Corriere della Sera - La Lettura
L’altro sguardo
Da settembre Forlì espone i lavori di trenta fotografe per presentare una visione originale del Novecento: la miseria dell’America, le comunità Lgbtq+ africane, il lockdown
Che cos’hanno in comune Dorothea Lange, Tina Modotti, Gerda Taro, Eve Arnold, Zanele Muholi, Newsha Tavakolian, Silvia Camporesi? Dove vedono la bellezza? Come raccontano i dolori del Novecento? Quali sono le passioni che le hanno attraversate? Quale il loro ruolo? A queste domande — e a tante altre — prova a rispondere la mostra Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo in programma da settembre a Forlì. L’esposizione era già prevista nell’autunno scorso, ma viene riproposta ora a un anno di distanza in un percorso arricchito.
Armate di macchina fotografica, le donne — trenta in esposizione con una serie di dieci immagini ciascuna per comprendere gli elementi essenziali delle singole estetiche — si sono soffermate spesso su storie marginali portando le sofferenze alla ribalta, nella convinzione necessaria di trovare alla sofferenza un posto nel mondo. Autrici che hanno interpretato la fotografia come strumento di indagine e di riflessione, di impegno civile, trasformano il percorso, di ciascuna e della mostra stessa, in un viaggio nell’evoluzione del linguaggio fotografico mondiale e di una sensibilità particolare. Guardate con delicatezza ed empatia, le vite degli ultimi sono state la testimonianza anche dell’evoluzione del ruolo delle donne in generale e delle donne fotografe in particolare, che dagli anni Trenta a oggi l’esposizione Essere umane racconta perfettamente. «Rispetto a un passato anche recente, oggi c’è più equilibrio nella presenza di autori e autrici in agenzie, mostre e contesti legati alla fotografia — commenta Walter Guadagnini, curatore della mostra e direttore di Camera, il Centro italiano per la Fotografia di Torino —. È importante però mettere nella giusta prospettiva e nella giusta luce il contributo delle fotografe. L’appuntamento di Forlì aggiunge un tassello a questo intento».
L’esposizione individua un arco temporale di avvenimenti determinanti del Novecento. Gli Stati Uniti segnati dalla Grande Depressione si fissano agli occhi, e nell’obbiettivo, di Dorothea Lange, nei volti degli agricoltori colpiti dalla crisi: Migrant Mother, scattata in un campo di lavoro, diventa l’immagine simbolo di un’epoca e di una condizione universali.
Poi c’è Eve Arnold, nata in America da genitori ebreo-russi immigrati per sfuggire alle persecuzioni. Durante un corso di fotografia con Alexi Brodovitch nel 1950, comincia a fotografare ogni domenica le sfilate che si svolgono nelle chiese di Harlem, a New York.
Henri Cartier-Bresson e Robert Capa la notano e la invitano a unirsi alla Magnum. Sarà la prima donna.
Tina Modotti, italo-messicana, trasforma il mezzo fotografico in attività al servizio dell’impegno sociale e della libertà. Il ritratto della donna con la bandiera è un emblema, scattato al rientro da una manifestazione comunista a Città del Messico.
Quando Hitler diventa cancelliere, la tedesca Gerda Taro si trasferisce a Parigi e incontra Robert Capa. Insieme, in squadra, partono per documentare la guerra civile spagnola. Lo stile grafico semplice e l’impatto emotivo delle sue immagini, come la donna con la pistola, le restituiscono finalmente il meritato riconoscimento.
Tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento i racconti fotografici, ancora pensati per essere pubblicati in libri o su giornali, sono caratterizzati dalle denunce delle condizioni di alcune fasce di popolazione in contesti sociali trascurati. Si inquadrano in questa visione i lavori di Susan Meiselas sulle Carnival Strippers ,di Lisetta Carmi con la serie dedicata alla comunità di travestiti a Genova, di Letizia Battaglia su bambine e omicidi a Palermo. Dagli anni Novanta le narrazioni fotografiche diventano anche soggetto di installazioni in luoghi museali, come quelle pensate da Cristina de Middel per la serie Afronauts, il racconto surreale di una spedizione nello spazio basata su un reale progetto cosmonautico dello Zambia (ne ha scritto Namwali Serpell su «la Lettura» della scorsa settimana).
«La fotografia — sottolinea Walter Guadagnini — è diventata pratica diffusa in tutto il mondo e ha introdotto nel contesto internazionale donne fotografe da ogni angolo della Terra. Il risultato è un modo nuovo di intraprendere una conoscenza più approfondita del pianeta. Zanele Muholi ne è un esempio: mostra la ricchezza della fotografia africana contemporanea».
I ritratti di Zanele Muholi, che ha documentato la vita delle comunità Lgbtq+ dell’Africa, discriminate e traumatizzate, sfidano lo sguardo dello spettatore fissando dritto l’obbiettivo. Le serie di Muholi creano una storia visiva di queste comunità come forma di resistenza edi esistenza.
L’iraniana Newsha Tavakolian, oggi parte dell’agenzia Magnum, si è occupata delle guerre in Iraq e delle questioni sociali in Iran. Ha fotografato le guerrigliere nel Kurdistan iracheno, in Siria e tra le Farc colombiane.
Attualissime le trenta immagini su tre file da dieci fotografie del lavoro Domestica che Silvia Camporesi ha realizzato durante il primo lockdown del 2020. Un documento che rappresenta la pienezza dell’essere donna, fotografa e madre. Nato per mantenere un dialogo giornaliero rasserenante e creativo attraverso il gioco con le figlie «è diventato — racconta Camporesi — un atto di resistenza artistica quotidiano. Fotografo paesaggi, ma non potendo uscire ho provato a tirare fuori, dal mondo di oggetti e di cose usuali di casa, una, solo una, immagine ben fatta».
Perché questo è lo sguardo di Essere umane: cronaca (sostantivo femminile) della storia (sostantivo femminile)