Corriere della Sera - La Lettura
Il sognatore imperiale della Marvel
Capitan America: la guerra al nazismo, poi un sottile e sofferto progetto egemonico
Èun imperialista, Capitan America? A dispetto delle buone intenzioni dichiarate dal supereroe della Marvel — e senza voler mettere in dubbio la sua sincerità — la risposta è positiva. Sin dall’inizio infatti il personaggio dei fumetti (ora anche del cinema) creato dallo sceneggiatore Joe Simon e dal disegnatore Jack Kirby ottant’anni fa, quando gli Stati Uniti non erano ancora entrati nella Seconda guerra mondiale, si presenta come ostile all’isolazionismo e propenso all’interventismo. La copertina del primo albo, datato marzo 1941 ma uscito qualche settimana prima, ritrae l’eroe con il costume e lo scudo a stelle e strisce che sferra un gran pugno in faccia ad Adolf Hitler in persona. Più chiaro di così… Ricorda Marco Rizzo nel libro Capitan America: i
primi 80 anni (Panini Comics, in uscita il 5 agosto) che all’epoca un’associazione filotedesca, il German American Bund, non la prese bene. In redazione alla Timely (così si chiamava all’epoca la Marvel), scrive, «arrivano lettere e telefonate minacciose, strani tizi si presentano all’entrata». Gli autori si vedono «costretti a chiamare la polizia». Con i nazisti non si scherza.
Peraltro l’editore Martin Goodman e i due autori (Kirby all’anagrafe si chiama Kurtzberg) sono ebrei: è ovvio che vedano la svastica come il fumo negli occhi e caldeggino l’ingresso in guerra degli Stati Uniti ben prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. Così la
pensa anche il loro eroe, il gracile ma animoso patriota Steve Rogers, che si sottopone all’esperimento di farsi iniettare il siero del super soldato e diventa così un fusto muscoloso e scattante.
L’inventore del portentoso ritrovato viene subito assassinato da una spia nazista e ne porta con sé nella tomba la formula segreta. Ma Steve ha acquisito doti combattive eccezionali e le userà, sotto le spoglie di
Capitan America, con il suo partner adolescente Bucky, prima contro i sabotatori al servizio di Hitler e poi, dopo l’intervento americano, per sbaragliarne le truppe.
Al di là della pur giustificata retorica sulla vittoria della democrazia sulla tirannide, quando si afferma l’impero americano se non con la Seconda guerra mondiale, dalla quale gli Stati Uniti escono vittoriosi, con l’economia in vorticosa crescita, senza subire le perdite immani e le distruzioni inflitte dai tedeschi alla Gran Bretagna e all’Unione Sovietica?
Di quell’egemonia mondiale Capitan America è in fondo uno degli artefici a livello ideologico con la sua impostazione manichea: coloro che affronta sono sempre brutti ceffi spietati e il suo nemico nazista più accanito, il Teschio Rosso, indossa una maschera a forma di cranio umano che lo rende mostruoso (ricorderete che qualche tempo fa il fumettista Art Spiegelman ha bollato come Teschio Arancione, per via della zazzera, il detestato Donald Trump).
Dopo la vittoria del 1945 Capitan America perde mordente, poi si eclissa: l’ultimo albo esce nel 1950. E il tentativo di rivitalizzare l’eroe con lo scudo in funzione della Guerra fredda quale commie smasher («flagello dei comunisti») non ha successo. Anzi molti anni più tardi si scoprirà che il protagonista di quelle avventure contro il «pericolo rosso» non era il vero Steve Rogers, ma un impostore, tale William Burnside.
Nel frattempo è cominciata la nuova era della Marvel. Alle matite c’è ancora l’ottimo Kirby, alle trame il vulcanico Stan Lee. E nel 1964, in un albo della serie The Avengers, rinasce Capitan America. O meglio viene rintracciato da quel gruppo di eroi, congelato ma vivo, in un blocco di ghiaccio, dove l’ibernazione lo ha mantenuto giovane. Gli Avengers hanno trovato un leader e l’America riabbraccia il suo eroe, che più tardi avrà un albo tutto per sé.
Impossibile seguire qui le tormentate vicissitudini di Capitan America e dei personaggi di contorno, che il libro di Rizzo ripercorre in dettaglio fino ai nostri giorni. A Steve Rogers, spesso affiancato dal primo supereroe afroamericano Falcon, ne succedono di tutti i colori. Si batte di nuovo con il Teschio Rosso (sopravvissuto alla fine del Terzo Reich), si ritira e ritorna, muore e risorge. Il dato di fondo però è la sua fedeltà non all’establishment degli Stati Uniti, che spesso nelle sue storie risulta infiltrato e corrotto, ma al sogno americano, un ideale che trascende gli uomini e le istituzioni.
Non a caso nella saga Civil War Capitan America si schiera contro il governo e guida i supereroi che ne rifiutano il controllo, mentre la fazione opposta è capeggiata da Iron Man. Proprio qui però risiede la sua vocazione imperiale. Nell’attribuirsi una missione di carattere universale, forgiata negli Stati Uniti, ma rivolta all’intera umanità. Al manicheismo originale, non riproponibile, è subentrata una più sottile e per molti versi sofferta pretesa egemonica, nella quale, anche senza scomodare Antonio Gramsci, non è difficile riconoscere il marchio del potente soft power americano.