Corriere della Sera - La Lettura
L’utopia della campagna contro i veleni del Libano
Il suo esordio alla regia, Costa Brava, è uno dei titoli più attesi in concorso nella sezione Orizzonti (nel palinsesto Extra) di Venezia 78, poi andrà al festival di Toronto. Ma il primo lungometraggio di Mounia Akl — da tempo sotto i radar delle rassegne, fin dal corto Submarine, selezionato a Cannes nel 2016 — ha rischiato di non vedere la luce. L’esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020 ha travolto anche la sede dell’Abbout Productions. «Abbiamo perso le nostre case, gli uffici — racconta la regista, 32 anni, via zoom da Barcellona dove sta lavorando agli ultimi ritocchi del film con la collega spagnola Clara Roquet
— e affrontato i sintomi del disturbo post-traumatico. Come puoi accettare l’idea che la tua città sia distrutta, che il tuo Paese stia annegando, l’economia collassando? Persino il budget del film è cambiato, perché i soldi in banca hanno perso valore. Abbiamo pensato di mollare. Ma ci siamo detti: se ci fermiamo, se smettiamo di raccontare storie, ci prenderanno tutto. Sarebbe stato un enorme fallimento se ci fossimo lasciati calpestare, se avessimo accettato di agonizzare. Quindi sì, questo film è stato un miracolo collettivo, ci siamo sostenuti a vicenda, come una terapia di gruppo. E portarlo ai festival proprio ora, di fronte alla sofferenza del nostro Paese, mi fa sentire come se stessi portando il Libano con me».
La storia ruota intorno ai Badri, Walid e Souraya, le loro figlie Tala e Rim, la nonna: vivono in una casa immersa nella natura, in una sorta di sostenibilità autarchica fino a quando la costruzione di una discarica rompe l’equilibrio. Quanto è cambiato il film dopo l’esplosione al porto?
«Quando lo abbiamo scritto, con Clara Roquet, cinque anni fa, doveva essere ambientato in un futuro distopico, come Submarine. Nel corto tutti indossano mascherine a causa dell’epidemia causata dalla crisi dei rifiuti, e adesso, se lo guardi, sembra un film del 2020. In origine Costa Brava era la storia di una famiglia nel 2030, abbiamo immaginato il peggiore degli scenari: il Paese sta annegando nella crisi ambientale e l’economia è al collasso, tutti nella città indossano mascherine, la città non è un posto sicuro. Questa famiglia si costruisce la propria utopia, prova a creare una bolla d’isolamento lontano dalla metropoli che ha spezzato loro il cuore. Ma quando è stato il momento di girare, la realtà mi ha raggiunto, è diventata come la distopia che avevo ipotizzato. Il Libano stava peggio di come l’avessi immaginato in un film di fantascienza del 2030, peggio di come potessi mai immaginare, quindi non aveva più senso ambientarlo nel futuro. Perché il 2020 era diventato peggio della distopia romanzata».
La prima scena è ambientata proprio al porto di Beirut.
«Ironicamente era già previsto: il film si apriva con una grande statua che lasciava il porto. Quello che ha sempre connotato il suo profilo erano i silos. Dopo l’esplosione del 4 agosto, erano completamente distrutti, sono diventati l’immagine simbolo dei notiziari. Con il mio direttore della fotografia ci siamo domandati se fosse il caso di cambiare, ma ci siano detti: “Questa è la nostra realtà, questo ora è il porto”, e lo abbiamo incluso come parte del contesto. Ma non ho dovuto cambiare la sceneggiatura, riscrivere molto, perché la natura della storia libanese è circolare, continua a ripetersi. Diciamo che si contestualizza da sola, sfortunatamente».
Il film ha toni da commedia nera.
«Ciò che davvero caratterizza i libanesi è il loro humour, il loro calore, il loro sangue caldo. L’umorismo è parte del modo in cui affrontiamo le tragedie, è come uno strumento per guadagnare tempo o per alleggerire le cose, anche se non sembrano affatto leggere. Quando ho scritto il film, ho evocato questo umorismo come parte dei personaggi. Il loro modo di essere cinici e usare l’ironia come uno strumento per affrontare le cose è un meccanismo di difesa. Mi viene da dire che oggi, giorno dopo giorno, in Libano