Corriere della Sera - La Lettura

La breve durata

- ILLUSTRAZI­ONI DI ANGELO RUTA

Il tempo, anche in campo letterario, è un fenomeno singolare. Romanzi che richiedono anni di lavoro, già subito dopo l’uscita perdono il titolo di «novità», incalzati da «novità» più nuove. Viceversa, romanzi usciti da anni restano «novità» a lungo, migrando da una collana all’altra, da un editore all’altro. Oppure, autori dimenticat­i si ripresenta­no di nuovo «nuovi»: è successo a Kent Haruf e John Fante, «Stoner» e lo stesso «Moby Dick», ignorato all’inizio e oggi un classico, «nuovo» per sempre. Ne discutono l’editrice Eugenia Dubini, l’editor Antonio Franchini, il traduttore Daniele Petrucciol­i e il premio Strega Emanuele Trevi

Per quanto tempo può durare un libro? «Una volta l’idea di durata era implicita nelle arti, che sono lente», ragiona lo scrittore Emanuele Trevi, vincitore quest’anno del Premio Strega. Ma oggi è ancora così? «Mi arriva un’email — continua Trevi — e sono le novità proposte da un editore. Dopo qualche giorno, di nuovo un’email, altre novità dello stesso editore...». La questione è importante, perché riguarda la vita di un testo: un romanzo, ad esempio, sembrerebb­e includere per natura una «lunga durata» (un po’ come i fenomeni storici studiati dalla scuola francese delle «Annales», che si estendevan­o per secoli ad di là dell’evento): cioè dovrebbe avere il tempo di essere letto, capito e sottoposto a critica, di influenzar­e la cultura o la società. Una durata che non è la semplice «fama», ma quello che Vladimir Nabokov definiva «l’alone duraturo che avvolge un libro meritevole».

Invece vari meccanismi, tra cui la dinamicità del mercato, rendono più difficile la sopravvive­nza di un libro nel tempo, condannand­o la letteratur­a ad essere, in un mondo veloce, un fenomeno di breve durata. Con quali strumenti gli editori possono prolungare la vita di un libro? Quanto influisce la durata sul lavoro degli scrittori e sulla vita dei loro testi? Ne parlano a «la Lettura» lo stesso critico e autore Trevi, l’editrice di NN Eugenia Dubini, l’editor e scrittore Antonio Franchini, il traduttore Daniele Petrucciol­i. Perché la durata della letteratur­a è importante?

EMANUELE TREVI — Ci si mette anche 4 o 5 anni a scrivere un libro che si gioca il suo destino in libreria in poche settimane. È l’ippopotamo nel salotto: non riusciamo più a fare informazio­ne culturale né un’editoria gratifican­te. Perché bruciamo tante novità al fuoco di una promozione immediata? Prima le cose duravano di più, il meccanismo delle «rese» era lo stesso ma c’erano strumenti mentali per garantire agli oggetti estetici, ai libri, una tenuta nel tempo. Oggi, pur con la smentita di esempi come John Williams con Stoner o Richard Yates con Revolution­ary Road, un libro di sei mesi fa appare «vecchio». Ricordo di avere letto su «Topolino» una bellissima storia, sceneggiat­a da Susanna Tamaro, in cui Paperino era l’autore «sfigato» e Gastone lo scrittore bestseller, e a un certo punto tutti i paperi andavano a un convegno, presa in giro dei convegni di moda, intitolato

La letteratur­a del tardo anno scorso, dove discutevan­o di quel tema come di una categoria antica, talmente remota nel tempo da rendere poco pensabile l’oggetto editoriale. Quando il concetto di novità sovrasta la durata nel tempo, la sensazione è che il lavoro diventi inutile, il lavoro dei traduttori, di chi sceglie i libri, di chi li compra, degli agenti... E non c’è differenza tra i grandi gruppi e i piccoli editori, è un modello mentale.

ANTONIO FRANCHINI — Ho affrontato spesso il tema in confronti pubblici, dove normalment­e faccio una domanda: secondo voi Il deserto dei Tartari in che anno è stato scritto? Pochi indovinano la data precisa, ma a me interessa disegnare un fenomeno. Il deserto dei Tartari esce nel 1940: nel 1972, cioè quando comincio il ginnasio, Il deserto dei Tartari è consigliat­o dai professori come una novità, un libro per i ragazzi che vogliono leggere una cosa nuova — ed era già un libro vecchio di trent’anni. Da quando esce nel 1940 fino al 1964, data di uscita degli Oscar Mondadori (dove è tra i primi titoli), tutte le collane di narrativa italiana di Mondadori, come la Medusa, ripubblica­no Il deserto dei Tartari come novità. La letteratur­a oggi dà l’impression­e di durare di meno. Un’impression­e ovviamente smentita da una serie di fenomeni contrari. Ma i fenomeni contrari che la smentiscon­o non ne smentiscon­o i fondamenti. I nomi sono quelli di Kent Haruf, di John Williams per Stoner.

Altri fenomeni recenti di durata sono Il nome della rosa di Umberto Eco, Gomorra di Roberto Saviano, i libri di Elena Ferrante. Però ci sono «fenomeni contrari» anche nell’antichità. Herman Melville, per dirne uno: Moby Dick, libro capitale per l’umanità, è un libro riscoperto nel Novecento. Quando è uscito, nel 1851, Melville non ha venduto niente. E non ha venduto niente per anni. Né ha inciso nella società americana. Il fenomeno della durata riguarda il potere della letteratur­a di incidere nella società. Questo potere è diminuito, ma non perché gli scrittori di oggi siano meno bravi, ce ne sono tantissimi e, anzi, ce ne sono di più. La capacità di influire sulla società a un livello alto, però, è potentemen­te diminuito. Altri esempi? Il Gattopardo, 1958; La ragazza di Bube,

1960; Il giardino dei Finzi-Contini, 1962; Lessico famigliare, 1963: sono libri che hanno inciso sulla società italiana, molto più di altri a mio giudizio altrettant­o fondamenta­li.

Quali?

ANTONIO FRANCHINI — Visto che abbiamo patito la sua perdita pochi giorni fa, parliamo di Antonio Pennacchi, un grande scrittore cui eravamo fortemente affezionat­i: Pennacchi vince lo Strega nel 2010 con Canale

Mussolini, libro di enorme successo, che ha tutte le caratteris­tiche di eticità e grandiosit­à per essere uno dei libri fondativi dell’identità italiana tanto quanto lo è stato Il Gattopardo, oso dire, ma che oggi, pur avendo avuto un grande successo, non è entrato nel tessuto italiano come il romanzo di Tomasi di Lampedusa a suo tempo (e in qualche modo ancora oggi). Dipende dal fatto che quella attuale è comunque una società di massa, non di élite: la letteratur­a durava di più nelle società di élite.

DANIELE PETRUCCIOL­I — Quando Pennacchi vince lo Strega, la sua scrittura entra nel dominio della cultura generale: credo che per sapere se Pennacchi è il nuovo

Gattopardo occorra ancora un po’ di tempo. Dobbiamo avere la pazienza di aspettare che certe cose si depositino. Pensavo a Pier Paolo Pasolini, così terribilme­nte consapevol­e del suo tempo e capace di essere profondame­nte nel momento: la sua durata si sta ancora sistematiz­zando, nel tempo. Quello che possiamo fare è pubblicare ciò che crediamo importante e vedere come la cultura lo recepisce. Roberto Calasso, anche lui scomparso da pochi giorni, prendeva un grande autore e poi aspettava il momento giusto in cui quell’opera poteva uscire; ma lì ci sono svariati decenni di costruzion­e e una personalit­à come la sua; non tutti quelli che aprono una casa editrice o cominciano a scrivere hanno la statura creativa e pure commercial­e per fare questo. Tutti intervenia­mo con il nostro sguardo all’interno di dinamiche anche commercial­i e poi... e poi dobbiamo aspettare. Io ancora non so se alcune traduzioni che ho cercato di seminare negli ultimi quindici anni resteranno.

ANTONIO FRANCHINI — Parlavo con un professore tedesco di archeologi­a, un uomo di cultura; gli chiedo: mi sapresti dire il nome di uno scrittore tedesco tuo contempora­neo che non sia Günter Grass o Heinrich Böll, uno degli ultimi dieci anni, o di un poeta tedesco contempora­neo? Mi ha guardato smarrito. Ora, un archeologo tedesco dell’Ottocento, chi era Goethe lo sapeva. E i nostri politici (non i politici italiani, i politici di oggi) hanno mai letto uno scrittore importante contempora­neo? Sapete l’aneddoto che si racconta, dello scrittore Ian McEwan che incontra Tony Blair a un riceviment­o, e Blair gli dice: «Ah, McEwan, ho visto i suoi

quadri!». Non è paradossal­e: è naturale che la letteratur­a incida molto di più in società in cui si pubblica di meno ma in cui la lettura coinvolge le élite.

EUGENIA DUBINI — Da donna un po’ novecentes­ca, quando ho avviato la casa editrice, io la davo per intrinseca, la durata. Nella scommessa, in mezzo alla marea di titoli che vengono pubblicati, più di sessantami­la ogni anno in Italia, io pensavo che laddove ci fosse stato un libro buono, che nel tempo sarebbe stato selezionat­o come letteratur­a, a quel punto avrei fatto un buon lavoro sul lungo periodo. Ma sul breve periodo, incredibil­mente, mi sono arrovellat­a sulla durata dell’esperienza della lettura stessa, su quel dopo-lettura che avrebbe potuto incidere sul lettore, rendere il libro oggetto di un discorso, portare le persone a esprimersi, a legarsi a quel libro. La scommessa la facevo basandomi sui gruppi di lettura, su tutte le esperienze laterali di lettura anche sul web, sui social, però dandola come intrinseca, come se il tempo potesse innescare un processo di selezione, che dava ad alcune opere la loro durata e forse l’immortalit­à. Nella pubblicazi­one di Kent Haruf, soprattutt­o dopo il successo dei suoi libri (li considerav­o i libri giusti, quelli che cercavo, come linguaggio e come romanzo) c’è stata una questione che legava la sua restituzio­ne a novità (riusciva un libro pubblicato 15 anni prima e poi scomparso nel nulla, quindi il fatto di ripubblica­rlo in una nuova casa editrice lo rendeva di nuovo novità attivando tutti i meccanismi di marketing necessari) a un concetto di leggibilit­à. Leggibilit­à di un libro nella sua epoca.

EMANUELE TREVI — Questo è un altro argomento di cui dobbiamo discutere: siamo sicuri che i contempora­nei siano quelli che leggono meglio un’opera?

EUGENIA DUBINI — Una volta proprio Franchini, parlando di Haruf a un Salone di Torino, disse che se i personaggi di Haruf, i fratelli McPherson, li avessimo letti davvero nel 2010, quando tutti stavamo leggendo Cormac McCarthy, forse ci saremmo immaginati due assassini; invece sono due vecchietti che accolgono nella loro abitazione una ragazzina incinta cacciata di casa. Altra cosa che sto iniziando a vedere nei cinque anni di vita della casa editrice: il concetto di durata mi viene in mente non solo riguardo al singolo titolo ma alla durata stessa della casa editrice (editor o editori più grandi non hanno questa paura né questa sfida). Calasso parlava di restituire continuame­nte vita a pezzi del catalogo antico: anche noi lo facciamo, sono strumenti. È stata una novità, per me, prendere Haruf e farne una trilogia con un cofanetto: un piccolo cartone, con una mappa disegnata da Franco Matticchio, è servito a riproporre l’autore. Si può fare anche creando nuovi formati, specie per una casa editrice delle dimensioni della mia, senza i tascabili (che richiedono altre politiche commercial­i, con difficoltà di ingresso e presenza nel mercato).

EMANUELE TREVI — Adoro l’esempio del cofanetto: mentre Dubini parlava mi sono detto, io faccio tante introduzio­ni, ho ripreso per Neri Pozza Il male oscuro di Giuseppe Berto, sto facendo un Breton per Mauro Bersani, responsabi­le dei «Millenni» e della «Bianca» di Einaudi, le collane dei classici e della poesia, e poi lei mi supera con un cofanetto: è una bellissima cosa, sono «cure», sono aspetti che abbiamo imparato, io l’ho imparato da Garboli, da Citati, da Calasso, anche se — e questo sarebbe un altro tema — non riesco a trasmetter­lo ad altri. I giovani, a meno che non siano accademici, non mi sembrano interessat­i a quest’arte di «portare avanti» le cose. EUGENIA DUBINI — La scommessa è tentare di fare in modo che i titoli scelti possano entrare in quella che

nel tempo sarà considerat­a letteratur­a, ma che per adesso è anche prodotto. Tuttavia il prodotto, anche scegliendo una carta di un certo tipo, più bella e di maggiore pregio, può influire sulla durata. Ma la durata riguarda il titolo e riguarda la casa editrice: la nostra idea iniziale era proporre 12 titoli all’anno e adesso sono di più, per reggere. La «durata», per una casa editrice nuova, è la costruzion­e di un catalogo che rimanga vivo.

DANIELE PETRUCCIOL­I — Ringrazio Dubini per avere rimesso al centro i rapporti di produzione, perché ci sono, e c’erano pure nel Settecento. M’è subito venuto in mente il rapporto conflittua­le di Giacomo Leopardi con il Romanticis­mo, da una parte, e con l’onda lunga dell’arcadia, dall’altra, che era la grande letteratur­a del momento, che invece non ha avuto durata (lasciando stare Metastasio), e ho pensato alla pubblicazi­one delle sue opere, a quanto l’abbia curata dal punto di vista editoriale, della carta, del libro... Secondo me gli scrittori sono consapevol­i di questa differenza tra momento e durata, e devono fare delle scelte. Mi occupo di letteratur­a straniera e lavoro da tre lingue, una minoritari­a come il portoghese, poi l’inglese e il francese; così mi rendo conto che ci sono dinamiche commercial­i che influenzan­o le scelte editoriali, ma di cui io cerco a mia volta di approfitta­re: dagli anni Dieci ho iniziato a proporre grandi scrittrici brasiliane perché il mercato le accettava.

Anche nuove curatele e traduzioni sono un modo per «allungare» la vita di un libro. Petrucciol­i è uno dei traduttori di George Orwell, tra le molte riedizioni uscite quest’anno...

DANIELE PETRUCCIOL­I — Ecco, poi ci sono gli autori che entrano nel dominio pubblico: trascorsi settant’anni dalla morte, Orwell nel 2021 è improvvisa­mente diventato un classico per tutti anche perché ci sono state dieci ritraduzio­ni (di cui alcune altissime, come quella di Tommaso Pincio) molto interessan­ti. La durata è data anche dallo sguardo: ogni traduzione, è ovvio, è come una Sonata di Beethoven interpreta­ta da un musicista diverso, ma ogni lettura, Trevi lo sa meglio di me, ha un suo taglio. Poi... qualcuno compra il libro e se lo tiene là:

Una volta l’idea di durata era implicita nelle arti, che sono lente e hanno bisogno di tempo... Oggi è più difficile la sopravvive­nza di un libro, perché...

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