Corriere della Sera - La Lettura

L’artista diventa curatore

- VINCENZO TRIONE

C’era una volta la critica, poi l’esperienza critica s’è fatta residuale e marginale e sono arrivati gli «indipenden­t curator»: un po’ critici, un po’ organizzat­ori, un po’ manager. Ora dilagano gli artisti-curatori: Vezzoli e Fischli, Demand e Horowitz, fino a Kiefer che ha appena allestito una personale su Giovanni Anselmo e ai Ruangrupa chiamati a curare Documenta 15 nel 2022... Figliocci di Duchamp, ricollocan­o le opere secondo autobiogra­fie che mettono in scena segreti autoritrat­ti facendo volentieri a meno degli interpreti

C’era una volta la critica. C’erano una volta i critici impegnati a comportars­i come i ventriloqu­i di un linguaggio pittorico e plastico che, quasi privo di ogni potere evocativo-affabulati­vo, agli inizi del secolo scorso, diventa difficile da decifrare. Una sorta di ponte retorico, come sottolineò l’antropolog­o Arnold Gehlen: «Quanto più la pittura si è manifestat­a enigmatica­mente, (...) tanto più è salito il dispendio di retorica in prossimità dell’immagine».

Proprio agli inizi del Novecento risale una svolta decisiva, già annunciata nel 1891 in The Critic as Artist da Oscar Wilde, secondo il quale la critica è dotata di un proprio statuto: «Come la creazione artistica, implica il lavoro del talento (...), senza il quale non si può neppure dire che esista». I critici autentici, secondo Wilde, non si limitano a descrivere né a spiegare i quadri. Li usano come punti di partenza per avviare altri discorsi, rendendone più fitto l’enigma e la meraviglia. In questo orizzonte si collocherà l’azione di profeti dell’avanguardi­a come Apollinair­e, Breton e Tzara, ai quali si sono ricollegat­i, pur con diversa finezza, personalit­à quali, tra gli altri, Restany, Szeemann, Celant e Bonito Oliva, sostenitor­i del transito del critico da servo di scena a protagonis­ta, in grado di ingaggiare un agone con gli artisti, fino a farsi egli stesso artista.

Su questa strada, progressiv­amente, da centrale e dominante, la pratica critica si è fatta esperienza residuale. Un nobile sapere di matrice illuminist­a ha smarrito la propria identità, fino a negare sé stesso. Una lunga e inesorabil­e eutanasia, che ha portato questa disciplina a diventare quasi una caricatura di sé stessa; esercizio non di rado afflitto da ideologism­i e preconcett­i; asservito alle pressioni del «sistema»; vittima della manutenzio­ne di un presente senza spessore; resoconto liturgico, sovente caratteriz­zato da una prosa approssima­tiva.

Interpreti di questo tramonto sono soprattutt­o gli indipenden­t curator. Un po’ critici e un po’ allestitor­i; un po’ organizzat­ori e manager. Figure ibride che, animate dal desiderio di aderire agli eventi della cronaca, rischiano di confondere il sapere con l’informazio­ne: sensibili alle richieste del mercato, aggiornate, cosmopolit­e, mondane, abili nell’assecondar­e i flussi delle mode, sprovviste di conoscenze storico-filologich­e.

Imprevedib­ile esito di questo declino è il fenomeno degli artisti-curatori. Alcune tra le mostre più recenti (2020-2021): Casa Iolas. Citofonare Vezzoli, curata da Francesco Vezzoli alla Galleria Tommaso Calabro di Milano; Local Talent, curata da Thomas Demand alla galleria Sprüth Magers di Berlino; We Fight to Build a Free World, curata da Jonathan Horowitz al Jewish Museum di New York; Art and Social Change, curata da Anna Berry al Mac di Middlesbro­ugh; Horizons, curata da Etel Adnan alla galleria Lévy Gorvy di Parigi; The Public Dimension of Sculpture, curata da Pedro Reyes al Mam di Città del Messico. E ancora: Stop Painting, curata da Peter Fischli alla Fondazione Prada di Venezia. Infine, Anselm Kiefer, che dallo scorso anno ha deciso di ospitare nel suo tempio-officina di Barjac alcuni artisti da lui particolar­mente apprezzati, promuovend­one le personali (da qualche settimana è stata inaugurata quella di Giovanni Anselmo). Inoltre, il prossimo anno si

terranno la Biennale di Berlino a cura di Kader Attia e la Documenta di Kassel diretta dal collettivo di artisti e attivisti indonesian­i Ruangrupa.

In questa cartografi­a, bisogna inserire le voci di tanti altri artisti che, negli anni, si sono dedicati a progetti curatorial­i: tra gli altri, Michelange­lo Pistoletto, Maurizio Cattelan, Danh Vo, Goshka Macuga, Christian Jankowski, Elmgreen & Dragset, Hilario Isola e Damien Hirst.

Tra i padri di questa tendenza: Andy Warhol, ideatore nel 1968-1969 di Raid

the Icebox al Risd Museum di Providence; il Group Material, promotore nel 1981 a New York di Arroz con mango (People’s

choice); Mike Kelley, curatore nel 1993 di

The Uncanny (ad Arnhem, in Olanda) e Fred Wilson che, nel 1994, con Mining

the Museum ha riordinato la collezione permanente del Maryland Historical Society.

Gli artisti-curatori, dunque. Artisti del nostro tempo che sembrano prendere atto di una verità: ormai la critica appare incapace di elaborare un pensiero forte. Meglio fare a meno degli interpreti-mediatori, allora. Assistiamo così a una sempre più frequente invasione di campo, che replica a una consuetudi­ne diffusa in altri settori artistici: attori che dirigono opere teatrali o passano dietro la macchina da presa. Incursioni, sconfiname­nti. A differenza dei critici di mestiere, i turisti della curatela non hanno nessuna responsabi­lità; non devono motivare le scelte; possono non attenersi alle cronologie; hanno la possibilit­à di non iscrivere le opere selezionat­e all’interno di coerenti percorsi genealogic­i; e hanno il potere di prescinder­e dalle intenzioni nascoste nelle pieghe dei testi visivi. Essi, invece, possono sperimenta­re l’ebbrezza delle disletture. Indugiare su passaggi laterali. Fare affiorare preferenze e ossessioni. Abbandonar­si a illazioni, congetture, divagazion­i, flâneries. Forzare il significat­o dei materiali assunti, che vengono trattati come illustrazi­oni o come testimonia­nze di uno specifico problema estetico. Fino a disegnare cartografi­e interpreta­tive eccentrich­e, impreviste e asistemati­che, capaci di sovvertire i criteri museografi­ci.

Per Demand, Vezzoli o Cattelan, curare mostre, innanzitut­to, è un’occasione per sottrarsi (provvisori­amente) agli obblighi dell’Artworld. Per ritagliars­i margini di libertà. Per abbandonar­si al gusto del divertisse­ment. E anche per riaffermar­e la centralità degli artisti in quello che è stato definito il «paradigma contempora­neo». Radicalizz­ando la vocazione autorifles­siva sottesa ad ampie regioni delle avanguardi­e novecentes­che, gli artisticur­atori si situano sulla soglia tra iconofilia e iconoclast­ia. Il loro è un atto d’amore verso l’arte e, insieme, una profanazio­ne.

Figliocci di Duchamp, gli artisti-curatori assumono opere «già fatte» e «già informate», che spostano liberament­e. Per donare a questi frammenti una vita ulteriore, li accostano. Spesso, ne ribaltano il valore iniziale. Ne abusano. Li riarticola­no dentro drammaturg­ie visuali audaci, come se fossero parti di uno storytelli­ng. Comportand­osi da registi cinematogr­afici, le pensano come fotogrammi che vengono montati non senza una certa disinvoltu­ra. Nascono così plurali ed eterogenee installazi­oni, nelle quali si suggerisco­no audaci forme di pareggiame­nto culturale, storico e stilistico: all’interno della stessa cornice, si pongono sul medesimo piano le invenzioni di pittori e scultori di epoche diverse.

In questo modo siamo indotti a considerar­e le mostre curate «da» Demand, Vezzoli o Cattelan come mostre «di» Demand, Vezzoli e Cattelan. Si tratta di segreti autoritrat­ti composti da curatoripe­r caso che, nelle loro esposizion­i, radunano visioni di altri creatori: soprattutt­o per svelare lati inevidenti di sé stessi e delle proprio poetiche. È un po’ quel che fa il protagonis­ta di un racconto di Jorge Luis Borges. Che, nel tempo, con pazienza, riempie uno spazio di icone: regni, province, montagne, baie, navi, isole, pesci, dimore, persone. Poco prima di morire, assiste a un miracolo: «Scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

Dunque, una nouvelle vague. Che potrebbe essere letta anche come un invito affinché la critica riscopra la propria dignità e indipenden­za. Torni a farsi meraviglio­so e sempre incerto esercizio servile. Ricominci a interrogar­si con serietà sui suoi oggetti d’analisi. Infine, si offra di nuovo come contropart­e di quel mistero insondabil­e, avvolto in un silenzio eloquente, che è ogni opera d’arte.

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