Corriere della Sera - La Lettura
Un romanzo? No, un mosaico
è architetto e scrittrice. «Contare le sedie» sfugge a una definizione (in realtà è più cose insieme) ma presenta elementi chiari. Per esempio la perdita, l’infelicità come dato tragico e non sociologico, la precarietà del lavoro
L’essere orfani e il ricordo/assenza del genitore divengono — nel corso del libro — un’allegoria della perdita
Contare le sedie (Einaudi) di Ester Armanino è un libro che sfugge a una precisa catalogazione di genere, non è di certo un romanzo, né possiamo definirlo libro di racconti, in parte potrebbe essere una narrazione biografica, ma nello stesso tempo il dato finzionale della prosa della scrittrice genovese è molto alto; così la migliore definizione potrebbe essere quella di un mosaico, in cui singoli capitoli che leggiamo sono le diverse tessere ben definite e autosufficienti, che a uno sguardo d’insieme, messo nella giusta prospettiva, consegnano al lettore una lunga e profonda meditazione sulla ricerca dell’identità.
«Con tono scherzoso ma non troppo gli confesso che ultimamente mi sento a pezzi. Ogni pezzo sta bene, lo rassicuro, ma messa così non posso andare lontano» (pagina 59) è un’affermazione della protagonista che descrive in poche righe non solo il nucleo tematico, ma anche la struttura del libro; una sorta di storia di formazione, di presa d’atto di sé che non avviene tramite un movimento, un passaggio da un punto A verso un punto B, con tanto di peripezie e avventure (ecco perché Contare le sedie non può essere definito un romanzo), ma anzi che impone quasi testardamente il rimanere fissi in un luogo (Genova, in particolar modo): «Serve del collante […]. Non per andare lontano, ma per restare qui, che è la cosa più difficile, sai?» (pagina 59).
L’Io narrante di Contare le sedie è una donna, architetto, insegnante e scrittrice (in parte corrispondente al ritratto biografico di Armanino, docente di scrittura creativa nelle scuole Holden, Belleville e Officina Letteraria), che raccoglie appunto alcune tessere della sua esistenza per provare a descrivere il passaggio, la famigerata linea d’ombra, che si produce quando si arriva a scoprire la «vera me» (pagina 8). La ricerca di questa «vera me» è declinata in una serie di vari e diversi filoni narrativi, che vengono a comporsi, e tra questi due ci paiono più interessanti di altri (ovvio che il lettore potrà sbizzarrirsi a comporne e trovarne altri) legati al tema del lavoro manuale e alla morte della madre. L’essere orfani e il ricordo/assenza del genitore divengono — durante la lettura di Contare alle sedie — un’allegoria della perdita, del tassello mancante: l’io narrante è come segnato da un senso di difettosità, le manca qualcosa, ogni volta che pare raggiungere una stabilità, un equilibrio, un momento di bilanciamento nel corso della sua esistenza, un minimo accadimento apre un piccolo sbrego, che fa filtrare il veleno della perdita.
Non c’è in Armanino, diremmo grazie al cielo, nessuna volontà di fornire un tratto sociologico e didascalico dei nuovi quarantenni o delle nuove quarantenni in crisi, o meglio Contare le sedie può essere letto anche da questa prospettiva, che però risulta penalizzante, perché il testo è appunto un trattato sulla perdita, sul vuoto, sull’accettazione del fatto che l’infelicità così come la precarietà siano il prodotto non tanto di cause sociali ed economiche ma di una sorta di necessità creaturale e tragica: «La sensazione era quella di accarezzare un corpo vuoto» (pagina 53).
Accanto al tema della perdita, è presente, si direbbe in ogni pagina, il tema del lavoro e del lavoro manuale in particolare, quasi a sancire che il modo — l’unico? — per riconoscere questa «vera me» stia nel labor quotidiano, nella fatica, nel sapere utilizzare gli attrezzi, nel riparare le cose, nel tirare su muri, nel fare un buon lavoro. Ne è un esempio il capitolo «Pietre» dove appunto si racconta della messa in posa di alcune pietre nel giardino della casa paterna, la descrizione di questa attività, la scelta delle pietre, il come collocarne una accanto all’altra, possiedono per il lettore un gusto meta-letterario; spiegano cioè il modo con cui non solo ricompone l’identità dell’io narrante, ma come si è venuto a formare e nascere il testo, il quale procede per una serie di incastri, di richiami di forma, di convessità e concavità che si incontrano: «Per capirci mentre lavoriamo, abbiamo assegnato dei nomi alle pietre in base alle forme più ricorrenti. […], ed eccolo avvicinarsi reggendo una “Corsica” pesante e oblunga, perfetta per incastrasi con un “fegato” e una “lasagna” già al loro posto» (pagina 41).
Questo modus operandi nella costruzione della struttura ricade chiaramente, giacché struttura e stile sono intimamente legati, anche nella lingua usata da Armanino: dalle poche citazioni che si sono fornite appare certa la scelta che propende verso la chiarezza e verso la «leggerezza» calviniana, che pare essere la cifra dell’espressione di Contare le sedie.
Armanino cerca la parola giusta, quella che si incastri al meglio con il termine che la precede e con quello che la segue. Quando accade, avviene il miracolo e la parola pare prendere vita come il rondone che «per quanto ne sappiamo potrebbe anche essersi materializzato in quel punto dal nulla» (pagina 13).