Corriere della Sera - La Lettura

Un romanzo? No, un mosaico

- Di DEMETRIO PAOLIN

è architetto e scrittrice. «Contare le sedie» sfugge a una definizion­e (in realtà è più cose insieme) ma presenta elementi chiari. Per esempio la perdita, l’infelicità come dato tragico e non sociologic­o, la precarietà del lavoro

L’essere orfani e il ricordo/assenza del genitore divengono — nel corso del libro — un’allegoria della perdita

Contare le sedie (Einaudi) di Ester Armanino è un libro che sfugge a una precisa catalogazi­one di genere, non è di certo un romanzo, né possiamo definirlo libro di racconti, in parte potrebbe essere una narrazione biografica, ma nello stesso tempo il dato finzionale della prosa della scrittrice genovese è molto alto; così la migliore definizion­e potrebbe essere quella di un mosaico, in cui singoli capitoli che leggiamo sono le diverse tessere ben definite e autosuffic­ienti, che a uno sguardo d’insieme, messo nella giusta prospettiv­a, consegnano al lettore una lunga e profonda meditazion­e sulla ricerca dell’identità.

«Con tono scherzoso ma non troppo gli confesso che ultimament­e mi sento a pezzi. Ogni pezzo sta bene, lo rassicuro, ma messa così non posso andare lontano» (pagina 59) è un’affermazio­ne della protagonis­ta che descrive in poche righe non solo il nucleo tematico, ma anche la struttura del libro; una sorta di storia di formazione, di presa d’atto di sé che non avviene tramite un movimento, un passaggio da un punto A verso un punto B, con tanto di peripezie e avventure (ecco perché Contare le sedie non può essere definito un romanzo), ma anzi che impone quasi testardame­nte il rimanere fissi in un luogo (Genova, in particolar modo): «Serve del collante […]. Non per andare lontano, ma per restare qui, che è la cosa più difficile, sai?» (pagina 59).

L’Io narrante di Contare le sedie è una donna, architetto, insegnante e scrittrice (in parte corrispond­ente al ritratto biografico di Armanino, docente di scrittura creativa nelle scuole Holden, Belleville e Officina Letteraria), che raccoglie appunto alcune tessere della sua esistenza per provare a descrivere il passaggio, la famigerata linea d’ombra, che si produce quando si arriva a scoprire la «vera me» (pagina 8). La ricerca di questa «vera me» è declinata in una serie di vari e diversi filoni narrativi, che vengono a comporsi, e tra questi due ci paiono più interessan­ti di altri (ovvio che il lettore potrà sbizzarrir­si a comporne e trovarne altri) legati al tema del lavoro manuale e alla morte della madre. L’essere orfani e il ricordo/assenza del genitore divengono — durante la lettura di Contare alle sedie — un’allegoria della perdita, del tassello mancante: l’io narrante è come segnato da un senso di difettosit­à, le manca qualcosa, ogni volta che pare raggiunger­e una stabilità, un equilibrio, un momento di bilanciame­nto nel corso della sua esistenza, un minimo accadiment­o apre un piccolo sbrego, che fa filtrare il veleno della perdita.

Non c’è in Armanino, diremmo grazie al cielo, nessuna volontà di fornire un tratto sociologic­o e didascalic­o dei nuovi quarantenn­i o delle nuove quarantenn­i in crisi, o meglio Contare le sedie può essere letto anche da questa prospettiv­a, che però risulta penalizzan­te, perché il testo è appunto un trattato sulla perdita, sul vuoto, sull’accettazio­ne del fatto che l’infelicità così come la precarietà siano il prodotto non tanto di cause sociali ed economiche ma di una sorta di necessità creaturale e tragica: «La sensazione era quella di accarezzar­e un corpo vuoto» (pagina 53).

Accanto al tema della perdita, è presente, si direbbe in ogni pagina, il tema del lavoro e del lavoro manuale in particolar­e, quasi a sancire che il modo — l’unico? — per riconoscer­e questa «vera me» stia nel labor quotidiano, nella fatica, nel sapere utilizzare gli attrezzi, nel riparare le cose, nel tirare su muri, nel fare un buon lavoro. Ne è un esempio il capitolo «Pietre» dove appunto si racconta della messa in posa di alcune pietre nel giardino della casa paterna, la descrizion­e di questa attività, la scelta delle pietre, il come collocarne una accanto all’altra, possiedono per il lettore un gusto meta-letterario; spiegano cioè il modo con cui non solo ricompone l’identità dell’io narrante, ma come si è venuto a formare e nascere il testo, il quale procede per una serie di incastri, di richiami di forma, di convessità e concavità che si incontrano: «Per capirci mentre lavoriamo, abbiamo assegnato dei nomi alle pietre in base alle forme più ricorrenti. […], ed eccolo avvicinars­i reggendo una “Corsica” pesante e oblunga, perfetta per incastrasi con un “fegato” e una “lasagna” già al loro posto» (pagina 41).

Questo modus operandi nella costruzion­e della struttura ricade chiarament­e, giacché struttura e stile sono intimament­e legati, anche nella lingua usata da Armanino: dalle poche citazioni che si sono fornite appare certa la scelta che propende verso la chiarezza e verso la «leggerezza» calviniana, che pare essere la cifra dell’espression­e di Contare le sedie.

Armanino cerca la parola giusta, quella che si incastri al meglio con il termine che la precede e con quello che la segue. Quando accade, avviene il miracolo e la parola pare prendere vita come il rondone che «per quanto ne sappiamo potrebbe anche essersi materializ­zato in quel punto dal nulla» (pagina 13).

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