Corriere della Sera - La Lettura
Ferragosto, giro di boa: il capodanno è adesso
Istituito da Augusto per i contadini, il «riposo» agostano diventa rito solenne quando il Cristianesimo lo fa coincidere con l’Assunzione di Maria. E anche oggi che la società è secolarizzata e le stagioni sono rimaste due — del lavoro e della vacanza — questa data resta fondamentale, giro di boa del calendario, l’intervallo cui segue la ripartenza. Dunque meglio godersi la giornata, magari a tavola, come dice la scrittrice Priya Sabir, che propone una nuova festa, le «Ferie Europee»
Da festa dell’Impero romano a capodanno della società del tempo libero. La storia del Ferragosto è tutta qui, si fa per dire. Duemila anni di eventi, sacri e profani, per celebrare il riposo, l’estate, la tavola. Madrina d’eccezione la Madonna, di cui si commemora l’Assunzione in cielo. Tutto zippato in un solo giorno, il 15 agosto.
A volte quel che facciamo ha un sapore antico, anche se non lo sappiamo. Perché nella ricorrenza del calendario e nella ripetizione dei gesti si sedimentano azioni, passioni, emozioni, desideri e ricordi, che stratificandosi condensano in una sola data le vite di tante persone. Che, come in una staffetta 4x100 che vale l’oro, si passano il testimone di mano in mano. Cambiano i corridori, ma la corsa del tempo è la stessa.
Ai blocchi di partenza di questo rito agostano c’è l’imperatore Augusto, che nel 18 a.C. istituisce le Feriae Augusti, letteralmente il «riposo di Augusto», da cui la nostra parola Ferragosto. Di fatto il primo imperatore di Roma concede una lunga pausa di riposo a tutti i cittadini e soprattutto ai contadini, reduci dalle grandi fatiche del raccolto dei cereali, per celebrare a dovere il dio Conso, protettore della terra e della fertilità. A lui venivano dedicati giochi e banchetti, laute bevute e grandi mangiate all’aria aperta. Anche agli animali da soma veniva concesso il giusto riposo dalle fatiche dei campi. Muli, asini e buoi venivano inghirlandati di fiori. A testimoniare un rapporto solidale tra uomo e natura. Mentre i cavalli più veloci venivano impiegati in competizioni, con annesse scommesse, illusioni e delusioni.
Ai vincitori veniva assegnato in premio il pallium, un drappo di stoffa pregiatissima. Un oggetto e al tempo stesso un concetto che sopravvivono nei tanti palî su e giù lungo l’Italia. Il più celebre di tutti è quello che proprio il giorno successivo a Ferragosto si corre a Siena, dove le contrade della città si sfidano a briglia sciolta in onore dell’Assunta. La piazza del Campo, ricoperta per l’occasione di finissima sabbia, si riempie fino all’inverosimile di tifosi che incitano il loro fantino alla vittoria. Mentre la vertiginosa torre del Mangia vigila come un gigante sulla comunità in festa. A causa della pandemia, anche quest’anno il palio di Siena è stato annullato. Ma tra i contradaioli la voglia di fare baldoria è confermata. Tavolate, brindisi, grigliate. E green pass, il nulla osta dell’ospitalità.
Con l’avvento del Cristianesimo, questo accapo del calendario si tinge di celeste, il colore dei cieli mistici attraversati dalla madre di Cristo al momento della resurrezione. Secondo la dottrina della Chiesa, alla donna senza peccato viene concesso il privilegio di non diventare cenere e di ottenere la resurrezione della carne senza attendere il Giudizio Universale. Racconta la testimonianza più antica, quella di San Gregorio di Tours, l’agiografo gallo-romano vissuto dal 538 al 594, che quando Maria arriva alla fine dei suoi giorni tutti gli apostoli tornano precipitosamente al suo capezzale per vegliarla. Non sanno che quel che li attende è un autentico spettacolo della grazia divina. Cristo, come in un dipinto del Beato Angelico, scende «folgorando a Iuba», per dirla con Dante (Paradiso, VI, 70), prende la sua anima e la consegna all’arcangelo Michele che con lievi mani la porta nell’alto dei cieli. All’alba, tocca ai compagni di Gesù deporre il corpo inanimato di Maria in un sepolcro, dove però il Nazareno si ripresenta per la seconda volta e ordina che anche le spoglie mortali della madre vengano portate in Paradiso, perché possa ritornare a essere una, in corpo e in spirito. Immortale.
Questa spettacolare uscita di scena di Maria è stata celebrata fin dai primi secoli dalla Chiesa Ortodossa, che ancora oggi chiama questa ricorrenza la Dormizione della Vergine. E da allora solennizza questo momento portando in processione statue che raffigurano la Madonna distesa su un letto fiorito e immersa in un sonno profondo. In fin dei conti che si chiami Assunzione o Dormizione, il significato non cambia. In entrambi i casi si tratta di una pausa dell’essere. Un intervallo. Un break che segna un prima e un dopo. Proprio come la giornata di ferie che quasi tutti noi ci godiamo oggi. Un’autentica vacanza, che letteralmente significa vuoto.
Le tradizionali processioni dell’Assunta, sospese per evitare assembramenti, servono da sempre anche a impetrare la pioggia e una tregua dal solleone agostano. Ma con il tramonto della civiltà contadina e con la secolarizzazione dell’Occidente si è prodotta una riforma del calendario. Che lo ha sconnesso dal ciclo agrario e ha risincronizzato l’anno sui nuovi bioritmi produttivi del mondo globale, quelli della fabbrica e del commercio, della comunicazione e del terziario. E ora anche dello smartwork. Così le quattro stagioni si sono ridotte a due. Quella del lavo
ro e quella del tempo libero. E il 15 agosto è diventato il nuovo Capodanno, il giro di boa del nostro tempo sociale. Il momento vuoto consacrato al riposo. Cui segue la ripartenza del tempo lavorativo e dei buoni propositi per migliorare le nostre prestazioni professionali, come in ogni nuovo inizio che si rispetti. È anche il giorno in cui il popolo delle vacanze migra verso mare e montagna per godersi con amici e parenti la festa. E nonostante la spending review cui ci ha costretto la pandemia, anche quest’anno potrà mancare tutto, ma non il buon cibo. Perché la tavola conserva l’allure sacrale dell’altare e la convivialità, in fondo, è la versione aggiornata della comunità religiosa. Così questo è il giorno giusto per abbuffate e scampagnate, balli e sballi, grigliate e spaghettate, botti e fuochi d’artificio. Che quest’anno hanno il sapore di un grande esorcismo collettivo contro il Covid-19, il virus più divisivo della storia. Che per diciotto mesi ci ha tenuti lontani gli uni dagli altri.
Ma oggi, diversamente dall’estate scorsa, possiamo aggiungere un posto a tavola se c’è un amico in più. Preferibilmente vaccinato. Per onorare la nostra proverbiale ospitalità all’italiana. Che abbiamo ereditato dalla cultura greco-latina e dalla religione cristiana, da Augusto e da Maria.
Ma per capire meglio perché noi italiani siamo fatti così — alla mano e alla buona; sempre lieti di fare comunella; pronti a dividere cibo e chiacchiere con amici, parenti, figli, conoscenti e a volte persino sconosciuti — vale la pena di leggere Elogio dell’ospitalità. Riflessioni sul cibo e sul significato della generosità di Priya Basil, pubblicato recentemente dal Saggiatore. L’autrice è una quarantenne nata a Londra da genitori indiani e cresciuta in Kenya, scrittrice di romanzi tradotti in molte lingue (uno per tutti Profumo di spezie proibite, Piemme).
Nell’Elogio dell’ospitalità, un saggio breve e divertente, lucido e affascinante, Basil apre il diario della sua infanzia in una famiglia agiata di religione sikh, dove il primo insegnamento era l’uguaglianza tra le persone e il secondo non fare freddare i samosa (fagottini ripieni) fritti dalla nonna. Il suo è il racconto di un amore sconfinato per il cibo, per chi lo prepara e per chi lo consuma. Per chi ospita e per chi è ospitato. Ma le pagine di Basil sono anche altrettante confessioni sulla difficoltà di realizzare quell’uguaglianza tra esseri in un mondo pieno di disuguaglianze. Il desiderio di accogliere tutti e l’impossibilità di farlo. Come quando da bambina a Nairobi partecipava al langar, il pasto comunitario che ogni giorno viene offerto gratuitamente a chiunque entri in un tempio sikh, indipendentemente dalla fede, dalla provenienza, dal ceto. Eppure, fuori dal recinto azzurro della casa di Dio, una folla di poveri vacillava affamata nel cammino della vita. Perché non bussavano alla porta? Gli avrebbero aperto. O quando a Berlino, dove vive con il marito tedesco, in strada uno sconosciuto le ha urlato «ti odio!» a causa della sua «faccia marrone». Ecco, in questi momenti, si capisce la fame di ospitalità di Priya. Quella che per ognuno di noi inizia con i pranzi di famiglia, i compleanni, i matrimoni e culmina con i festeggiamenti di piazza delle vittorie agli Europei, delle medaglie alle Olimpiadi, dei capodanni e i ferragosti. Dal piccolo mondo in cui nasciamo a quello immenso dove veniamo gettati come dadi dalla sorte. E il cibo è lo specchio di come stiamo con noi stessi e del nostro rapporto con gli altri. Un linguaggio senza infingimenti, una sorta di parlare materno, dove il dare e il ricevere costituiscono le due facce della stessa esperienza. In fondo alimentarsi è il palindromo della vita.
Basil, che ama l’Europa di cui è cittadina, ammira chi cerca di aprire i cuori e le menti all’accoglienza. Forse non c’è posto per tutti all’interno dei nostri confini, ma fra tutti e nessuno c’è sempre una via di mezzo ragionevole. E lancia una proposta da sottoscrivere. Istituire un giorno di festa per celebrare il progetto politico e sociale dell’Europa, che ha il merito di tenerci insieme al di là delle differenze. Insomma, Priya propone un Ferragosto dell’Unione, potremmo chiamarlo Ferie Europee. In fondo le feste sono strumenti potenti nelle mani di chi governa. Perché hanno la forza del rito e creano abitudine e consuetudine, mentalità e collettività. Era vero al tempo di Augusto, è vero al tempo di Ursula von der Leyen. Perché festeggiare insieme è un modo per sentirsi tutti a casa. Buon Ferragosto!