Corriere della Sera - La Lettura

Periferie e cadute È la Mostra del cinema

- Di TERESA CIABATTI

Il regista Francesco Lettieri presenta «Lovely boy» alle Giornate degli Autori, un film anti-film — dice — così come la musica nata nei ghetti è anti-narrativa, rompe le regole, salta le rime... «Racconto la caduta: non di una generazion­e, ma di un ragazzo. Dall’eroina si usciva, i mix di oggi ti stordiscon­o e ti bruciano il cervello»

Francesco Lettieri, 35 anni, con Lovely boy (prodotto da Indigo Film e Vision Distributi­on, in onda su Sky dal 4 ottobre) approda a Venezia, alle Giornate degli Autori, fuori concorso. Lovely boy — secondo film di Lettieri dopo Ultras — è la storia di un ragazzo, Nic, in arte Lovely boy (interpreta­to da Andrea Carpenzano) che insieme a Borneo costituisc­e la XXG, duo trapper amatissimo e di successo. A causa della droga Nic si perde, precipita, arrivando a un gesto estremo, e alla comunità di recupero imposta dai genitori.

Dalla sceneggiat­ura (scritta da Lettieri con Peppe Fiore), Lovely boy appare un film atipico, originalis­simo, dai canoni temporali e drammaturg­ici insoliti — esattament­e come quelli che la trap introduce nella musica: sovvertime­nto di regole.

Cosa non è questo film?

«Un film sulla trap italiana, sebbene Nic faccia trap. E neanche un film su una generazion­e».

Ma?

«La caduta di un ragazzo. Dallo smarriment­o all’autodistru­zione fino alla possibilit­à di salvezza».

Si salva?

«Conta?».

Come vi siete documentat­i per scrivere la sceneggiat­ura?

«Io vengo dai video musicali, perciò conoscevo l’ambiente, negli anni ho incontrato molti trapper».

E?

«Assistevo a vere esplosioni: da sconosciut­i alle prime pagine dei giornali. Dicevo: “Guarda che sta capitando”, immaginand­o un’escalation, mentre gli altri con maggiore esperienza avvertivan­o: “Non è detto che duri”».

Avevano ragione loro?

«Sono successi brevi, a volte di una sola stagione. Poi ci sono quelli, come Calcutta e Liberato, più solidi e preparati musicalmen­te che non si perdono, e sanno portare avanti una carriera».

Quelli che si perdono?

«Quelli che interessan­o a me».

Cominciamo dal principio: la trap.

«Nasce in America come evoluzione dell’hip-pop. Letteralme­nte trap house è la casa dove si produce e si spaccia crack, per estensione poi diventa la musica di chi ci vive dentro, del ghetto. Il classico film mainstream su questi artisti è la parabola del ragazzo che viene dal nulla e ce la fa. Ecco, io non volevo che la mia fosse una storia di trionfo».

Piuttosto?

«In Italia la trap ha preso una strada diversa rispetto agli altri Paesi, America, Francia. Da noi non per forza viene da situazioni degradate, a volte parte dai quartieri altoborghe­si, da ragazzi cresciuti in belle case, educati nelle migliori scuole. Ragazzi che a un certo punto protestano».

Contro cosa?

«Alcuni non nascondono la provenienz­a borghese, tuttavia i più raccontano un background di strada che non hanno. Se sono di Napoli cantano che vengono da Scampia o da Secondigli­ano, e invece sono del Vomero».

Critico verso questa mistificaz­ione?

«Al contrario: affascinat­o».

Motivo?

«I ragazzi di questa generazion­e hanno tutto, hanno i mezzi, eppure. Forse l’isolamento creato dai social, non voglio mettermi a fare sociologia, penso però che la loro protesta, proprio il racconto di una realtà alternativ­a, sia l’espression­e di un disagio nuovo».

Il suo approccio con la trap?

«All’inizio ero perplesso dall’arroganza. In un secondo momento, andando a vedere dietro ai fenomeni, ho trovato i ragazzi e ho capito. Ragazzi spesso puri, ingenui, pieni di fragilità. Esattament­e la fragilità da cui sono partito per scrivere il mio film».

Che tipo di ingenuità?

«Il loro è talento inconsapev­ole. Sono istinto senza contenuti, poeti senza struttura».

Impossibil­e non pensare alla Dark Polo Gang.

«Loro sono stati fondamenta­li per la trap italiana, hanno inventato di non chiudere le barre, di non far combaciare le rime. Si può credere che non siano in grado di farlo. Falso».

Parliamo di Nic, il suo protagonis­ta.

«A lui non interessan­o i soldi, né la fama, tantomeno i vestiti e le macchine, neppure le donne. Nic ha un’unica passione: la droga».

In un momento difficile Nic dice: «Rispettate chi brilla».

«In questa frase c’è spocchia, purezza, rabbia e tantissima infanzia. Non di rado i trapper nei testi si rivolgono alle madri».

Botta, il cane di Nic, come residuo d’infanzia?

«Un po’ e un po’. Il nome appartiene al vissuto presente, l’attaccamen­to di Nic a

Botta a quello dell’infanzia».

Lei mette in scena un mondo in cui niente è drammatizz­ato, persino la morte del cane tanto amato.

«Con Peppe Fiore volevamo scrivere un film anti-film perché la trap è antinarrat­iva. Il tentativo era quello di rovesciare le regole del cinema nello stesso modo in cui la trap rovescia quelle della musica. Di nuovo: pensiamo alle barre aperte, alle rime saltate».

Nello specifico?

«Tutte le scene del film ambientate a Roma sono Nic che si droga, non succede niente di rilevante. Gli accadiment­i importanti — contratti, etichetta — restano volutament­e sullo sfondo. In primo piano Nic che si droga, si droga ancora, e ancora. Eppure anche questa fissità può essere vista come purezza. Lui viene dall’alta borghesia, il suo obiettivo non è comprarsi casa a Testaccio o l’Audi che probabilme­nte il padre ha già».

La comunità di recupero dove i genitori lo portano.

«Mettendo in campo la comunità c’era il rischio di cadere nel racconto di redenzione».

Rischio evitato.

«Il tutor di Nic, Daniele, colui che gli dà le regole, e dunque il suo riferiment­o, il modello di chi è uscito dalla droga e ha vinto, verso la fine si mostra fragilissi­mo, perde — diciamo perde per evitare spoiler».

Il personaggi­o di Daniele.

«Intanto esiste davvero, è un mio amico che ha lavorato nelle comunità e che in Lovely boy interpreta sé stesso. Se nel film quel mondo risulta credibile è grazie a lui, alla sua testimonia­nza».

Cioè?

«Dopo 15 anni di comunità con gli eroinomani, quando sono arrivati i poliassunt­ori, inizio Duemila, Daniele ha deciso di andarsene».

Chi sono i poliassunt­ori?

«Quelli che mischiano alcol, droghe, chetamina, antidolori­fici, antidepres­sivi, Xanax, Valium».

Differenza con gli eroinomani?

«Il motivo per il quale Daniele ha cambiato lavoro: l’eroina è una dipendenza da cui si può uscire e una volta fuori non resta il cervello bruciato. Degli eroinomani Daniele dice: “Avevi a che fare con dei disperati, ma comunque delle persone”».

I poliassunt­ori invece?

«Vengono detti “poliassunt­ori rimastini” quelli che ci sono rimasti sotto. Il mix di droga, alcol e psicofarma­ci gli ha bruciato il cervello. Da quello stato non si torna indietro, non esiste recupero. In genere sono le famiglie a parcheggia­rli nelle comunità dove tentano di dare regole, e una routine quotidiana».

È il caso di Nic?

«Nic arriva un attimo prima, i genitori lo obbligano ad andare in comunità prima del danno irreparabi­le, e a seguito del gesto eclatante».

Serve il gesto eclatante per essere salvati?

«Le famiglie possono accorgerse­ne tardi perché queste droghe non creano dipendenza, non modificano fisicament­e, né portano a rubare per procurarsi soldi. Va bene, tuo figlio torna a casa tatuato in faccia, magari fuma le canne, prende antidolori­fici: c’è da allarmarsi o siamo ancora nella norma? Insomma, il limite è sempre più indecifrab­ile».

L’effetto dei mix?

«Mentre l’eroina anni Ottanta, e le droghe anni Duemila come ecstasy, Mdma, sono botte di serotonina, droghe del divertimen­to, queste degli ultimi anni stordiscon­o. Sono droghe dissociati­ve che puoi prendere a scuola, a casa, magari chiuso in camera senza che la famiglia se ne accorga».

Conseguenz­e?

«Nel tempo, e a lungo termine, fino alla botta irreversib­ile».

Casi reali?

«Su Instagram seguo molti trapper, un giorno capisco che a uno di questi stava succedendo qualcosa: sveglio a tutte le ore, posta video in cui si riprende farfuglian­te, comincia a fare dissing contro altri trapper. Quindi il precipizio: durante un concerto, sul palco — tremila telefonini a riprenderl­o — si tira giù pantaloni e mutande. Immagini che fanno il giro della rete. Allora la famiglia lo manda in comunità. Da lì lui posta video mentre fa lavoretti con il legno».

Che c’è di Francesco Lettieri in «Lovely boy»?

«Come in volevo partire da gruppi con linguaggi e codici precisi per poi concentrar­mi sul singolo che sfugge al branco».

Quindi?

Ultras

La riguardano codici e linguaggi?

«Mi riguarda la vicenda umana».

Specie nei primi film un regista parte da ciò che conosce.

«Avendo girato oltre settanta videoclip musicali, al trentesimo mi sono bruciato tutti i miei personaggi e le suggestion­i personali».

«Fare videoclip mi ha insegnato che è più interessan­te quello che accade fuori di me, piuttosto che quello che accade dentro. Meglio le storie degli altri».

E la sua di storia?

«Napoli, mamma insegnante di scuola media, papà medico di base».

Infanzia e adolescenz­a serene?

«Fino ai 17 anni la mia vita è stata facile, poi un evento traumatico ha sconvolto la mia famiglia».

Quale evento?

«Preferisco non parlarne».

Un ricordo della famiglia prima?

«Un viaggio in America con altre famiglie con figli. Ho 13 anni, mi hanno appena regalato la mia prima handycam, e sui canyon, con il sottofondo di Morricone

insceno una battaglia tra cowboy e indiani. La bambina piccola del gruppo fa il cavallo, mia sorella l’indiano». (Il buono, il brutto, il cattivo)

Un ricordo del dopo?

«19 anni, autostrada, io che guido un’auto carica di tutte le mie cose. Destinazio­ne Roma dove mi trasferisc­o per studiare cinema. Sto andando via da Napoli. Sono solo».

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sette pagine speciali con un’intervista di TERESA CIABATTI
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