Corriere della Sera - La Lettura
Il giardino è un labirinto Tutti tradiscono Cechov
Abbiamo visto a Pompei il capolavoro del drammaturgo russo portato in scena da Tiago Rodrigues, prossimo direttore del Festival di Avignone, con Isabelle Huppert. Sembra piuttosto un «All that Jazz» di Bob Fosse
Dopo aver sostenuto il teatro d’avanguardia e avendo cercato di offrire, senza mai allontanarmene, elementi per una sua teoria, quando vidi Vestire gli ignudi di Giancarlo Sepe capii di aver perso vent’anni di vecchio teatro che vecchio non era. Il vecchio teatro è la regia critica di un testo drammaturgico, classico o appena uscito dal cassetto.
A proposito de Il giardino dei ciliegi visto nell’anfiteatro di Pompei per la «futuristica» regia del portoghese Tiago Rodrigues, prossimo direttore del Festival di Avignone, sono risalito con la memoria a quante volte avevo visto la commedia di Cechov. Ricordo in specie un Giardino dei ciliegi proveniente proprio dall’avanguardia, messo in scena da Antonello Aglioti, con la collaborazione di Memè Perlini. Da allora penso di averne viste molte edizioni, cinque solo dopo il Duemila. Ma in quel tempo di scoperta ero lontano dal prevedere quanto il teatro italiano stava cominciando a rinnegare sé stesso, a perdere ogni memoria culturale. Il repertorio si andava impoverendo, si riduceva a pochi nomi, pochissimi titoli. Oggi la presenza in cartellone di chissà quanti teatri e festival di due o tre nomi è ancora considerata di un qualche prestigio, se non una novità. Verso tali presenze non ho alcun risentimento ma ho dubbi sull’efficacia e la bontà di simili, ripetitive scelte.
Meglio allora tornare a Cechov e al suo Giardino, se un autore meno prevedibile non si può avere. Cechov in verità si può vedere all’infinito, non si finisce mai di scoprire, di capire. Resta cruciale la domanda: cos’è la fine (la fine della commedia), un mutamento o un compimento? La fine di cui parlo è peculiare, è la fine della bellezza. Sottolineando come da giovane ritenesse Il giardino dei ciliegi una commedia sulla fine (in senso lato) e come oggi, con gli occhi dell’adulto, la ritenga una commedia sul cambiamento, Tiago Rodrigues analizza il suo spettacolo e con la stessa precisione lo realizza.
Ma con forza irrevocabile gli si oppone il drammaturgo di cui intende illustrare il testo: che Lopachin, colui che fu figlio di servi e che arricchendosi può comprare un giardino gravato di debiti, e che la proprietaria Liubov e già ex proprietaria parli con lui, in qualità di pari, senza nascondere l’antico affetto, ciò non cancella il cambiamento che frattanto avviene. Ma nello spettacolo l’intenzione di regia è fin troppo vistosa. Sarebbe difficile sostenere che si tratta di un brutto spettacolo, c’è anche la luna piena che piano piano si leva da dietro le mura dell’anfiteatro e che si staglia lassù rubando l’immagine a chi l’ha creata qui, sul palcoscenico. C’è quella luna che sembra riassumere nella sua luce la bellezza che arriva e se ne va, tutto ciò che Cechov ha scritto morendo.
La commedia è del 1904, Cechov non avrebbe visto la rivoluzione dell’anno dopo, non avrebbe visto Lenin. Ciò che però vedeva era la fine del suo mondo: tranne Lopachin, tutti in scena piangono, chi per un motivo e chi per un altro, ma in buona sostanza perché i ciliegi stanno per cadere. Non c’è più la bellezza in cui sono vissuti. Il regista viene un secolo dopo e la sua eventuale idea di interpretazione (cioè di bellezza) in nulla corrisponde a Cechov. Interpretare è il compito dei registi. Ma fino a che punto si può tradire la lettera del testo?
Basterà osservare i costumi, primo tra gli altri il giallo e il verde di Liubov, Isabelle Huppert. Quei costumi sono irreali (e incongrui) rispetto a Cechov come ogni pop arte può esserlo di fronte alla sua malinconia. Se è pur vero che lo studente Trofimov dice a Lopachin di smetterla di gesticolare (siamo all’inizio del quarto atto, quando Lopachin è trionfante), nello spettacolo di Rodrigues tutti gesticolano, dal principio alla fine, gesticolano muovendosi sulla scena, traversandola, di continuo modificandola. E tutti sono sempre in scena, in un dramma che è pur sempre un dramma da camera, un dramma di silenzi, sussurri, esclamazioni le più brevi che si diano. Del resto, la violenza del regista va ben oltre un possibile rispetto: egli dissemina l’attenzione dello spettatore con quei movimenti in una scena troppo grande, lo fa anche con un incessante commento musicale, veri e propri intermezzi e rumori di fondo che di fondo non sono: Il giardino dei ciliegi di Rodrigues diventa un All that Jazz di Bob Fosse che è però un suo Cabaret sul cambiamento. Considerati ciascuno come un mondo a sé, gli attori sono ineccepibili, ma tutti insieme trasformano il giardino in un labirinto (emotivo); e perfino gli oggetti tradiscono Cechov: quelle cinquanta sedie sparse sulla scena, che poi vengono cumulate, sono un brutto correlato oggettivo, chissà, prima dei ciliegi, poi dei mobili di una casa che non c’è più e che quando si svuota lascia solo il servo Firs, Marcel Bozonnet, a dire (a riassumere il senso di ciò che abbiamo visto): «Ah, di me si sono dimenticati».