Corriere della Sera - La Lettura
Ultimo orrore: la fabbrica di bambini
L’antropologo Francesco Staffa ha scritto un romanzo su una storia di disperazione africana e di arroganza europea. «Mi interessava mettere in scena il continuo sfruttamento del continente, il furto del futuro»
a tutti i costi tradisce il senso di superiorità degli occidentali — dice Staffa —. Ci sentiamo superiori, a volte anche senza accorgercene. La storia, i trascorsi da conquistatori, ci hanno portato a percepirci così. Prima dicevamo di voler esportare la civiltà, ora, come fa Ada nel romanzo, ci raccontiamo che salviamo vite, ma è un retaggio predatorio del colonialismo».
Un approccio diverso è quello di Fabiënne, incuriosita dal diverso e alla ricerca di emozioni sempre più forti, ma il suo sguardo sull’Africa è chiuso nel recinto dell’esotismo. Amma, la migrante tradita dalla famiglia di espatriati europei per cui lavorava, è il corpo violato dell’Africa.
«Ancora oggi continuiamo a considerare i territori africani come appendici dell’Europa, appendici necessarie allo sfruttamento economico, culturale e strategico-militare, come dimostra anche la scelta di esternalizzare la difesa dei nostri confini. La scelta di chiudere le frontiere e di delegare ad altri Paesi la protezione dei propri confini è una novità storica, un’anomalia». Il tentativo di bloccare la mobilità degli africani a casa loro avviene tra l’altro proprio mentre l’Africa sta lavorando alla creazione di uno spazio di libera circolazione nel continente preceduto — come è avvenuto in Europa con la Cee — da un accordo di libero scambio, entrato da pochi mesi in vigore.
«Questo porterebbe a rapporti di potere differenti, a ridurre l’asimmetria delle relazioni tra le due sponde del Mediterraneo»: quel mare le cui acque si tramutano — scrive Staffa — in «tomba liquida» per alcuni, e «in una sacca amniotica», luogo di rinascita, per altri. «Alcuni, troppi, soccombono, ma non va dimenticato che ci sono altri che migliorano la propria vita. Il fenomeno va considerato per quello che è, partendo dal presupposto che la traversata in mare è negativa, ma è una conseguenza delle frontiere chiuse». Del resto il pane dei trafficanti sono i confini sigillati e i visti negati.
«Volevo narrare vicende simili a quelle che oggi vivono molte persone che decidono di abbandonare la propria terra o sono costrette a farlo. Ma volevo evitare un linguaggio retorico o pietistico. Mi sono affidato al mio bagaglio culturale, al mezzo narrativo usato in etnografia: la descrizione».
Nel romanzo compaiono diversi tipi di migrazioni: quella volontaria di Amma e Adibisi dal Ghana alla Nigeria del boom; quella forzata, imposta con un editto dopo la crisi, con milioni di migranti cacciati e additati come causa di tutti i guai. «Mi interessava rievocare quel momento storico di quarant’anni fa perché anche oggi il “clandestino” viene dipinto così. Il fatto che in una terra lontana e in un tempo passato le dinamiche siano state simili a quelle in azione da noi oggi mi ha permesso di creare una distanza utile per affrontare certi temi, fuori dall’emotività che il fenomeno migratorio suscita oggi. Ho ritenuto che parlare di vicende simili, avvenute altrove e nel passato, potesse aiutare a riflettere su di noi con più serenità. Un noi segnato da un bagaglio storico pesante. Ma anche un noi svelato intimamente, che allarga i propri confini, che include l’umanità intera, nel tentativo di superare categorie storiche e culturali, come quella di “clandestino”». Categorie che ci fanno dimenticare di appartenere tutti a un’unica specie.
A ricordarcelo aiuta anche il fatto che «troviamo un’akuaba per propiziare la fertilità in ogni cultura».