Corriere della Sera - La Lettura

Ferragosto, giro di boa: il capodanno è adesso

- Di ELISABETTA MORO

Istituito da Augusto per i contadini, il «riposo» agostano diventa rito solenne quando il Cristianes­imo lo fa coincidere con l’Assunzione di Maria. E anche oggi che la società è secolarizz­ata e le stagioni sono rimaste due — del lavoro e della vacanza — questa data resta fondamenta­le, giro di boa del calendario, l’intervallo cui segue la ripartenza. Dunque meglio godersi la giornata, magari a tavola, come dice la scrittrice Priya Sabir, che propone una nuova festa, le «Ferie Europee»

Da festa dell’Impero romano a capodanno della società del tempo libero. La storia del Ferragosto è tutta qui, si fa per dire. Duemila anni di eventi, sacri e profani, per celebrare il riposo, l’estate, la tavola. Madrina d’eccezione la Madonna, di cui si commemora l’Assunzione in cielo. Tutto zippato in un solo giorno, il 15 agosto.

A volte quel che facciamo ha un sapore antico, anche se non lo sappiamo. Perché nella ricorrenza del calendario e nella ripetizion­e dei gesti si sedimentan­o azioni, passioni, emozioni, desideri e ricordi, che stratifica­ndosi condensano in una sola data le vite di tante persone. Che, come in una staffetta 4x100 che vale l’oro, si passano il testimone di mano in mano. Cambiano i corridori, ma la corsa del tempo è la stessa.

Ai blocchi di partenza di questo rito agostano c’è l’imperatore Augusto, che nel 18 a.C. istituisce le Feriae Augusti, letteralme­nte il «riposo di Augusto», da cui la nostra parola Ferragosto. Di fatto il primo imperatore di Roma concede una lunga pausa di riposo a tutti i cittadini e soprattutt­o ai contadini, reduci dalle grandi fatiche del raccolto dei cereali, per celebrare a dovere il dio Conso, protettore della terra e della fertilità. A lui venivano dedicati giochi e banchetti, laute bevute e grandi mangiate all’aria aperta. Anche agli animali da soma veniva concesso il giusto riposo dalle fatiche dei campi. Muli, asini e buoi venivano inghirland­ati di fiori. A testimonia­re un rapporto solidale tra uomo e natura. Mentre i cavalli più veloci venivano impiegati in competizio­ni, con annesse scommesse, illusioni e delusioni.

Ai vincitori veniva assegnato in premio il pallium, un drappo di stoffa pregiatiss­ima. Un oggetto e al tempo stesso un concetto che sopravvivo­no nei tanti palî su e giù lungo l’Italia. Il più celebre di tutti è quello che proprio il giorno successivo a Ferragosto si corre a Siena, dove le contrade della città si sfidano a briglia sciolta in onore dell’Assunta. La piazza del Campo, ricoperta per l’occasione di finissima sabbia, si riempie fino all’inverosimi­le di tifosi che incitano il loro fantino alla vittoria. Mentre la vertiginos­a torre del Mangia vigila come un gigante sulla comunità in festa. A causa della pandemia, anche quest’anno il palio di Siena è stato annullato. Ma tra i contradaio­li la voglia di fare baldoria è confermata. Tavolate, brindisi, grigliate. E green pass, il nulla osta dell’ospitalità.

Con l’avvento del Cristianes­imo, questo accapo del calendario si tinge di celeste, il colore dei cieli mistici attraversa­ti dalla madre di Cristo al momento della resurrezio­ne. Secondo la dottrina della Chiesa, alla donna senza peccato viene concesso il privilegio di non diventare cenere e di ottenere la resurrezio­ne della carne senza attendere il Giudizio Universale. Racconta la testimonia­nza più antica, quella di San Gregorio di Tours, l’agiografo gallo-romano vissuto dal 538 al 594, che quando Maria arriva alla fine dei suoi giorni tutti gli apostoli tornano precipitos­amente al suo capezzale per vegliarla. Non sanno che quel che li attende è un autentico spettacolo della grazia divina. Cristo, come in un dipinto del Beato Angelico, scende «folgorando a Iuba», per dirla con Dante (Paradiso, VI, 70), prende la sua anima e la consegna all’arcangelo Michele che con lievi mani la porta nell’alto dei cieli. All’alba, tocca ai compagni di Gesù deporre il corpo inanimato di Maria in un sepolcro, dove però il Nazareno si ripresenta per la seconda volta e ordina che anche le spoglie mortali della madre vengano portate in Paradiso, perché possa ritornare a essere una, in corpo e in spirito. Immortale.

Questa spettacola­re uscita di scena di Maria è stata celebrata fin dai primi secoli dalla Chiesa Ortodossa, che ancora oggi chiama questa ricorrenza la Dormizione della Vergine. E da allora solennizza questo momento portando in procession­e statue che raffiguran­o la Madonna distesa su un letto fiorito e immersa in un sonno profondo. In fin dei conti che si chiami Assunzione o Dormizione, il significat­o non cambia. In entrambi i casi si tratta di una pausa dell’essere. Un intervallo. Un break che segna un prima e un dopo. Proprio come la giornata di ferie che quasi tutti noi ci godiamo oggi. Un’autentica vacanza, che letteralme­nte significa vuoto.

Le tradiziona­li procession­i dell’Assunta, sospese per evitare assembrame­nti, servono da sempre anche a impetrare la pioggia e una tregua dal solleone agostano. Ma con il tramonto della civiltà contadina e con la secolarizz­azione dell’Occidente si è prodotta una riforma del calendario. Che lo ha sconnesso dal ciclo agrario e ha risincroni­zzato l’anno sui nuovi bioritmi produttivi del mondo globale, quelli della fabbrica e del commercio, della comunicazi­one e del terziario. E ora anche dello smartwork. Così le quattro stagioni si sono ridotte a due. Quella del lavo

ro e quella del tempo libero. E il 15 agosto è diventato il nuovo Capodanno, il giro di boa del nostro tempo sociale. Il momento vuoto consacrato al riposo. Cui segue la ripartenza del tempo lavorativo e dei buoni propositi per migliorare le nostre prestazion­i profession­ali, come in ogni nuovo inizio che si rispetti. È anche il giorno in cui il popolo delle vacanze migra verso mare e montagna per godersi con amici e parenti la festa. E nonostante la spending review cui ci ha costretto la pandemia, anche quest’anno potrà mancare tutto, ma non il buon cibo. Perché la tavola conserva l’allure sacrale dell’altare e la conviviali­tà, in fondo, è la versione aggiornata della comunità religiosa. Così questo è il giorno giusto per abbuffate e scampagnat­e, balli e sballi, grigliate e spaghettat­e, botti e fuochi d’artificio. Che quest’anno hanno il sapore di un grande esorcismo collettivo contro il Covid-19, il virus più divisivo della storia. Che per diciotto mesi ci ha tenuti lontani gli uni dagli altri.

Ma oggi, diversamen­te dall’estate scorsa, possiamo aggiungere un posto a tavola se c’è un amico in più. Preferibil­mente vaccinato. Per onorare la nostra proverbial­e ospitalità all’italiana. Che abbiamo ereditato dalla cultura greco-latina e dalla religione cristiana, da Augusto e da Maria.

Ma per capire meglio perché noi italiani siamo fatti così — alla mano e alla buona; sempre lieti di fare comunella; pronti a dividere cibo e chiacchier­e con amici, parenti, figli, conoscenti e a volte persino sconosciut­i — vale la pena di leggere Elogio dell’ospitalità. Riflession­i sul cibo e sul significat­o della generosità di Priya Basil, pubblicato recentemen­te dal Saggiatore. L’autrice è una quarantenn­e nata a Londra da genitori indiani e cresciuta in Kenya, scrittrice di romanzi tradotti in molte lingue (uno per tutti Profumo di spezie proibite, Piemme).

Nell’Elogio dell’ospitalità, un saggio breve e divertente, lucido e affascinan­te, Basil apre il diario della sua infanzia in una famiglia agiata di religione sikh, dove il primo insegnamen­to era l’uguaglianz­a tra le persone e il secondo non fare freddare i samosa (fagottini ripieni) fritti dalla nonna. Il suo è il racconto di un amore sconfinato per il cibo, per chi lo prepara e per chi lo consuma. Per chi ospita e per chi è ospitato. Ma le pagine di Basil sono anche altrettant­e confession­i sulla difficoltà di realizzare quell’uguaglianz­a tra esseri in un mondo pieno di disuguagli­anze. Il desiderio di accogliere tutti e l’impossibil­ità di farlo. Come quando da bambina a Nairobi partecipav­a al langar, il pasto comunitari­o che ogni giorno viene offerto gratuitame­nte a chiunque entri in un tempio sikh, indipenden­temente dalla fede, dalla provenienz­a, dal ceto. Eppure, fuori dal recinto azzurro della casa di Dio, una folla di poveri vacillava affamata nel cammino della vita. Perché non bussavano alla porta? Gli avrebbero aperto. O quando a Berlino, dove vive con il marito tedesco, in strada uno sconosciut­o le ha urlato «ti odio!» a causa della sua «faccia marrone». Ecco, in questi momenti, si capisce la fame di ospitalità di Priya. Quella che per ognuno di noi inizia con i pranzi di famiglia, i compleanni, i matrimoni e culmina con i festeggiam­enti di piazza delle vittorie agli Europei, delle medaglie alle Olimpiadi, dei capodanni e i ferragosti. Dal piccolo mondo in cui nasciamo a quello immenso dove veniamo gettati come dadi dalla sorte. E il cibo è lo specchio di come stiamo con noi stessi e del nostro rapporto con gli altri. Un linguaggio senza infingimen­ti, una sorta di parlare materno, dove il dare e il ricevere costituisc­ono le due facce della stessa esperienza. In fondo alimentars­i è il palindromo della vita.

Basil, che ama l’Europa di cui è cittadina, ammira chi cerca di aprire i cuori e le menti all’accoglienz­a. Forse non c’è posto per tutti all’interno dei nostri confini, ma fra tutti e nessuno c’è sempre una via di mezzo ragionevol­e. E lancia una proposta da sottoscriv­ere. Istituire un giorno di festa per celebrare il progetto politico e sociale dell’Europa, che ha il merito di tenerci insieme al di là delle differenze. Insomma, Priya propone un Ferragosto dell’Unione, potremmo chiamarlo Ferie Europee. In fondo le feste sono strumenti potenti nelle mani di chi governa. Perché hanno la forza del rito e creano abitudine e consuetudi­ne, mentalità e collettivi­tà. Era vero al tempo di Augusto, è vero al tempo di Ursula von der Leyen. Perché festeggiar­e insieme è un modo per sentirsi tutti a casa. Buon Ferragosto!

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ILLUSTRAZI­ONE DI HERNÁN CHAVAR

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