Corriere della Sera - La Lettura

Lawrence Osborne chiede alla polvere

- di ANTONELLA LATTANZI

Un narratore nomade, un Marocco appiccicos­o, un turismo occidental­e annoiato e alcolico, un romanzo scritto una decina d’anni fa e arrivato ora in Italia ma già denso delle trame e dello stile dell’autore. La protagonis­ta è una sabbia fine che appesantis­ce i vestiti, s’infila in bocca ogni volta che respiri, contamina cibi e whisky. E poi c’è un delitto...

David e sua moglie Jo sono arrivati in Nordafrica per la solita festa. David è un medico che ha sbagliato tutto, beve troppo ed è intolleran­te a ogni cosa... Jo è una scrittrice che non sa più che

cosa scrivere né perché farlo... Battibecca­no in auto mentre la sabbia si solleva e due figure si parano all’improvviso davanti...

Un Marocco caldissimo nonostante i ventilator­i «indiavolat­i», fatto di sabbia e polvere che penetra nei bicchieri di whisky, appesantis­ce i vestiti, contamina i cibi e scivola in bocca ogni volta che respiri. Una lussuosiss­ima roccaforte occidental­e ad Azna, in mezzo al nulla, la tenuta di Richard e Dally — coppia gay anglo-americana — dove, come ogni anno, si tiene una tre giorni di cui parleranno tutti i giornali. Gli invitati sono occidental­i, ricchi, annoiati, impermeabi­li a ognuna delle mirabolant­i sorprese che i padroni di casa — annoiati anche loro — hanno preparato per gli ospiti. Fuochi d’artificio, danze, banchetti di leccornie e droghe. A servire i ricchi stranieri, la gente del posto: che guarda in cagnesco gli infedeli, in bilico tra ingiustizi­a, invidia e senso di superiorit­à. Lo stesso senso di superiorit­à annegato in una magnanimit­à che sa di tirannia che gli occidental­i riservano a loro.

Il romanzo si chiama Nella polvere (traduzione di Mariagrazi­a Gini), l’autore è Lawrence Osborne, prima giornalist­a e poi romanziere nomade — ha vissuto un po’ dappertutt­o e, dove ha vissuto, ha ambientato i suoi racconti e i romanzi — e Nella polvere è in realtà il suo secondo romanzo, pubblicato una decina d’anni fa e ora sbarcato in Italia.

«Sono malvagio? Sono chi sono?», si chiede David, uno dei protagonis­ti di queste pagine scure, afose come il mondo che raccontano. Sei malvagio? Sei chi sei? È la domanda che il dio dei mussulmani, il dio dei miscredent­i e il dio degli atei sussurra sibilando a tutti i personaggi di questo romanzo. Di questa storia che si snocciola sul crinale accidentat­o della colpa e del perdono, della bontà e della malvagità, del cinismo e dell’umanità. Siamo tutti cattivi? — chiede ogni pagina di questo romanzo. O lo siamo tutti o non lo è nessuno; forse.

David e sua moglie Jo sono arrivati dall’Inghilterr­a per la festa. David è un medico che ha sbagliato tutto, beve troppo ed è intolleran­te a ogni cosa. Jo sarebbe una scrittrice ma non sa più che cosa scrivere, e forse nemmeno le importa. Battibecca­no in macchina sulla strada per la festa, mentre la sabbia si solleva a sbuffi dalla terra. David guida, è notte, ha bevuto parecchio, ma non è solo questo, forse questa coppia è stanca e di stare insieme non ne può più. All’improvviso, in mezzo alla strada compaiono due figure che corrono verso l’auto. Probabili venditori di fossili — che piacciono tanto agli occidental­i. Probabili ladri. «Fermati», dice Jo al marito. «Ma il marito parve decidere diversamen­te e la loro corsa onirica continuò».

Uno schianto. Uno dei due uomini è a terra. Quando arriverà alla magione di Richard e Dally, adagiato sui sedili poste

riori della macchina ormai intrisa di sangue, sarà morto. Com’è andato davvero l’incidente? È stato un incidente, o c’è altro?

Osborne stacca il racconto un attimo prima che possiamo vedere la verità. E ci immerge nella festa, dove nessuno si diverte veramente, dove tutti fingono qualcosa. Il paesaggio, vero protagonis­ta del romanzo, è animato da un’indole disperata e minacciosa. Fa troppo caldo, c’è troppa polvere, c’è troppo chiasso e ci sono troppe luci alla festa, c’è troppo buio e silenzio nel deserto. Il male è in agguato sempre. Non è un male che cresce, si gonfia e si rivela. È una condizione permanente, quasi sonnolenta. Ancora più pericolosa perché, se non esplode mai in tutta la sua potenza, non puoi vedere da dove arriva; e non puoi scappare.

Quando Jo e David arrivano alla festa con questo portato di morte nella macchina, Richard ha un solo pensiero: non fare trapelare la notizia, non farla apparire sui giornali. Non attirarsi le ire dei camerieri e di tutto il mondo marocchino appostato lì fuori. Il morto è bello, giovane, non ha documenti. Richard ordina che venga spostato in garage. La gente del posto al servizio di Richard veglia la salma. E adesso, che succederà? Un ragazzo è morto ed è stato caricato in macchina come un animale investito per strada. Chi era? È una vittima innocente della stupidità e del cinismo occidental­i, o è colpevole anche lui?

A Osborne non importa tanto la risoluzion­e del giallo. A Osborne importano i personaggi, i pozzi profondiss­imi in cui annegano le loro vite, la serie infinita di specchi che si sono sapienteme­nte costruiti negli anni per non vederli, quei pozzi, per dimenticar­e persino che esistono. Importano le parole, le frasi, le im

magini, che si gonfiano di latenti significat­i intimidato­ri per tutto il romanzo, latenti perché se tutto è giocato sul non detto fa molto più paura; ed è più vero.

Si corre verso il finale, come la macchina di David lanciata a tutta velocità con gli occhi acquosi di alcol, si girano le pagine una dopo l’altra per capire cos’è successo, anche, ma molto più perché questo romanzo ti si sottrae di continuo, gira la testa ogni volta che pensi che stai per guardarlo finalmente negli occhi, inchioda quando stai correndo, si sposta e scarta ogni giudizio, ogni certezza, ogni presa di posizione definitiva. Sei pieno di polvere e sabbia e ti chiedi cosa ne sarà di David, deportato in un viaggio nell’ignoto dal padre del ragazzo morto per espiare la sua colpa; cosa ne sarà di Jo, che quando David scompare sembra liberarsi; cosa pensano davvero gli ospiti della festa; e cosa farà davvero la gente del posto, dato che è stato ucciso uno di loro.

La grandiosit­à di Nella polvere sta anche nel non nominare i buoni e i cattivi. Nel farti cambiare continuame­nte opinione sui personaggi. Nell’insinuare in un romanzo malvagio un sentimento struggente di umanità, di compassion­e, di vicinanza che ti spiazza di continuo, perché non te l’aspetti. A chi possiamo implorare il perdono? «Chiedi alla polvere», direbbe John Fante. Chiedi alla «stanca gente polverosa, vecchia e prossima a diventare polvere essa stessa», direbbe Fante. Chiedi alla polvere che tutto vede e nulla concede di vedere, che impasta le pagine di questo romanzo e diventa viva, e tu fai parte del tutto che turbina e si placa, si solleva e si arresta.

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