Corriere della Sera - La Lettura
La fotografia non mente Dice Bioy Casares: la vita sì
Uscito nell’85, questo romanzo, come tutte le sue opere, mescola consapevolezza e allucinazione, sogno e veglia, apparenza e realtà. Fino a fondersi in una vicenda ricca di riferimenti più o meno velati alla storia argentina
Chi ama Bioy Casares sa che oltre a essere ossessionato dalla «parola esatta» era anche un collezionista di macchine fotografiche perché, esperto fotografo, per lui esisteva anche il clic esatto, quello che non poteva essere sostituito da nessun altro. Fotografare e scrivere erano le sue sole possibilità per fermare l’attimo e renderlo immortale. Dichiarò lui stesso che per innamorarsi di una donna doveva fotografarla, vederla attraverso «quel vetro», perché sulla realtà non bisogna mai fare affidamento: è sempre incline a spezzarsi. E per gli amori, anche quelli dei suoi personaggi che sono quasi tutti mancati, ci vuole prima di tutto l’illusione, quel lavorare artisticamente di fantasia per aggiungere (o riuscire a vedere) bellurie.
L’avventura di un fotografo a La Plata è un romanzo del 1985 nel quale uno scrittore aristocratico come Bioy, che rifugge i riferimenti alla politica argentina avendoli solo allusi, ammette che queste allusioni sono state sempre intenzionali.
Nicolasito Almanza è un giovane che viene mandato a fotografare i dintorni di Buenos Aires, e comincia da La Plata. Tranne il suo vecchio amico Mascardi, con il quale dividerà la stanza in una pensione, non conosce nessuno. O meglio, nel viaggio ha conosciuto la famiglia
Lombardo. Questo giovane, apparentemente ingenuo eroe, sembra nato per cadere nelle grinfie del maligno. Tutti lo mettono in guardia, ma lui, un po’ come il Meursault di Camus, ha una risposta ripetitiva: al «Fa lo stesso» contrappone il «Non so». E quel che non sa è se esiste davvero al mondo una persona della quale fidarsi, perché tutte quelle che lo circondano — uomini (quasi sempre più anziani di lui) e donne — possono essere trappole messe sulla sua strada da un destino malefico.
È plausibile chiedersi se abbia mai letto Flannery O’Connor, perché i suoi personaggi sembrano non concepire la possibilità di ritrovarsi per caso nella terra del demonio, sembrano invece proprio sceglierla, e con una certa nonchalance. Nelle opere di Bioy è sempre il demonio a prendere l’iniziativa. In questo romanzo si ha l’impressione che tutti siano pronti a divorare Almanza — il temibile Don Juan Lombardo (nome non casuale), le sue avvenenti figlie, addirittura il figlio scomparso (palese riferimento ai desaparecidos), l’amico di vecchia data (un poliziotto che lo indaga), la signora Carmen, proprietaria della pensione che come tutte le donne si innamora di lui.
circondano solo bocche pronte a mangiarlo vivo, anche quelle che sembrano aprirsi per metterlo in guardia da tutti. «Non so», dice il protagonista, ma potrebbe anche voler dire: non so se a volermi uccidere non sia piuttosto tu.
Qui tornano tutti i temi di Bioy: le cose diventano più tristi quando siamo costretti ad abbandonarle; gli interni sono spesso più affascinanti degli esterni (ci troviamo quasi sempre in stanze, ristoranti, studi fotografici, imprese di onoranze funebri). La morte si affaccia di continuo, e sempre sotto forma di sogno, illusione (pensiamo a L’invenzione di Morel). Sono sogni che si è coscienti di sognare, ma dai quali non ci si risveglia di propria volontà, perché sono prove di morte, agguati. E si possono fare anche da svegli, mentre si cammina per strada. Sono sogni che ammalano, minano. Non a caso, qui le strade non hanno mai nomi, sono identificate attraverso numeri. E sognare in questi labirinti dà l’impressione dell’afasia, del silenzio più imposto che scelto. Ma come nei sogni, si può camminare in una città e ritrovarsi nel cimitero di un’altra. Si sogna, pare dirci lo scrittore, perché l’anima si deve preparare alla vita dopo la morte. Noi non lo sappiamo, ma l’aldilà pullula di demòni che entrano nei nostri sogni. Demòni âgés, perché dopo Diario della guerra al maiale non ci sono dubbi: i vecchi si approfittano dei giovani perché capiscono che la vita sta finendo e devono vampirizzarne un po’. E per salvarsi? Una passione: l’arte. Tutto il resto è trappola; anche l’amore. Sarà allora la fotografia, l’insostituibile clic, a mettere a fuoco la via di fuga.