Corriere della Sera - La Lettura
L’internazionale jihadista nel Sahel
Non è sbagliato sostenere che è dalla fine del periodo coloniale, a seguito delle sconfitte della Seconda guerra mondiale, che l’esercito e la politica estera italiani non sono stati tanto attivi e presenti in Africa come negli ultimi mesi. Un’attenzione che si traduce in rafforzamento dei contingenti militari, impegno economico e sforzi diplomatici per operare di concerto con i partner europei e con gli Stati Uniti.
I soldati italiani nella nuova base in Niger saranno presto quasi 300, con 160 automezzi e almeno 5 aerei, cui si aggiungono i primi 12 militari giunti nel Mali come avanguardie dei prossimi presidi, e ancora i circa 150 in Somalia e 400 in Libia. Di particolare rilevanza nella lotta alla pirateria (e non solo) tra Mar Rosso, Golfo di Aden e Oceano Indiano, è il contingente italiano di stanza nel porto di Gibuti con 117 militari e 17 mezzi terrestri destinati a fare da appoggio alle navi della Marina.
Lo scenario che spinge il governo Draghi in questa direzione è complesso e carico d’incognite per la crescita di concorrenti diversi che vanno dalla montante presenza militare cinese, garantita da una formidabile potenza economica in continua espansione, a quella «muscolare» russa, puntellata dal sostegno a milizie mercenarie in grado di creare problemi. Ma soprattutto gravano le nubi nere dei gruppi legati all’estremismo islamista e alle colonne di Isis.
Tutto ciò va letto alla luce delle più violente crisi internazionali degli ultimi anni, potenzialmente capaci di stravolgere un buon numero di Paesi africani con ripercussioni per l’Europa e l’Italia. Le sconfitte del Califfato, che si sono consumate tra la battaglia di Mosul nell’estate
Il ruolo di Italia, Francia e Usa, le mire di Pechino e quelle russe. La battaglia sul fronte degli «Stati falliti»
2017 e quella di Raqqa e nelle regioni siriane vicine nel gennaio 2019, hanno visto il «trasloco» delle attività delle colonne di internazionalisti della jihad da Iraq e Siria agli «Stati falliti» in Africa. Non è un mistero che gli «orfani» di Abu Bakr al Baghdadi (ucciso dal blitz americano del 27 ottobre 2019 in Siria e tre giorni dopo rimpiazzato dal quarantacinquenne Abu Ibrahim al Hashimi) abbiano trovato rifugio nelle zone più destabilizzate dell’Africa subsahariana, che vanno dalla Mauritania al Mali fino al Burkina Faso, si allargano al Niger, approfittano della siccità attorno al lago Ciad per trovare adepti tra i disperati dei villaggi impoveriti, raggiungono il Sudan, minacciano il Congo settentrionale, competono con i jihadisti locali di Boko Haram in Nigeria, prosperano tra le milizie Shebab somale. Una realtà bellica aggressiva e militante.
Lo confermano le cronache dalla regione di Borno, Nigeria orientale, dove in maggio le nuove colonne di Isis arrivate dal Ciad avrebbero ucciso il leader storico del movimento fondamentalista Boko Haram, Abubakar Shekau. Il condizionale è necessario: la sua morte è stata annunciata molte volte negli ultimi anni, anche se ora pare certa. Ma il dato più preoccupante resta che Isis sta ricreando qui quella dimensione di Califfato territoriale che nel 2014 aveva cercato di instaurare tra Raqqa e Mosul.
A sottolineare l’urgenza è stata tra l’altro la scelta di Joe Biden a metà luglio, quando ha revocato la decisione, assunta appena dopo il suo insediamento alla Casa Bianca in gennaio, di sospendere i bombardamenti con i droni in Africa e invece utilizzarli contro Shebab in Somalia. I missili Usa hanno devastato i covi dei fondamentalisti nella città di Galkayo. La mossa è dettata anche dalle contingenze belliche. Fu infatti Donald Trump nelle ultime settimane della sua presidenza a volere il ridispiegamento tra Gibuti e Kenya dei 700 soldati americani che si trovavano in Somalia. Così, lo scenario somalo prefigura per alcuni versi ciò che avverrà presto in Afghanistan dopo il ritiro americano entro l’11 settembre: il massiccio ricorso all’aviazione e ai droni per cercare di fermare l’avanzata dei talebani e degli altri gruppi jihadisti.
Ma proprio le minacce che pesano sul futuro dell’Afghanistan aiutano a comprendere le grandi questioni sul tavolo degli eserciti Nato e dell’intera Unione europea in vista delle prossime missioni. Dove si è sbagliato? Come mai le truppe locali addestrate e armate dagli Alleati non paiono in grado di reggere all’offensiva talebana, come del resto quelle irachene nel 2014 non ressero da sole all’avanzata di Isis?
Sono domande cruciali, visto che tra i compiti dei contingenti italiani assieme ai partner Nato c’è proprio l’addestramento degli eserciti locali. I fallimenti di ieri devono servire da lezione. L’Africa preme sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Le guerre, la destabilizzazione sociale, il riscaldamento climatico, con il suo strascico di siccità e catastrofi ambientali, saranno tra i fattori che determineranno anche il flusso di migranti e il proliferare del jihadismo. Roma guarda a questo con preoccupazione.
Lo testimonia tra l’altro l‘attenzione con cui il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, considera quei teatri. «L’impegno italiano in Africa è un unicum: nel Sahel, nel Corno d’Africa, nel Golfo di Guinea e in Libia si decide la nostra sicurezza. Le conseguenze della crisi di questa grande area e la forte ripresa della minaccia terroristica jihadista si riflettono sul Mediterraneo e in Europa», ha dichiarato il 23 marzo, subito dopo il suo viaggio tra Somalia e Gibuti. «L’Italia intende rafforzare la sua presenza nel Sahel», ha ribadito due mesi dopo, visitando Mali e Niger. E nella sua audizione alla Camera, il 7 luglio, presentando le quaranta missioni militari all’estero, che al momento impiegano 6.500 effettivi (con un massimo autorizzato di 9.500), ha aggiunto che il futuro sarà focalizzato sull’Africa, con la necessità che Bruxelles «assicuri un’unica regia». Il messaggio è chiaro: l’Italia non può farcela da sola, occorre uno sforzo collettivo. Non sarà facile. Tra i tanti problemi permane quello della cooperazione con le forze francesi. Fu infatti Parigi nel 2014 a mandare nel Sahel per prima 5.100 uomini delle forze speciali: avrebbero condotto l’operazione Barkhane per bloccare le colonne islamiste che stavano per conquistare la capitale del Mali.
L’Italia dal 2020 ha deciso di contribuire con l’operazione Takuba, attiva da marzo tra Mali e Niger. Ma a metà giugno Emmanuel Macron ha annunciato l’intenzione di porre fine a Barkhane: troppi attentati, troppi morti tra i civili e tra gli stessi soldati francesi. Il loro ritiro sarebbe un grave colpo anche per gli italiani. Molti leggono nella mossa dell’Eliseo una strategia per premere affinché gli alleati, compresi i 1.100 soldati Usa nella regione, intensifichino la presenza. Un motivo in più per avere il comando unificato.