Corriere della Sera - La Lettura

La lezione di Moser che va oltre il ciclismo...

- Di STEFANO BUCCI

«La Lettura» ha visitato con il grande campione «Vite di corsa», mostra ospitata al Castello di Caldes e dedicata ai fotografi della Magnum che hanno seguito il ciclismo. Le maglie vinte e perse, l’amicizia con Hinault, il caso Armstrong; e poi le levatacce, l’alimentazi­one, il Tourmalet... Con un consiglio che va al di là delle gare...

Achi potrebbe assomiglia­re Francesco Moser? Al ciclista di Umberto Boccioni (Dinamismo di un ciclista, 1913), a quello di Fortunato Depero (Il ciclista attraversa la città, 1945) o a quello di Mario Sironi (Il ciclista, 1916)? A nessuno di loro in particolar­e anche se una certa asprezza (soltanto apparente) nei modi e quel suo continuo muoversi, che fa impazzire il fotografo, potrebbe renderlo particolar­mente vicino all’animo dei futuristi. Per lui, uomo di poche parole, parlano i suoi titoli: un record dell’ora (51,151 chilometri) a Città del Messico (1984); un Giro d’Italia (1984); tre vittorie consecutiv­e alla Parigi-Roubaix (1978, 1979, 1980); il Campionato mondiale su strada a San Cristóbal, Venezuela (1977); il campionato mondiale su pista a Monteroni di Lecce (1976); una Milano-Sanremo (1984); due Giri di Lombardia (1975, 1978); un Superprest­ige (1978); 57 giorni in maglia rosa; 279 vittore in carriera.

Quello di Francesco Moser (settant’anni appena compiuti, nato a Palù di Giovo, Trento, il 19 giugno 1951) è il ciclismo eroico del grande campione. Il ciclismo, proprio come cantava Paolo Conte nella sua Bartali, non è fatto però solo di corridori-cavalieri invincibil­i come Moser, ma anche delle «vite in corsa» dei piccoli gregari e di un pubblico appassiona­to che ai bordi delle strade e al traguardo segue e sostiene i corridori (e non soltanto i grandi campioni), arrivando a immedesima­rsi quasi fisicament­e con loro. Non a caso, allora, Vite di corsa è il titolo della mostra curata da Marco Minuz, aperta fino al 26 settembre, al Castello di Caldes, Trento. Un progetto che vuole indagare, attraverso lo sguardo dei fotografi di Magnum (La bicicletta e i fotografi di Magnum. Da Robert Capa ad Alex Majoli, recita il sottotitol­o della mostra), la dimensione umana di uno tra gli sport più seguiti e amati dal grande pubblico. Un’ottantina di immagini, molte mai esposte prima, che Minuz ha scelto proprio «per la loro capacità di esplorare la dimensione del ciclismo».

Ma questo ciclismo epico, però anche umano e popolare, è lo stesso di un supercampi­one? Sembrerebb­e proprio di sì, almeno per Moser che ha visitato la mostra di Cles con «la Lettura», ritrovando in ogni scatto un frammento della sua memoria. Così, davanti ai bambini fotografat­i da Robert Capa, incaricato dalla rivista «Match» di fotografar­e il Tour de France del 1939, torna anche lui piccolo: «Una volta, quando passava il Giro, i maestri portavano le scolaresch­e sulla strada, ci sono andato anch’io da piccolo, insieme a mio fratello, poi ci facevano fare anche i temi». Sempre Capa (con il suo taglio dinamico assolutame­nte innovativo) lo riporta all’universo delle gare, motociclet­te e fotografi compresi: «Ai nostri tempi avevano dovuto limitarli perché ce n’erano davvero troppi, con i fotografi è successo di tutto e di più, c’era chi si metteva nella scia della moto per andare più veloce, c’erano i corridori che si mettevano d’accordo con i fotografi per farsi fare una bella foto, magari sul pavé della Parigi-Roubaix».

Un’altra serie raccoglie foto realizzate da Guy Le Querrec nel Tour de France del 1954: all’epoca il fotografo aveva 13 anni e si trovava in Bretagna per trascorrer­e le vacanze estive. Da lì, quell’anno, passava il Tour. Circa trent’anni dopo, nel 1985, lo stesso fotografo è stato invitato a seguire la squadra ciclistica della Renault-Elf du

rante gli allenament­i invernali. In questa stagione scattò fotografie a Laurent Fignon: «La Renault aveva già Bernard Hinault, che era il capitano. Fignon — ricorda Moser— si può dire che era solo un gregario; lo chiamavamo “il professore” perché era un tipo molto particolar­e, che non dava troppa confidenza, con lui non abbiamo mai avuto un rapporto come con Hinault e Thevenet, con cui siamo rimasti amici» (proprio Hinault ha firmato la prefazione del libro Francesco Moser. Come un ragazzino del Trentino è andato

alla conquista del mondo, pubblicato da Azzurra Publishing con i testi di Beppe Conti e le fotografie di Remo Mosna).

Poi, a proposito del contestato Lance Armstrong (sue sono le gambe sul manifesto fotografat­e da Christophe­r Anderson nel 2004), Moser dice: «Era un corridore forte, la sua storia di doping non è mai stata chiarita del tutto, ha sbagliato quando ha deciso di ritornare a correre».

Ogni immagine (sia che si tratti di Mark Power, Harry Gruyaert, Richard Kalvar, René Burri, Stuart Franklin, Raymond Depardon, Peter Marlow) è per Moser un frammento di memoria. Quella del fotografo italiano Alex Majoli è l’unica di Moser presente nella mostra: uno scatto dedicato al celebre produttore di bici milanese Alberto Masi con la sede del suo laboratori­o sotto le curve del Velodromo Vigorelli: «Qui ho la maglia da campione del mondo, ma non sono io, è un mio poster dentro il laboratori­o Masi — spiega —-. Che cosa provo? Riconosco quella maglia, mi fa pensare a tutto quello che ho fatto».

Al primo piano del castello è stato allestito un piccolo percorso espositivo con gigantogra­fie di foto realizzate da Remo Mosna (che in pratica ha seguito tutta la carriera di Moser): 9 fotografie di grande formato che raccontano i passi fondamenta­li dell’esperienza profession­istica del campioniss­imo.

Ogni immagine è come il frammento di una «vita di corsa». Il Tourmalet: «Salita durissima che non molla mai; l’ho fatto con la nebbia che non si vedeva neanche dove andavi, tanto che ho detto agli altri corridori: “Cerchiamo di andare piano perché qui non ci sono parapetti e se finiamo fuori nessuno se ne accorge”». La dieta: «Ci alzavamo alle 6, due ore prima della partenza, per mangiare, una corsa durava sei-sette ore e se non mangiavi non arrivavi in fondo. Che cosa mangiavamo? Panini piccoli che preparavan­o i massaggiat­ori con dentro prosciutto crudo e stracchino oppure torta di mele, torta di riso, tutti i pezzetti incartati nella carta stagnola o in quella oleata, le borracce e tante zollette di zucchero. D’altra parte la prima dote di un corridore è un buon stomaco»

E ancora, le forature: «Se buchi in un momento di corsa tranquilla, se hai la macchina vicina, cambi la ruota e in un attimo rientri; ma nel momento in cui c’è la bagarre, nessuno ti aspetta, soprattutt­o nel finale; insomma, se buchi sei davvero fuori. Io sono sempre stato uno che ha bucato poco: l’importante è guardare dove metti le ruote; oltretutto ai nostri tempi, solo i capitani avevano le gomme buone». Peggio il freddo o il caldo? «Sicurament­e meglio il caldo, perché il freddo, quando sei in discesa e magari è tutto il giorno che piove, come è successo a me quando ho vinto il Lombardia e la ParigiRoub­aix, e tu sei in bicicletta ormai da sei ore, tutto si complica, l’aria ti si raffredda addosso, ti porta via il calore, ti fa venire il gelo dentro le ossa».

Gran parte delle fotografie in mostra sono in bianco e nero, secondo il più classico stile Magnum, ma la maglia che Francesco Moser ama di più è quella rosa: «Di maglie gialle ce ne sono tante, c’è quella del Tour e c’è quella della Vuelta spagnola, mentre di maglia rosa c’è soltanto quella del Giro d’Italia». Una parola ancora sul Tour de France: «Si corre d’estate, è molto più caldo, in un momento della stagione in cui i corridori sono più stanchi, perché hanno già corso tanto, è più facile che vengano fuori le crisi, ma tutti la vorrebbero vincere. Al Tour tutti vogliono stare sempre davanti, ma poi finiscono per cascare, perché in Bretagna le strade sono strette e 180 corridori sono davvero troppi; ai tempi di Coppi e Bartali correvano al massimo in 100120, non di più... troppi corridori fanno crescere il pericolo di cadere».

La mostra di Caldes apre la strada ai Campionati del Mondo di Mountain Bike (Daolasa di Commezzadu­ra, in Val di Sole, 25-29 agosto) e al campionato europeo di ciclismo su strada (Trento, 8-12 settembre). Dove, Covid permettend­o, sarà ancora il pubblico a fare da protagonis­ta: «Oggi sta addosso al corridore soltanto per farsi fotografar­e, per farsi un

selfie e non perché gli vuole bene. È fondamenta­le, ma deve stare al suo posto perché rischia di deconcentr­arti».

Ormai Moser corre solo per piacere. E fa il vino. Un modo per mischiare ancora sudore, fango, tenacia nell’ennesima impresa (come i ciclisti fotografat­i dalla Magnum). «Ma correre è un’altra cosa: se uno va forte è più facile avere soddisfazi­oni, con il vino è diverso. Sono stato campione del mondo, ho vinto tanto; con il vino non è ancora così».

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