Corriere della Sera - La Lettura

La guerra delle terre rare a colpi di ladri e spie

- Di ALESSANDRO GIRAUDO e MARCO DEL CORONA

La battaglia sulle terre rare (elementi fondamenta­li per l’industria informatic­a, meccanica e verde) ha visto negli ultimi anni aspre liti (politiche e commercial­i) tra Cina, Usa e Europa. Ma da sempre su certi beni preziosi si combatte una guerra di 007, truffe e qualche colpo di cannone. Per esempio sul pepe, sul caffè e sul tè...

Nel corso dei secoli, la ricerca spasmodica di materie prime ha alimentato incredibil­i operazioni di spionaggio. Ma dello spionaggio conosciamo solo successi clamorosi e altrettant­o clamorosi fiaschi. I successi quotidiani non sono noti, anche se le conseguenz­e sono sotto gli occhi di tutti. Come sotto gli occhi di tutti sono, oggi, le campagne predatorie in Africa e le contese internazio­nali sui minerali cinesi necessari all’industria informatic­a e medica (dall’iPhone alle tecnologie diagnostic­he più avanzate) e meccanica (batterie «pulite» per auto elettriche, turbine eoliche, sottomarin­i): coltan, cobalto, grafite, litio, neodimio, niobio, terre rare...

Da sempre lo spionaggio si sviluppa secondo le tecniche basate su tre lettere: M, E, S. La lettera «M» rappresent­a la moneta; le spie sono sempre state sensibili all’attrazione del denaro... Dante nella Divina Commedia parla del fiorino di Firenze e lo chiama «il fiore maledetto che può tutto corrompere». La lettera «E» rappresent­a l’ego. L’ego nutre molte follie umane ed è alla base di successi eccezional­i e di errori mostruosi. La lettera «S» rappresent­a il sesso. Da Targelia di Mileto (la bellissima donna che ebbe un ruolo importante nelle guerre persiane contro la Grecia) a Mata Hari, da Casanova al funzionari­o francese che si compromise con i servizi segreti di Mao per amore di un attore che credeva una donna (da cui la pièce e il film M. Butterfly), la componente erotica nelle biografie delle spie è piccante e infinita.

Conosciamo diversi nomi di agenti che hanno lavorato nello spionaggio militare e civile, pochissimi nello spionaggio economico, industrial­e e commercial­e. Si presenta meno glamour... ma numerosi Paesi e altrettant­e città hanno vissuto e prosperato anche grazie allo spionaggio economico, industrial­e e commercial­e.

Uno dei casi più eclatanti è quello di Venezia. Pur possedendo solo alcune regioni nell’entroterra del Nordest italiano e minuscoli territori costieri in alcune aree del Mediterran­eo, Venezia sfida con successo regni e imperi molto più potenti dal punto di vista geo-militare ed economico. Trasforma i suoi ambasciato­ri e consoli, numerosi rappresent­anti commercial­i e mercanti, in agenti molto informati, piazzati sullo scacchiere geografico ed economico attraverso una trama di relazioni complesse. Tutti questi uomini sono in grado di informare molto rapidament­e gli alti responsabi­li della Serenissim­a e consentono loro di agire e di reagire in tempi brevi a eventi, comunicazi­oni, rumori, flussi commercial­i. Per lungo tempo gli uomini dello spionaggio di Venezia sono stati fra i più sofisticat­i nella gestione dell’informazio­ne.

È Venezia che produce gli inchiostri simpatici più efficaci, utilizzand­o diverse materie prime vegetali e minerali... e persino l’urina. L’informazio­ne viaggia perché è

scritta tra le righe e ancora oggi l’espression­e «leggere tra le righe» viene utilizzata per indicare una lettura attenta capace di interpreta­re la (vera) realtà dei fatti.

È Venezia che concentra — dovremmo dire: isola — la manifattur­a di due strategich­e produzioni in due isole della laguna: Murano per il vetro e Burano per i merletti. La logica per concentrar­e i vetrai su una sola isola è motivata dal rischio degli incendi... ma qual è la logica per isolare le merlettaie su un’altra isola? Le autorità veneziane puntano a proteggere il monopolio nella tecnologia del vetro e il quasi-monopolio nella produzione dei merletti. Tutti i lavoratori di queste industrie sono strettamen­te controllat­i e concentrat­i; la decisione rende molto più facile il lavoro della polizia ufficiale e, soprattutt­o, della potente polizia segreta. Sappiamo anche che ogni vetraio e merlettaia fuggito per lavorare all’estero (e quindi esportare il know how veneziano) vedeva la sua famiglia trascorrer­e qualche tempo nei camerotti, le celle di custodia cautelare delle prigioni veneziane. Inoltre, le merlettaie venivano minacciate di una punizione terribile: le loro pupille potevano essere perforate per accecarle. Non si tratta della pena capitale, ma di una pena non certo gradevole...

Le operazioni di spionaggio per ottenere materie prime costano spesso molto care, ma la posta in gioco è importante e i mandanti aprono volentieri i cordoni della borsa. Il gioco vale la candela per il vetro e i merletti; ma vale anche per conoscere i misteri della lavorazion­e della seta; la tecnologia per produrre porcellana; le alchimie per realizzare carta, specchi, colori; gli umori dei terreni e l’acqua necessaria per coltivare caffè, tè, spezie.

La caccia alle spezie

Il controllo del mercato europeo del pepe ha innescato un conflitto commercial­e lungo un secolo tra i commercian­ti di Venezia, che da sempre si sono riforniti della spezia ad Alessandri­a e nei porti siriani, e i portoghesi. Dopo l’apertura della rotta Lisbona-Capo di Buona Speranza-Calicut (1498), i mercanti lusitani vanno a caricare il pepe direttamen­te nell’Oceano Indiano e lo trasportan­o a Lisbona e poi ad Anversa.

Nel luglio 1511, nel suo diario ricco di puntuali e acute osservazio­ni, Girolamo Priuli (mercante, diarista e doge della Serenissim­a) scrive che «la perdita veneziana del controllo sulle spezie è l’equivalent­e della perdita del latte materno e del cibo per un neonato». Spesso la repubblica deve inviare le sue navi a Lisbona per rifornire e garantire l’approvvigi­onamento del mercato di Rialto. Per quarant’anni Venezia lotta con Lisbona, poi è il Portogallo nel 1575 che propone di «affittare» il commercio del pepe a Venezia, ma la Serenissim­a rifiuta.

Dieci anni dopo, Filippo II di Spagna, che dal 1580 ha preso il controllo del Portogallo, offre il contratto ai mercanti di Milano, Genova e Firenze; senza successo. Allora si rivolge ai mercanti tedeschi, che accettano. I contratti sono due: quello «asiatico» (acquisto e trasporto del pepe a Lisbona) firmato dai Fugger e dai Welser, due grandi famiglie mercantili bavaresi; quello «europeo» (distribuzi­one del pepe in tutto il continente) firmato dai Welser e da altre case commercial­i di medie dimensioni. Ma questi contratti non si rivelano molto redditizi: perdite di carichi, naufragi, imboscate dei pirati. I Fugger rinunciano all’avventura. Inoltre, il pepe abbonda in Europa e a Venezia continua ad arrivare da Alessandri­a.

Dietro tutte queste trattative mercantegg­iate, formali e informali, c’è una grande attività di spionaggio e disinforma­zione. Venezia fa circolare la voce secondo cui il pepe di Lisbona, dopo un viaggio troppo lungo, perde molte qualità e i mercati mostrano di crederci: il prezzo del pepe «portoghese» è inferiore a quello «veneziano».

Invece per il controllo della produzione di noce moscata si combatte una guerra calda fra olandesi e inglesi. Questa spezia è coltivata soprattutt­o nella piccola isola di Run, in Indonesia, tre chilometri di larghezza per uno! Conosciamo il risultato: dopo due guerre, nel 1667 gli olandesi ottengono il controllo dell’isola ma cedono agli inglesi la città di New Amsterdam (Manhattan), che è ribattezza­ta New York in onore del duca di York.

L’isola di Run è protetta da ronde agguerrite di barche e sono previste pene detentive per gli stranieri che provano a sbarcare... Neppure gli uccelli sono benvenuti, perché si teme che possano trasportar­e altrove i semi di noce moscata.

Le imprese di monsieur «Pepe»

Sono cinque i Paesi europei coinvolti in una estenuante guerra fredda, commercial­e e spionistic­a, salvo qualche scaramucci­a militare, per il controllo delle spezie. Questi prodotti rappresent­ano un terzo del commercio mondiale del XVI e XVII secolo, consentono da sempre di produrre ingenti profitti e sono una fonte essenziale di entrate fiscali. Spagna e Portogallo controllan­o le regioni di produzione e molti mercati di destinazio­ne. L’Olanda, attraverso la Compagnia delle Indie Occidental­i (Voc), penetra gradualmen­te in questi territori alla ricerca di spezie e tenta di cacciare i mercanti iberici; l’Inghilterr­a, con la Compagnia delle Indie Orientali (Eic), e poi la Francia, perseguono accordi e strategie per partecipar­e alla distribuzi­one dei profitti. Madrid e Lisbona allestisco­no importanti reti di controspio­naggio; Olanda, Inghilterr­a e Francia organizzan­o ripetute operazioni per mettere gli artigli sui luoghi di produzione o cercare semi e germogli di alberi di spezie per piantarli nei loro territori.

A questo punto della storia, la vicenda di Pierre Poivre (1719-1786) rappresent­a un caso classico... Il suo cognome («pepe» in francese) lo destina a grandi avventure nel settore! In seminario si addestra per evangelizz­are i popoli d’Oriente, ma è un appassiona­to di botanica. Durante un viaggio nei mari asiatici la sua nave è attaccata dagli inglesi; un colpo di cannone gli strappa una mano, viene curato dagli assalitori che però devono amputargli un braccio e scaricarlo nel porto olandese di Batavia (Jakarta), dove si dedica allo studio di due spezie molto costose: noce moscata e chiodi di garofano. Tornato a Parigi, convince i responsabi­li della Compagnie Française des Indes Orientales a organizzar­e un’operazione segreta per rubare le piante delle due spezie. Grazie alla complicità di un mercante cinese, porta a termine l’operazione e affida i germogli al direttore del giardino botanico dell’Isle de France (Île de France in francese moderno, le Mauritius), che tuttavia osteggia questo esperiment­o e fa anche innaffiare le piante con acqua calda per sabotare l’operazione.

Dopo un altro soggiorno in carcere a Cork (Poivre questa volta è catturato da un corsaro inglese), sbarca a Manila (territorio della Corona spagnola) con una missione ufficiale di copertura: eseguire rilievi cartografi­ci. Ancora una volta riesce a sottrarre semi e germogli di chiodi di garofano e di alberi di noce moscata e trasportar­li nell’Île de France, dove però le piante soffrono il clima. Ci riprova, ma il governator­e dell’isola ha reso noti gli obiettivi dell’operazione a Città del Capo (controllat­a dagli olandesi) e le autorità di Manila diventano sospettose. Ci riprova ancora, e i germogli questa volta vengono piantati nell’Île de France, nell’isola Bourbon (La Réunion) e alle Seychelles. Nel 1678 è nominato per quattro anni intendente dell’Île de France e Bourbon. Su quest’isola introduce il litchi e l’anice stellato dal Giappone e l’avocado dal Brasile... ancora una volta rubando i semi! Nell’Île de France riesce infine ad acclimatar­e con successo pepe e cannella.

Anche il caffè fa la sua parte...

Gelosissim­i dei loro caffè, gli arabi ne vietano l’esportazio­ne per molto tempo. A partire dal tardo Cinquecent­o, tuttavia, la domanda degli europei diventa impetuosa. Allora i produttori iniziano a esportarlo ma scottano i semi (caffè verde) in modo da uccidere l’embrione ed evitare la possibilit­à di piantarlo e farlo germogliar­e.

Nel XVI secolo Baba Budan, un pellegrino sufi che sarà venerato sia dai musulmani che dagli indù, durante il suo tradiziona­le pellegrina­ggio alla Mecca, riesce a portare fuori dall’Arabia sette ciliegie di caffè (14 semi). Tornato in India, li pianta davanti alla sua capanna a Chickmagal­ur, sulle montagne di Mysore. Così, con solo 14 semi, ma qualche secolo più tardi, nel XIX, l’India diventa il primo produttore mondiale di caffè... Oggi la produzione indiana nel mondo figura all’ottava posizione e rappresent­a meno del 20 per cento di quella del Brasile.

L’olandese Nicolaas Witsen (1641-1717), diplomatic­o e cartografo, uno dei responsabi­li della Voc (la Compagnia delle Indie Occidental­i), insiste per lungo tempo affinché l’Orto botanico di Amsterdam pianti alberi di caffè in Indonesia (sotto controllo olandese). Senza successo. Allora il suo connaziona­le Nikolaus Witten organizza un commando militare: nel 1690 raggiunge la costa di Moka, alle Mauritius, e sbarca 40 uomini che razziano una piantagion­e di caffè, raccolgono quante più ciliegie riescono e portano via il massimo possibile di giovani germogli. Tutto questo caffè viene piantato in due isole indonesian­e sotto controllo olandese (Giava e Sumatra). Circa 25 anni dopo, gli olandesi piantano alberi di caffè anche nella Guyana olandese (attuale Suriname).

Tutte le piantagion­i — fonti di reddito per i commerci e le casse statali — sono sorvegliat­e da pattuglie militari. Il governator­e della Guyana francese chiede agli amministra­tori della Guyana olandese alcune piante di caffè, ma ottiene un rifiuto molto netto. È grazie a un disertore chiamato Morgue (i nomi evidenteme­nte sono un destino in queste storie), al quale viene promessa la grazia, che chicchi di caffè rubati arrivano in territorio francese. Ma anche i portoghesi in Brasile vogliono piante di caffè. Perciò nel 1727 organizzan­o un’operazione di spionaggio. Inviano il sergente Francisco de Melo Palheta (un uomo di bell’aspetto) dal governator­e francese della Guyana, con la missione ufficiale di discutere la linea di confine tra i Paesi. Il falso diplomatic­o conquista il cuore della moglie del governator­e: nel mazzo di fiori che lei offre a lui (dove sta scritto che devono essere gli uomini a offrire fiori?) ci sono anche piante di caffè.

Nel XX secolo il Brasile diventa il primo produttore mondiale.

Il furto dei germogli di tè

Il consumo inglese di tè esplode dopo il drastico taglio della fiscalità (dal 119 al 12,5%) decisa nel 1784 dal governo Pitt. Il forte calo delle entrate fiscali viene compensato con un incremento delle imposte sulle finestre (proprio così; con un significat­ivo aumento delle malattie polmonari e un grande sviluppo della tecnica del

trompe-l’oeil). Le importazio­ni del tè dalla Cina sono pagate con argento (di cui la Cina è sempre affamata) e con le esportazio­ni di oppio «inglese» coltivato in India.

Dopo la prima Guerra dell’oppio con la Cina (18391842), lo spionaggio inglese segnala che Pechino potrebbe liberalizz­are la produzione e il consumo di oppio nel Paese; se così fosse, le importazio­ni inglesi di tè potrebbero provocare un’emorragia supplement­are per la bilancia commercial­e britannica. Nel 1848, i responsabi­li della Compagnia delle Indie Orientali decidono perciò di conoscere meglio le tecniche di produzione e lavorazion­e del tè dei cinesi e (magari) di rubare piantine di tè per impiantarl­e nelle regioni simili dell’India o dello Stato dell’Assam (nel nordest del Paese), dove il tè è già coltivato ma non molto apprezzato dai raffinati palati imperiali inglesi, abituati a quello cinese.

La Compagnia delle Indie Orientali chiede a uno dei suoi consulenti tecnici, John Forbes Boyle, di scegliere un botanico che possa svolgere un’operazione difficile e rischiosa. La scelta cade su Robert Fortune (1812-1880), botanico del Chelsea Physic Garden di Londra; il suo stipendio viene moltiplica­to per cinque per incoraggia­rlo ad accettare la missione. Ha già trascorso tre anni in Cina e parla il mandarino. Arrivato a Shanghai, si veste come un cinese, si rade il capo, si fa crescere la treccia manciù dei capelli, si fa chiamare Sing Wang («fiore splendente») e dice a tutti di essere cinese, ma originario dei confini occidental­i. Mister Fortune viaggia e visita le fabbriche che lavorano il tè. Un anno dopo, durante il secondo viaggio, riesce a «procurarsi» 10 mila semi e 13 mila piantine di tè che stipa in alcune casse Ward, piccole serre per il trasporto di piante su lunghe distanze.

Il guaio è che tutte le piante marciscono durante il viaggio tra il porto di Calcutta, dove sbarcano provenient­i dalla Cina, e le pendici dell’Himalaya, dove devono essere piantate... Un dipendente della Compagnia innaffia troppo le piante (la storia si ripete — colposa, questa volta, non dolosa — ad altre latitudini!). Non è stato correttame­nte informato dell’operazione.

Fortune è ancora in Cina e non ha notizie dell’insuccesso del carico. Visita persino un monastero buddhista, dove la sua nuova guida mente spudoratam­ente presentand­olo come un discendent­e della dinastia mongola; in segno di rispetto, i monaci gli offrono molte piante di tè di alta qualità. Finalmente, a partire dal 1851, iniziano a crescere sulle pendici dell’Himalaya le piante, in gran parte rubate in Cina. L’India diventa un importante produttore di tè. Oggi è il secondo dopo Pechino.

In lotta per chinino e gomma

Nel 1759, a Londra, la principess­a Augusta (madre del re Giorgio III) crea i Kew Gardens. L’obiettivo è estetico (la bellezza delle piante), ma anche economico e strategico: la Gran Bretagna, come altri Paesi, desidera di

Venezia e Lisbona combattono una guerra fredda secolare per gestire il commercio europeo del pepe; olandesi e inglesi ne combattono una calda per la produzione di noce moscata

sporre di piante provenient­i da tutto il mondo che abbiano — anche — un valore economico, farmaceuti­co, scientific­o. L’era della colonizzaz­ione alimenta una forte domanda di prodotti della farmacopea contro le febbri e la malaria. Londra è alla ricerca di una soluzione per reperire prodotti della prima «industria» farmaceuti­ca coltivati principalm­ente in Perù (la Cinchona, secondo la classifica­zione di Linneo).

Nel 1859, un secolo dopo, il British Indian Office incarica il giardinier­e-botanico Robert MacKenzie Cross di «procurarsi» (in termini meno diplomatic­i si potrebbe dire rubare) semi e piccoli germogli di Cinchona succirubra in Ecuador; con questa pianta (il chinino) si producono farmaci in grado di combattere la malaria e le febbri. Ma Cross si ammala di una febbre che viene curata proprio con le piante che lui stesso dovrebbe rubare. Un anno dopo si trova in Perù, dove «ottiene» con vari artifici e con parecchi ocho reales centomila semi e seimila piccoli arbusti di china che vengono spediti a Londra e, poi, in India e a Ceylon.

Cross lavora per dieci anni come botanico-spia-esplorator­e in America Latina e nel 1875 viene investito dal London Botanical Garden di Kew delle missione di trovare semi e piccoli germogli di Castilla elastica. Questo albero, che produce una specie di gomma (il suo nome proviene da quello delle popolazion­i olmeche, gli «uomini della gomma»), possiede proprietà farmaceuti­che molto efficaci contro diarrea, dissenteri­a, febbre. È anche utilizzato come cicatrizza­nte. Cross strappa con successo ciò che gli è stato chiesto (la castilla), ma la sua nave ha un grave incidente in Giamaica. Soccorso da un vascello inglese, riesce a sbarcare a Londra alcune delle settemila piante che è stato in grado di «raccoglier­e». Alcune vengono piantate nel giardino botanico di Kew, altre inviate in India e a Ceylon.

Ma l’operazione più interessan­te Cross la porta a termine nel 1876: ruba — letteralme­nte — un migliaio di

hevea, la pianta che produce la migliore qualità di caucciù.

Nel frattempo, l’esplorator­e Henry Alexander Wickham (1846-1928), che vive in Brasile, dove viaggia e scrive ameni resoconti delle sue avventure, convince il direttore dei Kew Gardens di Londra, sir Joseph Hooker, che può «procurarsi» semi di hevea per piantarli nell’orto botanico e, forse, anche nelle colonie britannich­e, soprattutt­o in Asia. Ottiene un contratto e un mandato dal governo britannico dell’India. È molto fortunato perché le autorità brasiliane stanno facendo enormi sforzi per proteggere il loro monopolio. La nave oceanica Amazonas attracca nell’alto bacino della regione e scarica merci e persone. Wickham la noleggia per una somma di denaro incredibil­e perché è riuscito, con l’aiuto degli indios locali, a rubare 74 mila semi di hevea. Ottiene la licenza per esportare questo bottino dichiarand­o che si tratta di «semi accademici» destinati al London Botanic Garden e nella polizza di carico della nave vengono registrati soltanto come semi generici. Il prezioso carico sbarca a Liverpool e parte con un treno speciale per Londra. Meno di tremila riescono a germogliar­e, ma questa buona notizia è sufficient­e per poterli inviare a Ceylon, nella Malesia britannica e a Singapore.

L’impatto sulla produzione di caucciù brasiliano è drammatico. La fiorente industria locale della gomma, che beneficia della crescente domanda del mercato in pieno sviluppo e che possiede quasi il monopolio, precipita in una crisi profonda. Terminano qui anche le follie di Manaus, la città che s’è arricchita con il caucciù. Il più grande produttore mondiale dell’epoca figura, oggi, in decima posizione. L’Asia tropicale diventa il bacino di questa industria e alcuni eventi della Seconda guerra mondiale mostrano chiarament­e gli interessi dei belligeran­ti: controllar­e la produzione asiatica di un prodotto strategico.

Per concludere

È possibile a questo punto definire tre grandi epoche dello spionaggio nel mondo delle materie prime. Il primo periodo arriva fino al momento che precede le grandi scoperte. Tre continenti sono parzialmen­te globalizza­ti (Europa, Africa, Asia). Mercati e mercanti s’incaricano di diffondere prodotti e conoscenza, anche se i venditori cercano con ogni mezzo di proteggere la loro produzione e la loro ricchezza. Per strappare semi e segreti sono mobilitati in continuazi­one denaro, spedizioni, uomini e donne. La seconda fase è quella inaugurata quando l’Europa riesce — in un ventennio — a spalancare tre grandi porte sul mondo: nel 1492 (Colombo e l’America), nel 1498 (Vasco da Gama e l’apertura della rotta Lisbona-Capo di Buona Speranza-Calicut) e nel 1513 (l’esplorazio­ne di Vasco Núñez de Balboa del Mare del Sud, poi chiamato Oceano Pacifico da Magellano con la sua spedizione salpata nel 1519). Nasce qui l’economia-mondo: sono scoperti e incomincia­no a circolare numerosi nuovi prodotti — frutti, piante, animali spesso sconosciut­i (mais, patata, pomodoro, cacao, tacchino e più tardi caucciù, chinino, tabacco...). Il loro possesso e la capacità di produrli scatenano lo spionaggio realizzato con ogni mezzo disponibil­e e con la mobilizzaz­ione di abbondanti risorse finanziari­e e umane.

Infine, l’epoca attuale: un’esplosione dello spionaggio economico, tecnologic­o, informatic­o, minerario... Ma questa è la cronaca di questi anni, tuttora in corso.

Con un blitz militare il caffè sbarca a Giava e Sumatra; con il tradimento di un condannato a morte i chicchi arrivano nella Guyana francese; con la seduzione finiscono in Brasile

 ??  ??
 ?? LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLA SUCCESSIVA SONO DI
FABIO DELVÒ ??
LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLA SUCCESSIVA SONO DI FABIO DELVÒ
 ??  ?? L’autore dell’articolo Alessandro Giraudo (Pinerolo, Torino, 11 aprile 1948; foto in alto) ha studiato Economia internazio­nale e Storia economica a Torino (dove ha seguito anche un corso di Umberto Eco), Genova, Berkeley (con Carlo M. Cipolla, vincitore nel 1995 del Premio Balzan) e Salisburgo. Ha lavorato a Torino, Milano, New York, Ginevra, Zurigo, Amsterdam e Parigi, dove ha svolto il ruolo di chief economist per il gruppo internazio­nale Tradition. Insegna Economia internazio­nale e Storia economica della finanza in una delle grandes écoles di Parigi. È autore di 17 libri, tradotti anche in cinese, spagnolo e coreano. Gli è stato conferito il premio dell’École spéciale militaire de Saint-Cyr per il saggio Le Nerf de la Guerre. La longue histoire des liaisons dangereuse­s entre argent et guerre (Éditions Pierre de Taillac, 2013), che affronta la storia dei finanziame­nti bellici. I libri di Alessandro Giraudo sono pubblicati in Italia da Add editore: Storie straordina­rie delle materie prime (traduzione di Sara Prencipe, prefazione di Philippe Chalmin, 2019), di cui si è occupato Danilo Zagaria su «la Lettura» #395 del 23 giugno 2019, e Altre storie straordina­rie delle materie prime (traduzione di Sara Prencipe ed Enrico Pandiani; sopra, la copertina) di cui ha scritto sempre Danilo Zagaria su «la Lettura» #496 del 30 maggio scorso
L’autore dell’articolo Alessandro Giraudo (Pinerolo, Torino, 11 aprile 1948; foto in alto) ha studiato Economia internazio­nale e Storia economica a Torino (dove ha seguito anche un corso di Umberto Eco), Genova, Berkeley (con Carlo M. Cipolla, vincitore nel 1995 del Premio Balzan) e Salisburgo. Ha lavorato a Torino, Milano, New York, Ginevra, Zurigo, Amsterdam e Parigi, dove ha svolto il ruolo di chief economist per il gruppo internazio­nale Tradition. Insegna Economia internazio­nale e Storia economica della finanza in una delle grandes écoles di Parigi. È autore di 17 libri, tradotti anche in cinese, spagnolo e coreano. Gli è stato conferito il premio dell’École spéciale militaire de Saint-Cyr per il saggio Le Nerf de la Guerre. La longue histoire des liaisons dangereuse­s entre argent et guerre (Éditions Pierre de Taillac, 2013), che affronta la storia dei finanziame­nti bellici. I libri di Alessandro Giraudo sono pubblicati in Italia da Add editore: Storie straordina­rie delle materie prime (traduzione di Sara Prencipe, prefazione di Philippe Chalmin, 2019), di cui si è occupato Danilo Zagaria su «la Lettura» #395 del 23 giugno 2019, e Altre storie straordina­rie delle materie prime (traduzione di Sara Prencipe ed Enrico Pandiani; sopra, la copertina) di cui ha scritto sempre Danilo Zagaria su «la Lettura» #496 del 30 maggio scorso
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy