Corriere della Sera - La Lettura
Anche il latte liquido qui a Cuba è un lusso
Creo (…) que los cubanos necesitan recuperar la esperanza y tener una imagen posible de su futuro. Si se pierde la esperanza se pierde el sentido de cualquier proyecto social humanista. («Credo che i cubani abbiano bisogno di recuperare la speranza e di ottenere una possibile immagine del futuro. Se si perde la speranza si perde il senso di qualsiasi progetto sociale umanista) Leonardo Padura Fuentes
Mimí fa il cooperante per una Organizzazione non governativa che si occupa di progetti comunitari. La mattina prende una guagua (un bus) per due pesos, qualche centesimo di euro. Le guaguas sono strapiene, barcollanti, sudate. Mimí sale in camicia, due bottoni aperti e maniche arrotolate, perfettamente a ritmo con la guagua, il calore, le altissime palme da cocco, i pigrissimi e giganteschi ficus dei parchi di Miramar, le compañeras che mandano i figli a scuola — fazzoletto rosso in ordine e camicia bianca immacolata — e il mare che infrange la barriera del Malecón, il lungomare dell’Avana. In effetti il mare, in una giornata di sole così, non sembra per niente lo stesso mare che invade Centro Habana ogni volta che c’è un ciclone. Dopo il lavoro Mimí
passa al mercato a vedere se per caso non si possa comprare qualche frutto. Ci sono l’onnipresente fruttabomba (che papaya è una parola zozza e se la dici ti sfottono), la guayaba e del boniato (patata dolce) accumulato in un angolo da un venditore. Una signora vende ricariche per penne bic e per accendini.
Mimí vorrebbe fare la coda per le uova, ma una donna gli dice a voce alta che sono finite. Però proprio di lato c’è la coda per l’elenco telefonico: strumento importantissimo, imprescindibile, in un Paese dove quasi ogni casa ha il suo telefono, le chiamate a numero fisso sono economicissime e i cellulari ancora uno strumento raro, costoso e in fondo prescindibile.
È il maggio 2012.
Nel 2021 vivo a Cuba da quasi tre anni. Mimí ha messo su famiglia e fa ancora i progetti comunitari. Quando arrivai, nel settembre 2018, a parte le patate e la carne di manzo, che erano beni a distribuzione centralizzata — il che voleva dire che praticamente l’unica maniera per procurarseli era il mercato nero —, si trovava tutto, anche internet sui telefonini. Le code normalmente non c’erano. Nei piccoli e grandi negozi, spartani, spogli e
L’isola vive un’estate turbolenta: manifestazioni contro il governo per la gestione del virus e la mancanza di generi di prima necessità, contromanifestazioni, disordini, sospensione di internet, mobilitazioni tra gli esuli in Florida. Carla Vitantonio, scrittrice e cooperante da tre anni a L’Avana, racconta cosa ha visto. Code, caldo, paura, disinformazione... solite cose; ma forse ora torna la frutta...
forse un po’ tristi all’occhio del consumatore del Nord globale, c’era un esemplare di circa ogni tipologia di prodotto. Certo uno non poteva scegliere la marca, ma con un po’ di destrezza si trovavano pure gli yogurt e lo shampoo mil-mil, direttamente da Agua y Jabón, una catena che riciclava tutto l’invenduto italiano dal quasi defunto Acqua e Sapone. Almeno, secondo me era così. C’erano alcune singolarità tutte cubane, per esempio la quasi completa inesistenza del latte liquido. Così dicono loro. Latte liquido. A Cuba il latte è principalmente in polvere, o condensato, o evaporato. Ma latte liquido, cioè latte naturale, quello praticamente non c’era. Comunque con il latte in polvere si viveva benissimo, il latte liquido era un lusso di cui non avevamo nostalgia. Alcune cose scarseggiavano ciclicamente, tipo il pollo. Solo per queste si faceva la coda, e si poteva comprare un certo numero di pacchetti a persona. Qualcuno imbrogliava. Si affittavano i bambini, i fidanzati... per avere più pollo. Ma alla fine si risolveva tutto a lo cubano, termine che non so spiegare, ma ha in sé una componente di solidarietà e buonumore.
Quando la giornata andava male — l’infinita burocrazia di alcune mansioni, le incomprensibili e inattese rigidità, l’impossibilità di trovare questo o quel pezzo di ricambio per (scelta multipla) bicicletta/auto/moto/ scarpe/lavandino/segue lunga e inutile lista — bastava scendere fino al Malecón. Il sole faceva brillare della stessa commovente immensità il mare, le rovine abitate malgrado i cartelli di pericolo, la gente a pescare sul muricciolo, i nuovi hotel costruiti nella felice Era Obama, e tutto il resto che non si può descrivere. Nove chilometri di bellezza e silenzio. Dal mare, nemmeno una barca, che con Trump l’embargo era ritornato triste solitario y
final. Ma il Malecón rinfrancava tutti, e veniva voglia di ringraziare qualche forza superiore per la fortuna di poterlo attraversare ogni giorno.
Il Malecón e le bianchissime spiagge vennero chiusi proprio all’inizio della pandemia. Ancora adesso sul marciapiede del Malecón non si può nemmeno camminare. Questo è abbastanza strano, perché sul marciapiede di fronte invece sì. Forse avranno scoperto che sul Malecón il Covid si trasmette più rapidamente. Tu sei lì che pedali verso casa, ti fermi un attimo su lato Malecón per fotografare questo immenso deserto blu, e tecchete una pattuglia ti rimprovera con i suoi metodi forse non innovatori ma sicuramente efficaci: per esempio l’uso indiscriminato del megafono, che ti fa vergognare davanti a tutti, oltre a farti venire un mezzo infarto.
La gente ci fa i meme su feisbú esu guasá (così i cubani chiamano Facebook e WhatsApp), sfotte il governo per queste misure surreali, a volte s’arrabbia. Più va avanti la pandemia, e più s’arrabbia. O s’arrabbia e ironizza insieme, a lo cubano. Per esempio, dopo le manifestazioni di novembre (un gruppo di artisti, piuttosto trasversale, non tutti animati da genuine intenzioni ma manco tutti pagati dagli Usa, chiedendo maggiore libertà di espressione) il governo ha sospeso internet per alcune ore. E così da allora ogni volta che internet non funziona c’è qualcuno che dice oh, deve essere una manifestazione non autorizzata. Spallucce.
Al principio della pandemia c’era una specie di eccitazione collettiva. Il governo aveva lanciato un eccellente piano di risposta: in 60 anni di solitudine, innumerevoli disastri naturali e diverso altro, i cubani hanno maturato un forte allenamento per lo stato d’emergenza. Certo, i beni di consumo avevano cominciato immediatamente a scarseggiare; infatti, come se non fosse bastato il sempiterno embargo (sfido chiunque dica che è simbolico a provare a mandarmi un pacchetto, con qualsiasi contenuto, qui all’Avana), adesso non c’erano più turisti, la moneta dura non entrava e lo Stato non aveva liquidi per comprare ciò che era necessario per nutrirci. Però avevamo molto da fare: tutte le macchine da cucire di Cuba producevano mascherine (nasobucos) di tela, perché il paese non era in grado di comprare quelle chirurgiche e anche perché volevamo essere i migliori amici dell’ambiente. I nasobucos ciondolavano al sole su balconi, terrazze, finestre, era bello camminare per le strade dell’Avana e vedere tutti questi colori sotto il sole di primavera. Molto presto cominciammo a fare la coda. Ore e ore di coda. Necessaria per non fare gli assembramenti, e perché non c’era abbastanza di niente. Poi arrivarono i problemi della logistica, legati pure loro all’embargo, alle barche piene di petrolio che non arrivavano. Allora le code: un giorno 5 ore per comprare due tubetti di dentifricio e quattro rotoli di carta igienica. Un altro giorno 4 ore per due litri di olio di semi. Gran successo di pubblico e critica. Le code si snodavano come lunghi serpentoni attorno agli isolati. C’era qualche soldatino disarmato che diceva di non appiccicarsi. Ma il tempo passava, le code aumentavano, i casi di Covid pure. Il vaccino, orgoglio e speranza di ogni cubano, tardava ad arrivare. I viaggi all’estero, grazie ai quali i cubani avevano sempre rifornito il mercato informale, continuavano a essere praticamente impossibili.
Dopo qualche mese di pandemia il governo decise di aprire i negozi in Mlc, che vuol dire moneda libremente
convertible: negozi dove si paga in moneta dura. All’inizio questi negozi, che dovevano essere in numero limitato ed avevano l’ambizione di rifornire solo la fascia medio-alta della popolazione, erano bene assortiti. Vendevano tutti i prodotti che non erano stati distribuiti agli alberghi a causa della sospensione del turismo. La gente si comprava interi prosciutti, chili di salmone affumicato, pezze di gorgonzola grosse come non so che, saponi, detergenti, olive, salsa barbecue e nutella e bonbon. Qualcuno si lamentava perché i negozi in valuta locale erano sempre più vuoti. Più di qualcuno. Molti. Noi siamo andati nel negozio in Mlc due volte. Ogni volta abbiamo fatto 7 ore di coda e siamo usciti così esausti e disidratati da chiederci se non fosse meglio pagare il doppio e andare al mercato nero, che a Cuba si sviluppa soprattutto per telegram, feisbú o conoscenza diretta. Certo, fino a quando c’era un mercato nero. Ma poi anche quello ha cominciato a svuotarsi.
La gente sempre più affaticata.
Trovare da mangiare un lavoro a tempo pieno per molti.
L’embargo sempre più stretto, che ormai non si possono nemmeno mandare quei pochi soldi dall’estero.
Le medicine, neanche a parlarne. Ho fatto una gastroscopia nel migliore dei centri cubani e questi dottori bravissimi di cui parla tutto il mondo hanno dovuto dirmi che la cura medica la dovevo fare in Italia, principio attivo scritto a mano su un bigliettino.
I numeri dei contagiati che crescono e la somministrazione del vaccino che va a rilento.
L’elettricità sempre più scarsa.
E poi, una generazione di giovani cubani che la rivoluzione non l’ha fatta, e a certi stimoli giustamente non risponde.
Un discorso pubblico che fatica a stare al passo con i tempi, con questi tempi.
La fatica, ecco, soprattutto, la fatica.
Il giorno delle manifestazioni, all’inizio di luglio, nessuno se lo aspettava però lo temevano in molti. Non esistono informazioni sui numeri, ma sappiamo di episodi in circa 50 città. Chissà se il detonatore è stato la lentezza della campagna vaccinale, la fatica per trovare qualsiasi cosa, un incoraggiamento venuto da fuori. Chissà se sono state le necessità materiali, o un’aspirazione a un sistema diverso. Oppure tutto questo mescolato.
Come molti, non ho dubbi sulla legittimità di alcune richieste. Certo, che un’insurrezione in 50 città sia stata completamente spontanea, senza una forma di coordinamento, mi sembra inverosimile. Comunque l’unica verità mi pare che questo conflitto se lo debbano vedere tra di loro.
A lo cubano.
Tra di loro che vivono qui, perché tutti i cubani che dalla Florida strillano i loro ordini (a morte tutti i comunisti! — ecco il grido non violento e soprattutto costruttivo) se proprio avessero avuto a cuore il cambiamento, sarebbero potuti rimanere qui, dico io.
Fa caldissimo.
Domenica 11 e lunedì 12 luglio caos completo. Manifestazioni, violenze (inutile dire, da ambo i lati), saccheggi dei negozi in Mlc. Radicalizzazione del conflitto. Sospensione di internet. Nessuno sapeva niente di nessun altro, ognuno ha preso da solo la decisione che sentiva di poter sostenere con le proprie forze fisiche e psicologiche: molti sono scesi in piazza, molti altri si sono chiusi in casa. Martedì 13, primi resoconti, forse duecento arrestati, moltissime fake news. All’improvviso troppa calma, fa paura. Mi chiama un’amica con voce incerta: «Tu cosa pensi che succederà?». In troppi abbiamo timore che quelle finte foto delle barche che arrivano dalla Florida non siano poi così finte. È terribile non avere nessuna fonte di informazione. Chi è obbligato a uscire riporta che le strade si sono tranquillizzate. Ma quali strade? E le province? La maggioranza di noi non si azzarda a telefonare. Mercoledì 14, il governo ammette che c’è stato un morto. Poi, inaspettatamente, apre. Alcune concessioni. Misure straordinarie. Torna internet, poco a poco. Qualche artista e intellettuale strilla: era necessario aspettare che il popolo si rivoltasse per prendere queste misure? Dice il cubano que el buey es manso hasta que es manso (il bue è mansueto finché lo è).
Siamo già a giovedì 15. Di alcune province non sappiamo niente. Biden dice che sta cercando di riportare l’internet a Cuba. Nessuna menzione all’embargo. Si cerca di non farsi avvelenare dalle fake news. Si approfondisce grazie a certi intellettuali particolarmente lucidi. Con sospetto chi può ricomincia ad andare al lavoro. A fare le code, invece, non so.
Venerdì 16 il fruttarolo mi manda un messaggio: da martedì ricominciano le consegne. Fa caldissimo.