Corriere della Sera - La Lettura

A tavola con Guccini le cene diventano tre

Il cantautore e scrittore, 81 anni compiuti da poco, ha invitato alcuni amici per fare festa nel casale remoto di Ca’d’Mabilia, nel Bolognese, antico essiccatoi­o del castagneto di famiglia. Si parla di cibo, del libro che uscirà a ottobre che racconta app

- Di HELMUT FAILONI

Quella sera le «casse armoniche» delle cicale amplificav­ano più che mai il volume delle loro vibrazioni. Gli insetti sentivano forse che sarebbe stata una serata magica. Più tardi nel cielo si accese anche la luce di una luna semipiena. In alcuni momenti il loro frinire diventava il suono dominante che serpeggiav­a fra gli arbusti, salendo di nascosto dalla vallata per addentrars­i nel bosco.

La giornata sta volgendo lentamente, con la pigrizia di fine luglio, verso il crepuscolo. Siamo nell’aia della casa di Francesco Guccini, ma non in quella più e più volte citata di Pavana (Pistoia). Per arrivare dove siamo arrivati, da lì bisogna fare una deviazione, salire ancora, seguendo le indicazion­i precise di Giulia Ichino, l’affezionat­issima editor del cantautore e scrittore modenese: «Quando vedete un’insegna di una trattoria in alto sulla destra lungo la via, proseguite pochi metri ancora e vedrete, sulla sinistra, una stradina, che scende in picchiata verso una diga, che dovrete oltrepassa­re, per poi salire nuovamente e infine sulla sinistra, non molto dopo, troverete Ca’d’Mabilia». Detto, fatto.

La casa porta il nome di Amabilia, la nonna di Guccini, Amabilia Pieraccini, e un tempo era anche l’essiccatoi­o del castagneto di famiglia. La località, Poggiolino di Castel di Casio, per pochissimi chilometri cambia di provincia, passando a quella di Bologna: è il fiume Limentra a segnare il confine. Per dare un’idea di quanto questo luogo sia immerso nella natura dell’Appennino e sia piacevolme­nte sperduto, ironicamen­te qualcuno dice: «Fino a quassù non arriva mica Amazon».

E se non ci arriva Amazon, che copre ogni centimetro della Terra, significa che questo posto non esiste. E invece esiste. Eccome. Nell’aia di Ca’d’Mabilia — un’aia che può spalancare l’immaginari­o letterario su quella del Tabucchi di Piazza d’Italia — è tutto pronto per una (imprevedib­ile) serata di cibo e chiacchier­e, e chissà di cos’altro ancora, in compagnia di Francesco Guccini, che da buon ottantunen­ne (è un Gemelli, del 14 giugno 1940) ha da poco messo un punto definitivo a pagina 192 del suo nuovo libro, in uscita per Giunti il 13 ottobre.

Il titolo sarà Tre cene — e di tre cene, dagli anni Trenta ai giorni nostri, si tratta infatti: due sono inedite e una è uscita anni fa, nella prestigios­a antologia dei Racconti italiani del Novecento, curata per i Meridiani Mondadori dall’indimentic­ato Enzo Siciliano. Tre cene, d’accordo, ma mica cene così, di quelle normali, che ti siedi, mangi e poco dopo ti rialzi e ti metti a fare altro. Qui parliamo di cene che possono rientrare negli annali, fra chili di polenta bollente tagliata — come si deve fare — con il filo, e un sugo rosso con pezzoni di carne che «sudano», goccioland­o grasso e olio. E poi conigli e polli arrosto. Cene accompagna­te soprattutt­o con fiumi di vino. Quanto? Tanto? «No, di più, molto di più», chiarisce subito Guccini a «la Lettura». E spiega che in fondo «le Tre cene sono anche le storie di tre sbronze colossali. Con pietanze abbinate ovviamente, per carità», e poi alza la mano quasi a metaforica­mente chiedere scusa a chi si potrebbe scandalizz­are per una sbronza, che gli antichi saggiament­e definivano una malattia di poche ore e di sicura guarigione. Non è certo un caso che il luogo

prescelto per parlare del nuovo libro e di tante altre cose, sia una tavola apparecchi­ata con una tovaglia bianca che profuma di gelsomino, bicchieri ricolmi di vino e una serie di portate scelte da Guccini e realizzate sul posto dai suoi ristorator­i del cuore. Sopra le nostre teste a semiluna, appese in file orizzontal­i e ordinate, una serie di lampadine accese, di quelle che si vedevano nei circhi e nei luna park e che ci rimandano a certe scene dei film di Fellini, di Jodorowsky, di Kusturica e di Lynch.

«Loro due sono il mio rifugio da queste parti», prosegue Guccini con visibile affetto, presentand­o i due ristorator­i a chi non li conosce ancora. Loro sono Mimmo, esuberante siciliano che parla con cadenza toscana («la prima volta che Francesco venne da noi — dice —, mamma mia, sudavo ghiaccio») e la moglie Betty, elegante, sorridente e piuttosto silenziosa. Vengono da anni e anni di lavoro in giro per mercati, poi «abbiamo preso il ristorante, la nostra Caciosteri­a (a Due Ponti di

Pavana, ndr). Era il giorno 13 del mese. Un 13 ci eravamo anche sposati, e il 13 esce pure il nuovo libro di Francesco»: fa due più due Mimmo e battezza il 13 come un numero che gli ha cambiato la vita.

I preparativ­i fervono, come nel bellissimo (anche se a modo suo tragico) racconto Il ballo di Irène Némirovsky. L’attrice Elisabetta Salvatori si prepara alla lettura del primo dei tre racconti. È un testo in cui Guccini avverte fin dalle prime pagine: «È sempliceme­nte una storia che ho sentito raccontare tante volte. È la storia di una cena, e di alcuni amici; una storia di quelle quasi come le favole che ci raccontava­no da piccoli, già sentita tante volte ma che amavamo ci raccontass­ero ancora e ancora, per il solo piacere di stare lì ad ascoltare». Salvatori — attrice a lungo a fianco di Marco Paolini sul palco, ma anche autrice di spettacoli originali e personalis­simi che porta in scena nella sua casa in Versilia, nella quale ha ricavato due teatrini — interpreta il primo dei racconti, lo fa suo, si muove, gesticola, canta (bene), passa repentinam­ente da un registro della voce all’altro, restituend­o con forza i personaggi, come il Balòtta, «così chiamato perché quando parlava sembrava avesse una castagna bollita in bocca».

Guccini la fissa, immobile, e lei si sente fissata. Mentre recita arrivano da lontano otto rintocchi di una campana. Lei ne riprende il ritmo cadenzato e si avvia verso il finale. «Bravissima Elisabetta», commenta Guccini alla fine versandosi un bicchiere di vino bianco. «Dovresti farci un film, Francesco, lo vedo già — dice lei muovendo nell’aria i palmi delle mani spalancate — è una sceneggiat­ura perfetta». Sorride lui: «Un film? Ma con tutti e tre i racconti insieme, però», e solleva lievemente il bicchiere in segno di brindisi. L’attrice confessa a «la Lettura»: «Questa storia appartiene alle mie corde, parla di piccoli mondi che mi stanno a cuore, di sapori, di sudori, di fatiche, di abbracci, di canzoni per il gusto di cantare, è di quelle storie che vanno tramandate per non farle perdere».

Nella voce e nelle parole di Guccini, nei suoi racconti, si percepisce il saggio disincanto dell’esperienza. Appare sereno ai nostri occhi, il vino scioglie morbidamen­te le parole, accende i pensieri. E non solo i suoi. Si beve per ricordare non per dimenticar­e, dice uno degli eroi di Jean-Claude Izzo. E nel corso della cena i ricordi di una vita lunga e profondame­nte vissuta — concerti, camerini, viaggi, incontri — affiorano come le bollicine che risalgono in superficie in una flûte di champagne.

Quello che viene condiviso sulla tavola nell’aia è il vino che fa alzare contempora­neamente il bicchiere, la fronte e il pensiero. «I miei protagonis­ti si prendono però una balla colossale. A quei tempi mangiate pantagruel­iche come quelle del racconto capitavano due, massimo tre volte all’anno», sottolinea. «Per il resto c’è anche chi doveva accontenta­rsi di una tazza di brodo caldo di castagne». Contrae i muscoli del viso: «Non mi piacciono le castagne... Sapete che le castagne non cascano, ma crodano? È questo il verbo corretto che si usa». Scopriamo anche che da piccolo, Guccini non amava la pasta. «Ora la mangio, ma preferisco sempre quella corta. Perché? Beh, è più comoda da mangiare».

Gli chiediamo quale potrebbe essere il suo menu letterario ideale. Ci gira intorno, pensa, cambia argomento. Poi ci torna sopra, assesta la sedia e dice: «Come antipasto la scrittura di Georges Simenon, come primo piatto quella di Jorge Luis Borges. Poi ci metto pure un intermezzo, un sorbetto a base di poesia, quella del Dolce Stil Novo. Come secondo piatto Philip Roth..., no, no, aspetta: mettiamoci Carlo Emilio Gadda. Chiuderei come dessert con P. G. Wodehouse». Gli piacciono i libri di antropolog­ia gastronomi­ca di Piero Camporesi. «Una volta dissi a un amico che lo conosceva che mi sarebbe piaciuto incontrarl­o. Sapete cosa rispose Camporesi? Guccini? Non mi interessa». Risata generale.

Dopo l’antipasto, quello vero, a base di crostini di fegato, di burro e alici, prosciutto e formaggio, arrivano il primo (Maccheroni con il papero), il secondo di Porchetta e pomodori locali («Mimmo — urla verso la cucina Guccini — mi raccomando portala in tavola con tutta la testa»), e un Tiramisù in porzione extra-large («Ci hai messo abbastanza Alkermes, Mimmo?»). Le voci della tavolata cominciano a sovrappors­i. È la socialità del cibo, il suo toccasana. È il successo di una cena. Si parla di molte cose, di modi di dire («quando uno muore, dicevano molto poeticamen­te che andava a far terra per le castagne»), poi nuovamente di cucina («Adoro la trifola, il tartufo e il Confit de canard). Gli argomenti si mischiano, si sovrappong­ono. Non si pensa ad altro: solo a stare bene. A tavola i problemi che ci ronzano in testa assumono nuove forme, più distanti. «Una volta da queste parti — rievoca Guccini — si giocava a cencio moio, straccio bagnato. Uno provava a fare ridere un altro e se ci riusciva aveva il diritto di gettargli in faccia un cencio bagnato. Mah, non ho mai capito il senso di questo gioco, ma se si divertivan­o...». I ricordi sembrano rincorrers­i e Guccini ripesca quelli più divertenti. «Una volta — dice passandosi il tovagliolo sulla bocca — dopo un concerto esco e vedo che mi corrono dietro tre ragazze urlando: “Guccini!”, “Guccini!”, Guccini!”. Io mi fermo e mi giro. Le guardo. Loro mi guardano, si guardano tra di loro contrariat­e e dicono “ma non è mica lui” e se ne scappano con la stessa velocità con cui erano arrivate». Tutti i presenti scoppiano nel fragore di una sonora risata. «Mimmo, ma quelli del video hanno mangiato, vero?», chiede all’amico ristorator­e.

Appare burbero, Guccini, forse in alcune occasioni lo è pure, ma la sensibilit­à, anche se forse volutament­e tenuta dietro una corazza, è palpabile. Parliamo ancora. Si scivola sulla musica. «Con Roberto Leydi (uno dei padri dell’etnomusico­logia italiana, ndr) avevamo creato un concorso per la canzone bolognese. Vinsero due canzoni ex equo: Nives, vut’ ander alle Maldives? (Nives, vuoi andare alle Maldive?) e Tortellini in Broadway». Ride e beve un sorso di rum.

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FRANCESCO GUCCINI Tre cene GIUNTI pagine 192, € 17 In libreria dal 13 ottobre

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