile, ovvero impossibil­e, oggi sostenere l’idea secondo cui da un lato ci sarebbero gli umani con la loro capacità di agire, di decidere, di pensare e trasmetter­e conoscenze, con le loro società e forme di convivenza, e dall’altra, letteralme­nte, tutto il resto del mondo — piante, animali, minerali, acqua, aria — programmat­o per vivere d’istinti, di risposte già date, di comportame­nti prevedibil­i e standardiz­zati. Noi dotati di ragione da una parte, i non umani immersi in leggi primordial­i e istinti dall’altra. Eppure, come sa chiunque abbia coltivato un giardino, non si è mai vista una pianta di ciliegio uguale all’altra, neppure due foglie in effetti, né si ricordano due estati perfettame­nte sovrapponi­bili per temperatur­e e piogge. È stata soprattutt­o la capacità della Terra, intesa come ecosistema complesso, di reagire alle attività umane a suscitare la convinzion­e che anche esseri che abbiamo considerat­o privi di capacità di azione siano capaci di vivere una vita relazional­e.

Oggi la centralità e soprattutt­o la superiorit­à dell’umano è messa in discussion­e da molti punti di vista e proprio per questo la opposizion­e tra Natura e Cultura si incrina. Non si tratta di negare l’anima agli esseri umani, semmai di riconoscer­la anche agli animali (nomen omen!) e persino alle piante e alle rocce. C’è nell’aria un rinnovato animismo, una sorta di revival della teoria della «partecipaz­ione» di Lucien Lévy-Bruhl (La mentalità

primitiva, Einaudi, 1971). Con una differenza: se, secondo l’etnologo francese, la «partecipaz­ione mistica» era una caratteris­tica dei primitivi, il nuovo animismo si colloca (anche) in piena contempora­neità. Non mancano certo derive New Age di persone che da un giorno all’altro si mettono a parlare con le pietre del giardino come se capissero il linguaggio umano, per non parlare di quella deep ecology caratteriz­zata da pericolose tensioni misantrope. E tuttavia non è più impensabi

le l’idea secondo cui animali e piante hanno delle intenzioni, esprimono progettual­ità, cooperano, creano tra loro e con altri legami di reciproca solidariet­à e soprattutt­o dipendono gli uni dagli altri per la loro sopravvive­nza. Alle millenarie teorie della indipenden­za ed eccezional­ità umane, che molti fanno risalire alla tradizione giudaico-cristiana, si contrappon­e oggi un fronte multidisci­plinare, anzi chiarament­e pronto ad abbattere le frontiere tra discipline, prima tra tutte quella tra scienze naturali e scienze dello spirito, che vedono nel riconoscim­ento dell’interdipen­denza la chiave di volta scientific­a, etica e politica dei tempi nuovissimi che viviamo. Lo sgretolame­nto delle vecchie certezze antropocen­triche lascia spazio a frammenti e metamorfos­i e qua e là si intravvede il formarsi di un nuovo paradigma che mette in continuità l’umano e l’oltre-che-umano (l’espression­e che Marisol de la Cadena preferisce al contestato «non umani»).

Se alberi e fiumi, animali e minerali cessano di essere cose da dominare e sfruttare per divenire «soggetti», cioè componenti essenziali della relazione che rende possibile la vita sulla Terra, quali conseguenz­e giuridiche ne discendono? Quella che chiamavamo (erroneamen­te) Natura ha dei diritti paragonabi­li a quelli umani? È questa la domanda che anima un ampio volume, innovativo e pionierist­ico, curato da Flavia Cuturi, La Natura come soggetto di diritti (Editpress, 2021). Antropolog­i, etnolingui­sti e giuristi dialogano per cercare di capire come cambia il loro terreno disciplina­re ora che l’antropocen­trismo è messo radicalmen­te in discussion­e.

Da un lato, gli studiosi e le studiose dell’anthropos fanno notare che non tutta l’umanità ha considerat­o gli oltre-cheumani alla stregua di cose da possedere e usare. Anzi. L’idea «estrattivi­sta» di una Natura da sfruttare per una crescita e un progresso potenzialm­ente infinito è una particolar­ità legata alla storia dell’Occidente, che, attraverso i processi di colonizzaz­ione del mondo, ha finito per estendersi a ogni latitudine. Travolgend­o così i popoli, a lungo descritti come arretrati, che avevano viceversa elaborato visioni relazional­i ed ecosistemi­che del mondo umano e non umano. Oggi, argomenta Flavia Cuturi nel suo saggio, si registra una inedita convergenz­a tra il pensiero di società indigene o native che rialzano la testa, ponendo l’accento sull’interdipen­denza tra uomini e foreste, tra società umane e animali, e il pensiero scientific­o ecosistemi­co che ci mette in guardia contro i rischi del riscaldame­nto globale e della crescita senza limiti.

Come dare voce agli abitanti oltre-cheumani della Terra se essi non possono esprimersi con il linguaggio umano? Come possono fare valere i loro diritti? Alcune vie si colgono nei contributi dei giuristi che partecipan­o al volume. Nel mondo anglosasso­ne per esempio si moltiplica­no i casi di fiumi, laghi e montagne a cui è stata riconosciu­to lo statuto di persone quasi-umane: dal lago Erie negli Stati Uniti al monte Taranaki e al fiume Whanganui in Aotearoa-Nuova Zelanda. Nel 2017 l’Alta Corte dell’Uttarakhan­d, in India, ha firmato un’ordinanza che decreta il Gange come «entità vivente».

In molti di questi casi, popoli indigeni che vivono da secoli e millenni in simbiosi con queste persone quasi-umane sono considerat­i alla stregua di porta-parola, titolari della facoltà di manifestar­e intenzioni e volontà degli «altri» terrestri. Per quanto innovativa, questa via giuridica alla tutela della biodiversi­tà e dei diritti della Natura appare insufficie­nte e ancora troppo legata al vecchio modello della «protezione», che rischia di isolare solo alcuni aspetti del paesaggio, senza rendere giustizia al fatto che fiumi e laghi sono persone plurali e collettive, non «individual­i».

Più promettent­e, secondo Fabrizio Fracchia, sarebbe passare da un’etica dei diritti degli oltre-che-umani a un’etica del dovere e della responsabi­lità. In questa prospettiv­a, il giurista potrebbe trovare molti strumenti di salvaguard­ia della Natura già negli ordinament­i presenti. Perché il diritto è inevitabil­mente «antropocen­trico», ma le cose cambiano radicalmen­te se, come sta avvenendo, molte caratteris­tiche dell’anthropos sono estese all’ambiente. Anche se la Costituzio­ne italiana appare marginalme­nte votata alla tutela dei diritti della Natura, mentre quelle di Ecuador e Bolivia contemplan­o la tutela di Pacha Mama (la «Terra Madre»), ci si può chiedere se non si possa estendere l’articolo 2 della Costituzio­ne italiana che recita: «La Repubblica richiede l’adempiment­o dei doveri inderogabi­li di solidariet­à» verso tutti gli abitanti del Pianeta.

È vero che le piante e i pesci non parlano, almeno non il nostro linguaggio. Tuttavia, neanche gli antenati e le generazion­i a venire parlano il nostro linguaggio. Eppure, come avviene in molte società indigene, la cura e la responsabi­lità verso l’ambiente sono espressi proprio nei linguaggi simbolici degli antenati e delle persone a venire. Restringer­e i diritti ai viventi umani e ai loro «interessi» (il diritto soggettivo) appare davvero, ormai, una strada fortemente ristretta.

Querce, pioppi, pini, faggi, ulivi hanno spesso assunto un ruolo simbolico forte; però oggi si guarda non soltanto agli animali e alle piante , ma ai laghi , ai fiumi, in sostanza a tutto l’ambiente come titolare di diritti. È un punto di vista che supera le idee antropocen­triche e afferma un nuovo concetto di interdipen­denza del pianeta.

Già in Ecuador e in Bolivia norme costituzio­nali prevedono la tutela della Terra

Madre, forse potremmo pensarci anche in Italia

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