Corriere della Sera - La Lettura
L’America non è in pace con l’11 settembre Kabul è colpa nostra
Ayad Akhtar è nato a New York, figlio di immigrati pachistani. Ha vinto il Pulitzer nel 2013 con un testo teatrale sul rapporto tra Oriente e Occidente . Il nuovo romanzo è un esercizio di autofiction. Su di sé, la famiglia, gli Usa
Che cos’è l’America? La definizione più popolare è racchiusa nel titolo di una pièce quasi dimenticata del drammaturgo inglese Israel Zangwill (18641926), figlio di ebrei russi. The Melting Pot («il crogiolo», «il miscuglio») debuttò il 5 ottobre 1908 al Columbia Theatre di Washington, alla presenza del presidente Theodore Roosevelt. Il protagonista, l’ebreo russo David Quixano, sopravvissuto a un pogrom che ha ucciso la madre e la sorella, spera di scrivere un nuovo capitolo della sua storia negli Stati Uniti. Per scacciare i fantasmi dell’odio etnico, e come simbolo di buon auspicio, Quixano compone una Sinfonia americana.
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX la promessa era di trasformare in «americani» tutti coloro che cercavano una vita migliore al di là dell’Oceano — 18 milioni di nuovi cittadini tra il 1890 e il 1920 — e di renderli parte di una democrazia fondata sulla libertà e sulla responsabilità civica.
Un altro drammaturgo, il contemporaneo Ayad Akhtar (1970), premio Pulitzer nel 2013 per l’atto unico Disgraced ,ha reinterpretato la formula di Israel Zangwill in una chiave più pessimistica, disillusa. Nel romanzo Elegie alla patria ,in uscita per La nave di Teseo, Akhtar definisce l’America una «soluzione tampone»: «Lo chiamano un crogiolo di razze, ma non lo è. In chimica esiste quella che si chiama una soluzione tampone, che mantiene le cose assieme ma sempre separate. Ecco cos’è questo Paese. Una soluzione tampone».
Elegie alla patria è il secondo romanzo di Akhtar dopo American Dervish (2012), uscito in Italia per Mondadori con il titolo La donna che mi insegnò il respiro .Il nuovo libro è un esercizio di autofiction, nel quale l’autore prende spunto dal proprio vissuto per costruire un’epopea famigliare. Anche il protagonista, narratore in prima persona, è un drammaturgo premio Pulitzer, di nome Ayad Akhtar. È figlio di immigrati pachistani musulmani, come il vero Ayad Akhtar, arrivati in America in cerca di fortuna dopo il 1965, «quando le quote per le persone provenienti dal subcontinente erano state innalzate».
Sikander, il padre cardiologo, negli anni Novanta è stato il medico di Donald Trump. Ha curato il futuro presidente per un’aritmia, diventando poi suo grande sostenitore ed elettore. Sikander Akhtar era innamorato della visione trumpiana dell’America: un Paese dove puoi fare ciò che vuoi, dove puoi diventare chi vuoi.
A quanti si chiedono se Elegie alla pa
tria abbia più a che fare con l’autobiografia che con la fiction, Akhtar risponde affidandosi a una citazione di D.H. Lawrence: «Non fidatevi mai dell’artista. Fidatevi del racconto».
Ayad Akhtar si muove con spietata destrezza tra le epoche più feroci del Dopoguerra: la Partizione dell’India da cui nacque il Pakistan (1947); la crisi degli ostaggi in Iran (1979-1981); la guerra in Afghanistan del 1979-1989 e l’intervento del 2001, appena concluso con il ritiro delle truppe americane e il drammatico ritorno dei talebani; l’arrogante epoca reaganiana (1981-1989); l’elezione e l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, tra il 2016 e il 2017. Su tutto incombe come una patina nera il fantasma dell’11 settembre, il giorno che ha precluso «per almeno un’altra generazione» il futuro degli americani di discendenza o di religione musulmana.
Presidente dal dicembre 2020 del Pen America — organizzazione non profit impegnata nella tutela del diritto di espressione attraverso la promozione della letteratura — Ayad Akhtar ha discusso di Elegie alla patria con «la Lettura», in una conversazione su Zoom.
Partiamo dalla cronaca. Che cosa ha provato nel vedere le immagini dei talebani che riconquistano Kabul, dopo il ritiro americano e il disastro di una guerra lunga vent’anni?
«La politica estera americana si fonda su un semplice assunto: “Non ce ne frega nulla di te, a meno che tu non interferisca con i nostri interessi”. La cosa bizzarra è che gli Stati Uniti sono il Paese che si arroga il diritto di rendere il mondo un posto migliore. È un approccio ipocrita e opportunista. Non siamo gli unici ad avere cominciato guerre, ad avere lasciato in eredità morte e distruzione; altri imperi nella storia hanno fatto lo stesso. L’ironia atroce è che quest’anno ricorrono i vent’anni dell’11 settembre e lo scopo principale per cui abbiamo invaso l’Afghanistan s’è rivelato un fallimento. Abbiamo fatto in modo che si verificasse ciò a cui ci opponevamo, ovvero che i talebani riprendessero il controllo del Paese. Possiamo prendercela solo con noi stessi».
Nel libro propone una lettura storica, culturale e sociologica degli eventi che hanno portato all’11 settembre 2001 e che ne sono seguiti negli anni.
«Questo è un romanzo sull’America, scritto in risposta a un’urgenza specifica: siamo un Paese che ancora non è in grado di affrontare la tragedia dell’11 settembre. Siamo un Paese che ancora non riesce a discutere dell’11 settembre. Poco tempo fa ero ospite di un seguitissimo programma radiofonico, “Fresh Air”, sull’emittente Npr. Mentre riflettevo sulla genealogia degli eventi che hanno portato all’attacco delle Torri Gemelle, ponendo l’accento sulle responsabilità americane — una cosa che anche dopo vent’anni non ci piace ammettere —, l’intervistatore mi ha interrotto per chiarire al pubblico in ascolto che non stavo giustificando un atto di terrorismo di massa. Sono rimasto di stucco. Tutto ciò che stavo facendo era illustrare fatti storicamente provati. Negli Stati Uniti l’11 settembre viene trattato alla stregua di un evento sacro mentre gli americani sono le vittime di un male oscuro, di una tempesta satanica emersa dalle profondità dell’universo. Come se noi non avessimo niente a che fare con tutto ciò. Due decenni dopo non siamo ancora in grado di parlarne».
La narrazione letteraria e artistica dell’11 settembre ha bisogno di essere aggiornata?
«Gli scrittori sono dei testimoni. Un bravo scrittore deve offrire una versione alternativa, basata sui fatti storicamente attendibili, rispetto a quella “ufficiale”. Un bravo scrittore deve sapere che gli eventi storici prendono forma anche grazie a una certa dose di nazionalismo».
In «Elegie alla patria» cita William Gaddis, secondo il quale un autore ha bisogno «di una sufficiente scorta di rabbia per sostenere la volontà di scrivere». Lei ne aveva abbastanza?
«L’ispirazione per Elegie alla patria è arrivata quando ero a Roma, all’Accademia americana. Il punto di partenza è il primo dei Canti di Leopardi, la lirica All’Italia, nella quale il poeta denuncia la decadenza del proprio Paese. Era difficile essere americano nel 2018, un anno dopo l’inizio dell’era Trump, quando ho cominciato a scrivere il romanzo. Era come se il Paese avesse smarrito il suo significato. Trump non era un’aberrazione, era l’incarnazione di certi principi radicali dell’esistenza americana, che si sono imposti negli ultimi cinquant’anni. Quel quadro diventava sempre più chiaro, soprattutto se mi concentravo sui miei genitori. Mia madre era morta, mio padre se ne sarebbe andato di lì a poco. Le loro esistenze erano la prova del fallimento della promessa americana. La loro integrazione non si è mai totalmente realizzata. Sentivo parlare ogni giorno del sogno americano, di quanto siamo eccezionali, ma non trovavo conferme nella realtà. Ho cercato di raccontare quello che ho visto e sentito. Non so se con sufficiente rabbia, ma sicuramente con passione».
Il romanzo si apre con una «Ouverture» dedicata ai suoi concittadini. Qui l’America è descritta come un luogo devoto «al culto del desiderio», «una colonia finalizzata al saccheggio»...
«Ho cominciato con un’ouverture perché il romanzo, nella mia testa, è nato come una sinfonia con molti movimenti al suo interno. L’architettura musicale è al servizio di un unico scopo: dare voce a una molteplicità di punti di vista. Uno dei miei modelli era Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, che ha una struttura sinfonica. Nel libro passo in rassegna mezzo secolo di storia americana attraverso gli occhi dei miei genitori. Che Paese hanno trovato al loro arrivo? Che Paese era quello in cui sono morti? E come è cambiato nel frattempo?».
La difficoltà di raggiungere una reale integrazione in America è rimarcata nel libro attraverso l’uso insistente dei pronomi «noi» e «loro».
«In America non esiste una continuità etno-linguistica, come in molti Paesi europei. La nostra identità è più un’idea, basata sulla ricerca di un’opportunità. Come spiega la professoressa Mary Moroni, uno dei personaggi del libro a cui sono più affezionato, l’America è la “colonia” in cui ti trasferisci per fare fortuna. Puoi aspirare a essere americano ma non necessariamente ti sentirai veramente tale, non allo stesso modo in cui ti senti pachistano
o italiano. Ci sono sempre dei nuovi “noi” e “loro” nell’esperienza americana. È la storia di questo Paese».
Philip Roth e Arthur Miller sono stati i suoi maestri. Che cosa ha imparato da loro?
«Le pagine di Roth hanno il potere di riflettere in maniera abbagliante l’interiorità dei personaggi, ti portano dentro i loro pensieri. Da Roth ho imparato a curare la forma, lo stile. Amo Miller perché ha avuto il coraggio di superare le convenzioni drammaturgiche americane, che restringevano il campo ai conflitti privati dei protagonisti. Miller ha saputo guardare ai grandi sconvolgimenti del mondo, ha indagato morte e spargimenti di sangue, le loro conseguenze su larga scala. Ho capito subito che volevo scrivere alla maniera di Miller».
Sikander, il padre immigrato che venera Trump; Fatima, la madre che si pente di essersi trasferita in America; Shafat, lo zio che si converte al cristianesimo... Le storie particolari del libro diventano esempi universali. Ogni personaggio del romanzo indaga un aspetto della fatica e degli sforzi per integrarsi in America?
«Già quattro secoli fa, Shakespeare concepiva i suoi personaggi come l’emblema di qualcosa di più grande; i loro drammi personali portavano con sé i drammi del mondo. Se il particolare è narrato sufficientemente bene, il lettore scoprirà da sé l’aspetto universale».
Nel capitolo intitolato «Il Paese di Dio», il protagonista (musulmano) incontra sulla sua strada quattro personaggi, metafore degli evangelisti.
«Sono l’agente Matthew (Matteo), il conducente di taxi Mark (Marco), lo zio Shafat, che cambia il suo nome in Luke (Luca) dopo la conversione, e il meccanico John (Giovanni), che ripara la macchina di Ayad. È un capitolo che esplora le difficoltà di essere musulmani in America, in particolare dopo l’11 settembre. Come si vive in una terra cristiana che non si riesce a capire? La soluzione è “provare” a sentirsi americani, abbracciando una nuova fede religiosa».
A un certo punto, per evitare che la sua fede musulmana possa creargli problemi dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il narratore comincia a indossare un crocifisso.
«È una soluzione temporanea, dettata più dall’istinto che da una riflessione ponderata. Per altri, la questione dell’appartenenza culturale si risolve provando a diventare ricchi. I soldi sono il vero motore del sogno americano».
Come ha vissuto l’avvicendamento delle amministrazioni di Donald Trump e Joe Biden?
«Trump ha rappresentato una forma di isteria collettiva. Fare politica in America, sia a destra che a sinistra, significa oggi urlare e poi urlare ancora più forte. A mio parere non c’è stato un cambiamento così radicale nell’avvicendamento tra le due amministrazioni. Detto questo, è un sollievo non doversi alzare ogni giorno con il terrore di ciò che può combinare Trump».
Nel romanzo attribuisce grande importanza al mondo dei sogni. È un modo per interpretare il nostro tempo?
«Sì. Se narrare una storia significa fare i conti con una successione cronologica di eventi, anche rimescolando, come faccio io, quella stessa successione attraverso salti in avanti e indietro, allora la struttura dei sogni diventa un modo per capire il passare del tempo. La storia si ripete sempre in qualche modo. E qui torniamo all’attualità: con l’Afghanistan abbiamo appena vissuto un déjà-vu».
Il finale del libro è inaspettatamente positivo. Esiste ancora un sogno americano?
«C’è un continuo rovesciamento di destini. C’è un padre che ama l’America ma che alla fine decide di ritornare in Pakistan. C’è un figlio che nutre sentimenti ambigui verso gli Stati Uniti ma che finisce per abbracciare la vita in quel Paese, perché si sente a casa. Ogni rovesciamento di sorte ha a che fare con l’energia narrativa che uno scrittore mette in atto. Le storie che vale la pena leggere sono storie di profondi rinnovamenti».