Corriere della Sera - La Lettura

Efficienza e cultura Il mito asburgico non è solo un mito

Parla lo storico Pieter Judson: l’Austria-Ungheria non era molto diversa da altri Paesi come varietà linguistic­a, ma concesse più diritti alle minoranze. Gli Stati che presero il suo posto sposarono un nazionalis­mo autoritari­o con effetti deleteri

- Di GIOVANNI BERNARDINI

Alcuni libri sono destinati ad affermarsi come classici sin dalla loro pubblicazi­one, per merito della completezz­a e della fondata innovativi­tà delle tesi. Questo sembra il destino del volume che Pieter Judson, professore di Storia moderna allo European University Institute di Fiesole (Firenze), ha dedicato alla lunga parabola storica dell’Impero asburgico. Pubblicato nel 2016, è ora disponibil­e in italiano grazie all’editore Keller.

Lei sostiene che l’Impero asburgico non era tanto diverso da altri Paesi europei dell’epoca. Eppure, ci sono volute ben tre righe del libro per elencare tutte le lingue parlate nell’Impero e quasi altrettant­e per le religioni professate. Non era una varietà eccezional­e?

«Qualunque Stato europeo sperimenta­va una notevole pluralità linguistic­a nel XIX secolo. Quindi la questione non è se la popolazion­e di uno Stato fosse varia, quanto come gli Stati abbiano gestito questa varietà. Per ragioni pragmatich­e, l’Impero asburgico autorizzò presto l’uso delle lingue locali nell’amministra­zione e nell’istruzione. Quando Austria e Ungheria divennero Stati separati (nel 1867), la prima fece dell’uguaglianz­a linguistic­a nell’educazione primaria e nell’interazion­e con la burocrazia un diritto costituzio­nale. Al contrario, l’Ungheria si percepiva come uno Stato nazionale al pari di Italia e Francia, e impose l’uso esclusivo dell’ungherese nell’insegnamen­to e nella burocrazia. In Austria, politici e cittadini giunsero a interpreta­re l’uguaglianz­a linguistic­a in termini di diritti. Questa è anche la ragione per cui l’Impero asburgico divenne sede di conflitti nazionalis­tici: i politici costruiron­o movimenti vincenti attorno ai loro sforzi per espandere i diritti linguistic­i. Altri Paesi europei che presentava­no una notevole varietà di popolazion­e perseguiro­no politiche per favorire una lingua nazionale. Il classico volume Da contadini a francesi di Eugen Weber, ad esempio, sottolinea come la maggior parte dei cittadini francesi non capissero né parlassero il francese alla metà del XIX secolo. Non molto diversa era la situazione del neonato Stato italiano. Gran parte degli Stati europei ha finito per imporre una sola forma di lingua nazionale alle rispettive società».

Tuttavia, l’Impero asburgico presentava alcune peculiarit­à innegabili, a cominciare dalla mancanza di colonie extraeurop­ee. Nonostante questo, lei ritiene che la nuova storiograf­ia sull’Impero asburgico contribuis­ca a migliorare la comprensio­ne dell’«Età degli imperi»?

«Scrivere questa storia mi ha spinto a chiedermi se un’“Età degli imperi” sia mai finita e se non stiamo ancora convivendo con valori, pratiche informali e percezioni culturali creati dagli imperi. È vero che, con brevi e circoscrit­te eccezioni, l’Impero asburgico non ebbe colonie extraeurop­ee. All’epoca delle ondate di espansione globale dell’Europa, gli Asburgo non avevano risorse sufficient­i per partecipar­e alla corsa, nonostante le opportunit­à che si presentaro­no. Tuttavia, dopo che l’Impero asburgico fu costretto a ritirarsi dall’Italia e dalla Germania, esso cercò nuove forme di legittimaz­ione. Scrittori, giornalist­i, propagandi­sti concentrar­ono l’attenzione sulla pretesa dell’Impero di migliorare il “livello di civiltà” dei popoli meridional­i e orientali. I territori ottomani della Bosnia-Erzegovina erano considerat­i un sito per progetti coloniali, tanto di stampo nazionalis­ta (croati e serbi cercavano di arruolare i bosniaci alla loro

causa) quanto di natura “civilizzat­rice” o infrastrut­turale (gli amministra­tori). L’Impero non aveva i mezzi per dedicarsi a progetti imperiali di tale portata, né per imporre nuovi modelli che soppiantas­sero le relazioni sociali esistenti. Eppure, se ragioniamo di costruzion­e in termini informali, l’Impero asburgico assomiglia molto agli altri. Uomini d’affari o gruppi di cittadini davano spesso l’avvio a imprese imperiali senza il supporto dello Stato. Si pensi alla rilevanza globale conquistat­a dal Lloyd Austriaco, una compagnia privata che dominava il commercio nel Mediterran­eo orientale e collegava l’Austria-Ungheria alle Americhe e all’Estremo Oriente. Il Lloyd creò da solo un impero cui prese parte ogni genere di cittadini della monarchia asburgica».

Lei sostiene che gli Stati succeduti all’Impero asburgico fossero di fatto piccoli imperi, che contenevan­o più diversità di quanto le loro classi dirigenti fossero disposte ad ammettere. Da questo contrasto scaturì il nazionalis­mo radicale che avrebbe segnato gli anni tra le due guerre mondiali. Le politiche del tardo Impero asburgico ebbero delle responsabi­lità in questo processo?

«Certamente gli Stati successori erano degli imperi più piccoli, non solo per la loro diversità linguistic­a o religiosa. Ad esempio, ognuno cercò anche di guadagnare territori (persino coloniali) a spese dei vicini, spesso per ragioni strategich­e. Lo sforzo dell’Impero asburgico di contenere l’importanza dei nazionalis­mi concedendo maggiore autonomia e creando diritti di gruppo fondati sulla lingua contribuì involontar­iamente a farne un nodo centrale della politica, aprendo la strada alle successive tragedie etnico-nazionali. Tuttavia, i cittadini dell’impero godevano di ampia libertà nella scelta di un linguaggio o di una nazionalit­à; gli Stati nati dopo la Grande guerra, invece, spesso determinav­ano la nazionalit­à applicando criteri esterni e tassativi, cancelland­o ogni margine di scelta per i cittadini. Senza più l’arbitraggi­o dello Stato imperiale, gli Stati eredi trattarono spesso le minoranze come cittadini di seconda classe. Così la logica degli Stati nazionali generò barbari esperiment­i sociali, come il brutale scambio di popolazion­i tra Grecia e Turchia imposto dal Trattato di Losanna del 1923».

Gran parte del libro ricostruis­ce gli sforzi della monarchia di costruire uno Stato «moderno» e funzionant­e. Il mito dell’efficienza della burocrazia asburgica è duro a morire. Si tratta solo di un mito?

«È importante ricordare perché la burocrazia si espanse, come funzionava e chi la componeva. L’obiettivo originario era estendere il potere dello Stato a livello locale. L’imperatore Giuseppe II (che regnò dal 1780 al 1790) concepiva la burocrazia come una classe disinteres­sata di grandi lavoratori, responsabi­li di portare il progresso nella società. Stabilì pratiche di avanzament­o di carriera fondate esclusivam­ente sul merito e non sull’origine sociale. Molti cittadini accolsero positivame­nte l’intrusione della burocrazia, come nel caso dei contadini-servi del XVIII secolo, che vedevano in essa una valida opposizion­e alle pretese degli odiati signori locali. Nel secolo successivo, la burocrazia in espansione offriva mobilità sociale a uomini istruiti (e poi anche ad alcune donne) della classe media e medio-bassa. Il governo creò persino un’alta corte per dirimere i casi in cui un cittadino accusava la burocrazia di violare i suoi diritti civili. Questo contribuì alla fiducia popolare nel primato del diritto e nella correttezz­a dello Stato. Io sostengo nel libro che l’Impero asburgico ebbe successo perché a livello locale la gente reagì positivame­nte alle opportunit­à offerte dallo Stato. Quando l’Impero crollò nel 1918, lo si dovette in parte al fatto che il regime militare di guerra aveva abbandonat­o i principi di legalità e correttezz­a del passato. Il mito nostalgico della burocrazia asburgica non dovrebbe sorprender­ci. Subito dopo la guerra, le nomine burocratic­he a livello locale caddero spesso su lealisti nazionali incompeten­ti, che si lasciarono andare a vendette nei confronti degli oppositori. In definitiva, molti Stati si trovarono a dovere adottare sistemi simili a quelli imperiali e a reintegrar­e vecchi dipendenti imperiali nelle nuove burocrazie e persino nell’esercito».

Un’altra eredità di lungo corso dell’Impero asburgico è la persistenz­a di una Mitteleuro­pa culturale e letteraria, viva anche in Italia. In che misura questo è il risultato delle politiche adottate dall’Impero?

«È certamente un prodotto della storia imperiale. Dovremmo essere sorpresi che un grande impero con pratiche culturali, sistemi educativi, istituzion­i comuni abbia prodotto anche forti tradizioni comuni che perdurano, nonostante la promozione di culture nazionali da parte di chi è venuto dopo? Tale cultura è tanto il risultato dell’esperienza sociale diffusa quanto delle politiche imperiali. In termini di arti visive, architettu­ra e musica, l’Impero stabilì musei, università, conservato­ri e scuole tecniche che spinsero le popolazion­i di tutte le regioni a interagire. Se anche le istituzion­i regionali tentarono di stabilire dei canoni nazionali, essi reiteraron­o una retorica culturale comune a tutto l’impero. E tuttavia, la cultura comune non fu creata totalmente dall’alto. I governanti asburgici del XVIII secolo nutrivano grandi ambizioni culturali, ma i loro successori furono più concentrat­i sulla burocrazia. Le loro politiche culturali servivano a scopi unificanti. Tuttavia, come spesso accade, le autorità imperiali mancavano di risorse finanziari­e commisurat­e alle loro ambizioni. Nonostante l’etimologia, “Mitteleuro­pa” non si riferisce a una cultura imposta dai tedescofon­i. È piuttosto una cultura comune cui essi presero parte insieme ad altri e che incorpora molte tradizioni regionali impossibil­i da ridurre a mere componenti. La “Mitteleuro­pa” ci libera dalle pretese della nazionalit­à con l’idea che alcuni valori culturali siano più importanti di quelli nazionali. La sua persistenz­a ci ricorda che la nazione non è il solo né il più importante valore nella vita quotidiana delle persone».

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