Corriere della Sera - La Lettura
Le lezioni di Calvino in parole e musica
Il Mittelfest di Cividale del Friuli dedica uno spettacolo a Italo Calvino: «Six Memos», ispirato al titolo delle sei conferenze che avrebbe dovuto tenere in America ma che non poté terminare, fermandosi a cinque. Lo scrittore Paolo Di Paolo e il violoncellista Enrico Bronzi mettono in scena una mappa del futuro spesso fraintesa (come è una mappa, ma delle trame, quella che pubblichiamo nelle pagine successive)
Non c’è libro che abbia prodotto più semplificazioni e banalità delle Lezioni americane.
Soprattutto il capitolo che Italo Calvino dedicò alla prima delle sei proposte per il XXI secolo, cioè la Leggerezza. Domenico Scarpa, che negli anni si è dedicato allo scrittore del Barone rampante e a Primo Levi con studi critici e biografici, associa i due amici, Levi e Calvino, in un destino comune. Dice a «la Lettura»: «Due grandi libri degli anni Ottanta, le Lezioni americane e I sommersi e i salvati, sono stati letti come opere conclusive, dei testamenti profetici e in certa misura catastrofici. Un equivoco. Nulla di tutto ciò. Sono libri di ricominciamento, e Calvino non propone certo delle ricette, tanto meno ricette letterarie, perché per lui la letteratura è un modo per parlare di tutto il resto, un modo di stare al mondo in maniera concreta e insieme lungimirante, con immaginazione, desiderio e attenzione. Le Lezioni sono un libro esplosivo, un debutto verso qualcosa che purtroppo non sappiamo, ma vi si avverte una metamorfosi, il senso del funambolo che si inoltra su una nuova corda sospesa nel vuoto».
L’occasione per tornare a riflettere, 33 anni dopo l’uscita, su quel libro incompiuto, molto amato e altrettanto discusso, ci viene offerta su un piatto d’argento dal «concerto letterario» intitolato con il titolo in inglese, Six Memos. Bronzi / Calvino / Di Paolo, e organizzato per il Mittelfest di Cividale del Friuli, con testi dello scrittore Paolo Di Paolo e musiche a cura del violoncellista e direttore d’orchesta Enrico Bronzi. Le Lezioni americane uscirono postume da Garzanti nel 1988. Era il 6 giugno 1984 quando a Calvino vennero affidate dalla Harvard University le Norton Lectures da pronunciare nell’anno accademico successivo (198586). Il lavoro fu furibondo, tra schemi continuamente rifatti, elenchi, abbozzi, materiali raccolti e abbandonati, ripensamenti. Come ha fatto notare Mario Barenghi, che è tra l’altro uno dei curatori dei Meridiani, Calvino aveva alle spalle una quindicina di libri di fiction, ma sul versante saggistico poteva vantare fino ad allora una sola raccolta: Una pietra sopra, del 1980, che riorganizzava pagine già apparse su giornali e riviste. L’esperienza di un’opera saggistica organica è
dunque per il Calvino sessantunenne una prova inedita che si inquadra, secondo Barenghi, nel proposito dell’autodefinizione di un’identità d’autore. La prova è purtroppo destinata a rimanere incompiuta, perché il 6 settembre 1985 lo scrittore verrà colpito da un ictus.
Della sesta lezione, che Calvino prevedeva di scrivere durante il soggiorno americano, rimane solo il titolo in inglese: Consistency, mentre le altre sono note
(Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità). «Anche a proposito di leggerezza — dice Scarpa — c’è un parallelo con Primo Levi: non se ne può più delle semplificazioni e delle forzature sulla leggerezza, così come non se ne può più di quelle che riguardano la zona grigia. Se dovessi scegliere una lezione, sceglierei senza dubbio l’esattezza. È nell’esattezza che Calvino si avvicina a una professione di fede dello scrittore, un ponte tra quel che ha fatto fino a quel momento e quello che avrebbe fatto dopo».
Ciò detto, Scarpa esorta a non dimenticare che le Six Memos sono in realtà discorsi scritti per essere tradotti (dall’amico William Weaver) e poi «recitati» da Calvino (dunque in una lingua non sua) di fronte a un uditorio di studenti: per questo si tratta di un libro «attoriale» e fluido, soggetto a un doppio filtro, dell’oralità e dell’alterità linguistica. «Prima ancora dei contenuti, nelle lezioni c’è una serie di condizioni performative che danno al discorso uno slancio e insieme il senso di incertezza e di sfida del ritrovarsi su un palcoscenico». Ciò dovrebbe indurre a valutare il libro come un canovaccio, più che come un’opera compiuta.
Romano Luperini, tra i più autorevoli storici della letteratura, critico, teorico sensibile anche alla didattica, non esita comunque a esprimere un giudizio severo: «È un libro che conferma (talora nonostante la volontà dell’autore) alcuni dei principali luoghi comuni della tradizione letteraria italiana, perché valorizza la letteratura “come reazione al peso di vivere” per vederne prevalentemente la “funzione esistenziale” piuttosto che quella sociale (parole desunte dalle prime pagine delle Lezioni)». È un rimprovero mosso anche da Franco Fortini: «Fa riflettere il parere negativo di due tra i maggiori intellettuali del ’900 come Fortini e Sanguineti, che per il resto sono sempre stati in netta opposizione tra loro. La letteratura come affermazione della leggerezza e come consolazione dai mali della vita non è solo una “costante antropologica”, come scrive Calvino, è anche una costante storica e ideologica, che andrebbe studiata come tale, e che neutralizza o può neutralizzare la sua potenziale carica liberatoria o critico-negativa».
Non è tutto. Luperini intravede nelle
Lezioni americane una specie di cedimento all’ideologia dominante negli anni Ottanta: «Si avverte il cosiddetto postmodernismo, che rilanciò il pensiero di Nietzsche, con connesso elogio della leggerezza (per restare a questo tema). L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera esce nel 1984, le Lezioni sono scritte l’anno successivo. E d’altronde lo stesso Calvino, proprio all’inizio, collega la propria posizione alla seconda rivoluzione industriale, da cui il postmoderno è inseparabile: oggi, vi si legge, “è il software che comanda” e a dominare sono “Bits senza peso”. Per me il Calvino maggiore è quello della Giornata di uno scrutatore e dei grandi saggi poi riuniti in Una pietra
sopra». D’altra parte, Scarpa sottolinea la volontà di svolta rispetto all’esperienza passata: «Calvino sentiva l’impegno di sistematizzare, di dare un ordine a una biblioteca che non era più quella giovanile degli anni della formazione: nelle Lezioni, infatti, ritroviamo pochi dei grandi maestri del Calvino giovane». Tutto ciò a conferma di un autore che tende di continuo a sperimentare e a rinnovarsi.
Ma il guaio, per Luperini, è anche la ricezione di quel libro: «Oggi — dice — le
Lezioni americane sono diventate, direi naturalmente, l’insegna o il cavallo di battaglia di ogni onesto professore di lettere. E si capisce: è un risarcimento della sua frustrazione e del suo bisogno di consolazione in un mondo in cui la letteratura e i suoi valori non hanno più spazio. Così da dichiarazione di poetica, quale l’autore stesso giustamente lo presenta, quel libro si è trasformato in assunto teorico circa la natura stessa della letteratura. Da questo punto di vista, ha lasciato un’eredità destinata a durare. Ma non so se sia un lascito positivo. Confesso che, per conto mio, se dovessi far leggere ai giovani qualcosa del saggismo calviniano, darei loro piuttosto Il mare dell’oggettività e Sfida al labirinto. Potrebbero risultare più utili per capire questi anni 2000».
Intanto, resta l’azzardo, tutt’altro che banale, di rilanciare a teatro le Lezioni. L’azzardo, per Enrico Bronzi, è cercare di «tradurre» in musica i lemmi di Calvino, scegliendo dal repertorio passato e presente altrettante partiture da eseguire al violoncello. Accoppiamenti giudiziosi dal lontano passato alla contemporaneità: la visibilità del compositore inglese cinque-secentesco John Dowland, la molteplicità rappresentata da un preludio di Bach, l’esattezza di György Ligeti, Luigi Dallapiccola e la rapidità, la leggerezza secondo Salvatore Sciarrino. Accoppiamenti giudiziosi e forse un po’ capricciosi, ma sempre ben motivati: «Il brano di Sciarrino, Ai limiti della notte ,è basato — spiega Bronzi — sulla trasparenza degli armonici grazie a una tecnica che priva il suono della gran parte del suo corpo o di quello che si potrebbe definire il suo peso». Bronzi evoca la sorpresa di Milan Kundera, a sua volta citato da Calvino, di fronte alla musica di Iannis Xenakis e le argomentazioni luminose sulla leggerezza, intesa da Kundera come bellezza «ripulita dal sudiciume affettivo, liberata dalla barbarie sentimentale». La preoccupazione di Bronzi è quella di evitare l’effetto-didascalia o accompagnamento: «A proposito della rapidità, sarebbe ovvio immaginare un brano con una scansione veloce. Ho scelto invece una partitura di guerra, scritta da Dallapiccola nel 1945, dove colpisce la capacità di entrare ex abrupto in modo impressionante nel senso profondo delle cose. Io l’ho paragonata all’incipit della Metamorfosi di Kafka».
La sfida è tutta nell’intenzione di lasciare che il violoncello esprima valori ed emozioni proprie, disancorate dalla semantica delle parole ma riconducibili piuttosto ad analogie formali: «La musica — dice Bronzi — è un’arte legata al tempo del racconto, una specie di architettura dell’immateriale, dunque le assonanze con le lezioni di Calvino passano necessariamente attraverso una dimensione non contenutistica». La visibilità si riconduce all’idea di variazione: «Un brano come Pavane lachrymae di Dowland, continuamente variato, comporta che pur allontanandoci dal punto di partenza avvertiamo sempre di più il valore dello stampo iniziale: dunque, si resta fedeli alla stessa visibile realtà da cui si partiva, che anche variando e rinnovandosi all’ascolto ricompare di continuo. Ecco una possibile applicazione dell’idea di visibilità». Ancora più affascinante è la molteplicità in musica, dove il sentiero, dice
Bronzi, era già tracciato: «La musica, rispetto a qualsiasi arte, ha la possibilità di dire più cose contemporaneamente: infatti, la polifonia è un’arte specificamente musicale». Il passaggio quasi obbligato è Bach, e con lui sarà un gioco doppio: «Bach fa una cosa geniale attraverso la tecnica del trompe-l’oeil, anzi del trompel’oreille, facendoci immaginare di sentire quattro voci mentre in realtà è una sola alla volta: ciò avviene grazie a una costruzione molto tecnica, la cosiddetta polifonia lineare che sovrappone linee diverse alternando voci diverse».
Bronzi parla delle Lezioni americane come di una partitura non suonata: «Si potrebbe dunque immaginare che ci siano ancora delle possibilità non scritte: nell’esecuzione, l’interprete avrebbe potuto decidere sul momento di prendere una via o un’altra». E siamo alla conferenza sull’esattezza, dove vengono tracciate diverse strade e altrettanti possibili sviluppi: «La strada che ho seguito — dice Bronzi — è la relazione con la geometria e con il numero, la stessa relazione che esprime anche la musica. Per questo ho scelto di proporre una mia trascrizione da Ligeti, in particolare un brano per viola che si intitola Loop ed è composto da una sequenza di pochi accordi che vengono continuamente combinati secondo principi stocastici, di causalità, basati sulla differenza costante di ritmi. Sono ritmi non comuni nella musica occidentale ma frequenti nella musica ungherese, molto irregolari, sghembi, cui si aggiungono riferimenti allo swing ed echi orientali. All’inizio si rimane un po’ smarriti, può sembrare un brano irrazionale, in realtà procedendo nell’ascolto si coglie una logica stringente, e alla fine quel che rimane è l’incredibile coerenza razionale data dal numero e dalla forza delle sequenze geometriche». L’ultima sorpresa verrà dall’associazione musicale legata al principio di Consistency, cioè di coerenza, la lezione non scritta.
E proprio la Consistency sarebbe stata, secondo Paolo Di Paolo, una luce diffusa su tutto il libro: «Da Chichita Calvino sappiamo che il punto di partenza di quella lezione doveva essere il Bartleby di Melville. Mi sono fatto l’idea che quella negazione (il famoso “preferirei di no” pronunciato dallo scrivano) su cui si sono concentrati tanti glossatori poteva essere evocata da Calvino proprio per sottolineare il rischio della dispersione». Dunque, dopo l’enumerazione dei valori, un’esortazione all’uso consapevole? «Certo. Come dire: laddove tu estremizzi la leggerezza, la rapidità, la molteplicità eccetera, perdi di vista quelle stesse qualità e rischi la dispersione e l’inconsistenza. Consistency è la consistenza, lo spessore attraverso cui guadagni coerenza e la guadagni dai no che riesci a dire, cioè dalla resistenza che opponi. Mi affascina pensare che il pezzo che manca sia quello che ci avrebbe messo in guardia dai rischi di un certo modo di scrivere ma anche da un certo modo stare al mondo». Lo spettacolo prevede un dialogo tra lo scrittore e il musicista, che spiegherà il senso delle sue «traduzioni». «Il mio racconto — continua Di Paolo — lo muoverò cercando di riportare a casa i nuclei delle lezioni, perché ho la sensazione che sempre più siano diventate proverbi un po’ usurati e richiamati spesso a sproposito. Leggerezza, poi, è il più logoro. Si tratta di fare capire al lettore che cos’è quella leggerezza, che la visibilità non è quella dei social, che la molteplicità non è il multitasking... anche se sono concetti nati per la scrittura ma che trapiantati nell’orizzonte antropologico diventano chiavi di lettura per il XXI secolo. Dunque, dopo averle riportate a casa le ricondurrei nell’oggi, e a quel punto possiamo anche un po’ tradirle, ma solo dopo averle ben digerite». Ciò che si può dire, in vista della «lettura musicale» di Bronzi e Di Paolo, è che verso la fine si accenderà una luce al neon. E sotto quella luce vedremo, forse, il Calvino che avremmo potuto leggere dopo le Lezioni americane.