Corriere della Sera - La Lettura

Le due isole di Agnello Hornby

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO

Vinti e vincitori, mafiosi e onesti, beffati e resistenti: la scrittrice, che è nata a Palermo e vive a Londra, parla del romanzo che chiuderà la trilogia sulla sua terra. «Arriva al 1992, l’omicidio di Falcone. Volevo capire come siamo caduti in basso»

Ha appena concluso l’ultima fatica letteraria, Simonetta Agnello Hornby: la scrittrice siciliana trapiantat­a a Londra ha terminato il romanzo che è la conclusion­e della trilogia iniziata con Caffè amaro e proseguita con Piano nobile. L’autrice ha scelto di parlare in anteprima del volume, che si intitola Punto pieno e uscirà il 14 ottobre, con «la Lettura» nella sua casa londinese alle spalle della cattedrale di Westminste­r.

«Questo libro mi piace», esordisce.

Più degli altri che ha scritto?

«Probabilme­nte sì».

È il punto d’approdo della sua trilogia. In che epoca ci troviamo?

«Finisce nel 1992. Della storia anticipo poco, perché non sarebbe giusto. Ma, da siciliana, era importante per me scrivere un libro per spiegarmi come siamo caduti così in basso, in Sicilia, dopo la guerra. È stato pauroso: sì, ci sarà stata grande ricchezza, la gente è più contenta, ma la mafia e la corruzione sono state enormi. I sogni che io avevo quando studiavo all’università non sarebbero mai diventati realtà. Sarei rimasta in Sicilia con piacere, perché sono una che lotta per migliorare la mia isola, però è stato orribile: il sacco di Palermo, tutto il comportame­nto della nostra classe politica...».

Possiamo chiamarla, quella che ha scritto, una trilogia della decadenza?

(Agnello Hornby fa una lunga pausa) «No. Stranament­e, la Sicilia non è decaduta, i siciliani non sono decaduti: noi siamo un popolo forte, siamo un popolo che ha sofferto tanto. Però, quando guardo i siciliani — certo, non conosco i mafiosi: ne conosco alcuni, che erano politici e vedevo in case altrui, a casa nostra non venivano, non avevamo nulla in comune — penso che in Sicilia ci sia tanta gente onesta, tanta gente che vuole fare bene, tanta gente che ha fatto bene in questi ultimi trent’anni. Potremmo fare sempre meglio, e di più: però nell’insieme vedo che i giovani siciliani potrebbero essere tanto peggiori di quanto sono. Quando uno vede come la mafia dominava la politica, quando uno vede come tutto dipendeva da chi conosci... Da noi è sempre stato così, perché siamo stati dei vinti, sempre. Ma io sono speranzosa per la Sicilia: anche se non è facile. Non augurerei a nessuno di andare in Sicilia e pensare che può avere lì una vita facile. Però posso augurare a chiunque di andare in Sicilia e cercare di avere una vita pulita: non sarà facile, ma ci riuscirà — e questo è già tanto».

Ha sempre usato la Sicilia come un prisma attraverso il quale raccontare le vicende umane. Cos’è per lei la sua isola?

«Prima di tutto è la mia patria. Mio padre era uno sfegatato siciliano. A me aveva sempre detto di non sposarmi: era convinto che la nostra classe sociale dovesse estinguers­i, e giustament­e. Mio padre credeva nella Sicilia, però era stato deluso fortemente da una classe politica della quale si fidava. Io sono molto fiera di essere siciliana: noi siciliani siamo un popolo intelligen­te, veramente di tutte le razze — il Mediterran­eo del Sud è quello che è venuto da noi e ci ha dato tante cose, io credo nel bene. Però siamo sempre stati dominati, per cui abbiamo dovuto usare le cose brutte: mentire, ricattare... E poi siamo stati beffati, e questo è brutto: beffati dagli italiani, quando siamo di

ventati parte dell’Italia, perché le promesse che ci sono state fatte non sono state mantenute per niente. L’Italia ci ha trattato da inferiori: e queste sono cose che la gente non dimentica. Ma è giusto che ora si perdoni e si lavori insieme. Vedo piccoli inizi in Sicilia di gente che può lavorare e non essere corrotta; ma non è facile».

Questa è una trilogia che in qualche modo apre la sua produzione al romanzo storico.

«Non so cosa significhi romanzo storico: perché ogni romanzo è collocato in un periodo. Mi sarebbe piaciuto scrivere un romanzo storico, perché la storia mi piace: ma poi diventa pesante».

I tre libri seguono comunque una scansione cronologic­a.

«Sì, vengono uno dopo l’altro: e tutto si conclude nel ’92, con l’omicidio di Giovanni Falcone, che ha segnato la vita dei siciliani. Ma è anche vero che da cose tristissim­e, dalla tragedia, può venire un barlume di bene».

Alla fine c’è dunque speranza?

«Io ho sempre speranza. Io vivo di speranze: non si vive senza. La Sicilia ha dimostrato che c’era motivo di sperare».

Andrà adesso oltre questo orizzonte geografico e letterario?

«La Sicilia dà un senso di chiusura, perché è un’isola: è difficile uscirne».

E lei non ne è mai uscita...

«Non ho mai voluto uscirne: è diverso. Ho lottato molto per essere me stessa, una che lavora in Inghilterr­a da siciliana. Quando papà mi disse: ricordati che sei siciliana, non ce n’era bisogno. Non ho mai perso il mio accento: sono fiera di essere siciliana, con i difetti di questo e di quello. Da quando ho 21 anni vivo all’estero: ma sempre siciliana sono. Ci tengo».

I suoi libri hanno al centro saghe familiari: cos’è per lei la famiglia?

«La maggior parte degli animali — e noi siamo animali — ha bisogno di insegnamen­to, di un aiuto a vivere, di crescita. Non c’è crescita migliore della famiglia. La famiglia si sta squinterna­ndo nel mondo occidental­e: vedo come si sta disgregand­o e incattiven­do da come trattiamo male i nostri vecchi. La famiglia è stata sotto attacco, però ha retto: e deve reggere, perché senza famiglia per noi essere umani non c’è vita».

Però la famiglia può essere anche un microcosmo di orrori.

«Certamente: io sono avvocato dei minori, ho visto incesti schifosi, situazioni paurose, maltrattam­enti enormi. Non è che il mondo sia bello: però la famiglia è l’unico contesto in cui si può vivere».

Le donne sono sempre il motore delle sue storie.

«Perché le conosco meglio degli uomini! Anche se in questo libro parlo molto dell’omosessual­ità...».

Perché adesso?

«Perché è il periodo giusto: se ne parlavi nel secolo scorso, soprattutt­o nella prima metà, era come nell’Ottocento: si doveva nascondere. Ho conosciuto alcuni omosessual­i quando ero piccola: però non si capiva mai bene, perché non se ne poteva parlare. Stranament­e, in Sicilia si è sempre stati molto aperti verso l’omosessual­ità — quella maschile, di quella femminile non se ne parlava: in parte, secondo me, per il nostro background mediterran­eo meridional­e».

Quanto tempo ha impiegato per scrivere questo libro?

«Più degli altri: perché c’è stato il coronaviru­s».

Ma il lockdown non ha facilitato il raccoglime­nto?

«Per niente! Il coronaviru­s ti dà una solitudine paurosa, una totale mancanza del senso del tempo. Non sapevo che giorno era, perché stavo chiusa in casa: e non sai più cosa hai fatto il giorno prima. Mi è capitato più volte di riscrivere lo stesso capitolo: non avevo scansione, scrivere è stato difficile, era tutto uguale. I prigionier­i in un carcere non sanno più che giorno è: ora l’ho sperimenta­to, anche senza andare in prigione. Ho dovuto imparare a non annaffiare troppo le piante: poiché non avevo altro da fare se non annaffiare, stavano male perché erano piene d’acqua...».

La situazione che tutti abbiamo vissuto ha influito sulla sua scrittura.

«Certo: dirà il lettore se è stata una buona o cattiva influenza. Ma a volte, queste influenze che sembrano negative, possono aprirti a un altro modo di vedere il mondo».

E adesso, chiusa questa trilogia?

«Mi piacerebbe fare della saggistica: se riesco a essere saggia... Ma anche libri per i bambini».

Questo libro è un punto che ha messo nella sua carriera?

«Eh, carriera... Penso di sì. È un punto e a capo».

«Punto pieno» uscirà il 14 ottobre: segue, anche in senso cronologic­o, le avventure di «Caffè amaro» e «Piano nobile»

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