Corriere della Sera - La Lettura
Il colonialismo (sotto altre vesti) è ricominciato: le grandi imprese tecnologiche setacciano mercati. Non solo nel cosiddetto Sud
L’
India è stata una colonia inglese dal 1858 al 1947, ma il dominio britannico sul subcontinente asiatico iniziò molto prima. A partire dal 1612, quando la British East India Company, battuti i portoghesi e sfruttando la forza schiacciante dei trading post, gli avamposti commerciali che aveva costruito, cominciò ad attaccare le imprese indiane mettendole fuori gioco e appropriandosi dei traffici più importanti. Alla fine del Seicento la Compagnia britannica delle Indie era già monopolista in quella parte del mondo.
Amazon è entrata in India nel 2013 usando tecniche non troppo diverse: con la sua strategia avvolgente ha messo in difficoltà i negozi tradizionali, molti dei quali hanno reagito provando a trasferire i loro business online dove, però, sono stati battuti dalla compagnia di Jeff Bezos non solo per la sua superiorità tecnologica, ma anche perché aveva spalle finanziarie abbastanza robuste da sostenere politiche di riduzione dei prezzi considerate predatorie, finalizzate a emarginare la concorrenza.
Facebook in India ha seguito strategie simili per acquisire un ruolo da sostanziale monopolista senza lasciare spazio ai concorrenti in un Paese che, pure, ha un’industria informatica vivacissima, oltre che un mercato interno enorme e una cultura molto forte, profondamente diversa da quella americana, che avrebbe dovuto favorire le imprese locali. Free Basics, il servizio di connessione internet gratuito ma molto limitato offerto dall’azienda di Mark Zuckerberg e presentato come un regalo a decine di Paesi in via di sviluppo, è stato contestato e alla fine dichiarato addirittura illegale in India dall’autorità per le telecomunicazioni, che l’ha giudicato una forma di concorrenza sleale: entro nel mercato con un prodotto apparentemente gratuito (in realtà ricavando proventi dai dati raccolti) che offre servizi molto limitati, poco utili, e poi propongo agli utenti che ho attirato un servizio più vasto e soddisfacente, ma a pagamento: una politica di conquista del mercato che gli altri concorrenti, più piccoli, non sono in grado di contrastare.
L’India non diventerà di certo una colonia americana, ma Amazon, Facebook e altri giganti tecnologici statunitensi vengono considerati, nella grande nazione asiatica, ma anche in gran parte del Global South (le nazioni a basso reddito del Sud del mondo: Africa, America Latina, Asia centrale e meridionale) alla stregua della vecchia Compagnia delle Indie: i portabandiera di un nuovo colonialismo soft, culturale, commerciale e, soprattutto, digitale.
È il nuovo imperialismo dell’era segnata dalla scomparsa dei grandi imperi: prima, nel Novecento, la colonizzazione culturale guidata da Hollywood, dalla musi
ca anglosassone, dalla lingua inglese dominante ovunque dalla letteratura all’accademia; poi, dall’inizio del nuovo secolo, l’imperialismo digitale dei gruppi della Silicon Valley, ora sempre più spesso insidiato dai nuovi giganti tecnologici cinesi: Alibaba, Tencent, TikTok, Baidu...
In The Shadows of Empire, il libro che ha appena pubblicato nel mondo anglosassone, lo studioso britannico di origine indiana Samir Puri scrive che, anche se il mondo è entrato, una volta caduta l’Unione Sovietica, nel primo millennio della storia nel quale non ci sono imperi, le ombre dell’era imperiale continuano a pesare ovunque: dall’Afghanistan alla Crimea passando per i confini mediorientali disegnati a tavolino da cartografi e burocrati dell’Impero britannico. Sostiene Samir Puri — accademico con un passato di funzionario del Foreign Office e di consulente di premier britannici soprattutto in materia di terrorismo — che il dato più significativo è questo: tramontate le vecchie potenze coloniali, nel XXI secolo il mondo è dominato da due grandi nazioni che, a parole almeno, rifiutano ogni accostamento a logiche imperiali. In effetti Stati Uniti e Cina hanno tratto forza e legittimità interna dalla loro natura di comunità anti-imperiali: gli Usa sono nati dalla rivolta dei coloni americani contro l’Impero britannico, la Cina ha riacquistato forza reagendo all’umiliazione di un secolo di sottomissione dell’Impero di Mezzo al colonialismo di varie potenze occidentali.
Nonostante questo Stati Uniti e Cina hanno creato due «imperi informali»: l’America con il suo dominio culturale e, più di recente, digitale, oltre che con la forza della sua rete di basi militari, il dominio del dollaro, la potenza commerciale; la Cina diventando la fabbrica del mondo e sviluppando una strategia di cooperazione a fini di assistenza, ma anche di penetrazione commerciale e politica, quella della Belt and Road Initiative, la nuova Via della Seta, che promette di avere a livello internazionale un impatto economico dieci volte superiore a quello del piano Marshall lanciato dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale per aiutare (e legare a sé) i Paesi europei.
Per molto tempo il dominio culturale anglosassone del mondo è passato attraverso le immagini del cinema e della tv. Hollywood è stata il motore di questa macchina poderosa di soft power esportando valori, stili di vita, abitudini, perfino cibi. Il passaggio dai film epici all’era dei supereroi non ha scalfito questo predominio: Avengers, Rambo, Spider-Man, Iron Man, Wonder Woman, Capitan America, sono tutti eroi americani, ma sono divenuti popolari in molte parti del mondo, tanto che anche i Paesi che si sono dati una forte cinematografia nazionale per contrastare quella hollywoodiana — la Bollywood indiana, la Nollywood che da Lagos, in Nigeria, cerca di conquistare tutta l’Africa e, ora, la Chollywood cinese — hanno creato i loro supereroi.
Il caso più significativo è quello di Wolf Warrior 1e2: due film prodotti a Pechino nei quali l’eroe è un soldato delle forze speciali, una sorta di Rambo asiatico, che combatte contro mercenari stranieri assoldati da narcotrafficanti per ucciderlo. Il secondo della serie è il film cinese di maggiore successo di sempre nel Paese e il secondo per incassi a livello mondiale dopo Il risveglio
della Forza della saga di Star Wars, davanti a grandi successi planetari come Titanic e Avatar. Pesano, ovviamente, i giganteschi incassi cinesi. Ma Pechino ha distribuito questi film in tutto il mondo ed è riuscita a imporli con un certo successo in Paesi nei quali è diventata molto influente. Un’influenza sviluppata soprattutto con gli investimenti in opere pubbliche in Africa e in America Latina, nel Sud Est asiatico e perfino in Europa. Una penetrazione che ora il regime di Xi Jinping cerca di rafforzare con il soft power cinematografico e con lo sviluppo impetuoso di tecnologie digitali come quelle che hanno prodotto di TikTok. Operazione non facile, perché dietro le mani tese della Cina appaiono sempre più evidenti gli obiettivi di colonizzazione commerciale (per esempio nel caso della conquista dei giacimenti africani di materie prime), mentre spaventano le ambizioni neo-imperialiste di Xi, con l’espansionismo in tutta la regione del Mar Cinese meridionale e nel Sud Est asiatico. Per non parlare dei massicci investimenti in campo militare, ormai paragonabili a quelli degli Stati Uniti.
Il rapido sviluppo delle tecnologie digitali ha consentito alla Cina, che ha creato i grandi campioni nazionali appena elencati (salvo poi «mettere in naftalina» i geni digitali che li hanno costruiti come Jack Ma), di alzare il suo profilo anche sul terreno del colonialismo elettronico. Ma qui il peso principale lo hanno ancora i gruppi della Silicon Valley (e dintorni, visto che Amazon e Microsoft sono più a nord, a Seattle) con una penetrazione tanto forte quanto, a volte, impalpabile, nei campi più disparati: condizionamenti culturali, creazione di monopoli commerciali di fatto, introduzione della tecnologia blockchain con l’obiettivo di sviluppare il business delle criptovalute. Si tratta di esperimenti, per esempio come quello tentato da alcuni imprenditori innovativi e visionari che, dopo gli uragani Irma e Maria, hanno cercato di ricostruire un pezzo di Porto Rico creando una comunità criptolibertaria governata da leggi proprie denominata Puertopia. Ma si tratta anche di progetti più concreti, come i tentativi della società Iohk (fa capo a un cofondatore della piattaforma Ethereum) di diffondere le criptovalute del progetto open source Cardano in Paesi scossi da conflitti e forti tensioni, dall’Etiopia a El Salvador.
È ancora presto per capire se nascerà e come si svilupperà il cripto-colonialismo. Anche perché in questo momento il Paese più interessato allo sviluppo di valute digitali (non nella forma libertaria governata solo dalla
blockchain, ma in quella assai più controllata di uno yuan elettronico) è la Cina, sempre alla ricerca di nuove strade per smontare la sovranità monetaria del dollaro.
Oggi l’attenzione è ancora concentrata soprattutto sui gruppi americani accusati di diffondere forme di colonialismo commerciale e culturale nel Global South del mondo. In Sudafrica, ad esempio, viene denunciato il dominio schiacciante di Google e Facebook nel mercato della pubblicità in rete; Uber è divenuta talmente forte da provocare vere guerre dei taxi, anche con confronti violenti e lancio di ordigni rudimentali, in vari Paesi, dal Sudafrica al Kenya; Netflix non solo spiazza le reti televisive africane, ma compra a man bassa, forte di risorse finanziarie illimitate, i migliori contenuti giornalistici e di intrattenimento prodotti nel continente.
In realtà questi giganti americani non adottano comportamenti molto diversi in altre parti del mondo: Netflix invade i mercati europei mentre gli editori di tutti i Paesi, anche quelli industrializzati dell’Occidente, rischiano l’asfissia perché l’ossigeno della pubblicità viene assorbito da Google e Facebook. Ma in Africa il fenomeno è più estremo e gli effetti più devastanti, soprattutto per la fragilità del tessuto imprenditoriale. E il colonialismo, arrivato giuridicamente e politicamente al capolinea nei decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale, è ancora una presenza incombente, radicata non solo nei timori dei popoli del Sud del mondo. Basta vedere quello che è successo quando le authority di regolamentazione del mercato indiano hanno messo fuori legge, come abbiamo appena raccontato, il sistema Free Basics di Facebook, considerato un tentativo di aggirare le regole della concorrenza dando a Zuckerberg un vantaggio competitivo. Anziché analizzare il merito della decisione, Marc Andreessen, guru delle tecnologie, il personaggio più autorevole del mondo del venture capital e grande investitore nei maggiori gruppi digitali a partire proprio da Facebook, è andato sulle reti sociali (dove ha mezzo milione di follower) per denunciare quello che, secondo lui, sarebbe un episodio di corruzione di un ente di controllo indiano. Di più: Andreessen ha accusato il governo indiano di togliere internet ai poveri (che lo avevano ricevuto in regalo da Facebook) per poi concludere in modo esplosivo che «l’anti-colonialismo è stato catastrofico per il popolo indiano. Va avanti così da decenni, è ora di finirla».
L’onda di proteste, massiccia in India e poi diffusa in tutto il mondo, ha costretto Mark Zuckerberg a sconfessare il suo azionista e lo stesso Andreessen a scusarsi. Ma l’incidente rimane, con tutto il suo significato politico e culturale. Né la contestazione di Free Basics è un problema solo indiano: Facebook ha diffuso questo sistema apparentemente gratuito in 65 Paesi — dalla Colombia al Pakistan, dal Messico alle Filippine. Secondo molti analisti, però, i benefici sono stati pochi. In qualche caso gli effetti sono stati ritenuti addirittura nocivi. Il servizio ha offerto prevalentemente pochi dati delle
home page di siti e società quasi sempre americani, mentre nessun accesso, o quasi, è stato riservato alle reti locali e a contenuti in lingua non inglese. In Messico unica eccezione per Telcel del miliardario Carlos Slim.
Non torneremo nel mondo degli imperi, ma i critici dei comportamenti dei giganti di big tech nel Sud del mondo osservano che il ruolo di penetrazione giocato dalle ferrovie e dai traffici marittimi nell’era coloniale, oggi spetta alle infrastrutture digitali.