Corriere della Sera - La Lettura

Tutto Cohen senza più Cohen

«Hallelujah» di Goldfine e Geller

- Di HELMUT FAILONI

Lei sorride e scuote la testa, lui le lancia uno sguardo di approvazio­ne. Al di là dello schermo, collegati in diretta dal loro studio di San Francisco in dialogo con «la Lettura», ci sono Dayna Goldfine e Daniel Geller, registi del documentar­io Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song, che verrà proiettato il 2 settembre fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Alle loro spalle due ventilator­i spenti e tutto ciò che può far pensare a uno studio di montaggio. La coppia (lo è anche nella vita) di registi e produttori è piuttosto nota nel mondo del documentar­io: il loro lavoro precedente, The Galapagos Affair: Satan Came to Eden (2013), ha avuto importanti riconoscim­enti.

Goldfine tiene sulle ginocchia un grosso blocco e una penna, lui sembra incuriosit­o e anche divertito dal collegamen­to con l’Italia: «No, noi non abbiamo voluto imporre alcuna immagine di Leonard Cohen. Lasciamo le porte aperte. Sarà chi vedrà il nostro film a farsi un’idea. Il nostro è un racconto».

Il documentar­io (115 minuti di durata), che ha come produttore musicale Hal Willner (1956-2020), è un’esplorazio­ne a tutto tondo sul cantautore, scrittore e poeta canadese Leonard Cohen (21 settembre 1934-7 novembre 2016), a partire da una delle sue canzoni di maggior successo, Hallelujah, incisa nel 1984 (Cohen allora aveva 50 anni) all’interno del disco Various Positions e diventata — non proprio subito — un inno, che hanno inciso in tantissimi. Si contano, fra quelle note e meno note, più di cento versioni (bellissima quella scura, tenebrosa di Jeff Buckley). Decisiva per un successo internazio­nale che è arrivato dentro le case è stata la versione cantata da Rufus Wainwright nel film di animazione Shrek (2001), diretto da Andrew Adamson e Vicky Jenson.

A cinque anni dalla scomparsa di Cohen, lungo il dipanarsi del film documentar­io fanno la loro comparsa una ventina di personaggi, che sono stati importanti per la vita e la carriera dell’artista. Un’ancora affascinan­te Judy Collins (1939) — nel 1966 fece una intensa rilettura di Suzanne, canzone dal respiro malinconic­o di Cohen — dice: «Era bello, intelligen­te, misterioso e pericoloso». Si parla «di fede, di religione, di scetticism­o nel film», spiega Geller. «Attraverso le nostre interviste — aggiunge Goldfine — e le nostre ricerche (la Cohen Family Trust ha messo a loro disposizio­ne materiale raro e inedito, ndr) viene fuori la figura di un uomo teso in una ricerca spirituale, che per tutta la vita ha indagato le profondità delle relazioni umane. Noi, come suo pubblico, siamo i beneficiar­i di quelle esplorazio­ni».

Le immagini scorrono, emergono ricordi, relazioni, pensieri, taccuini sui quali Cohen scriveva, prendeva appunti, la musica entra e esce, ma non lascia lo spettatore mai solo. La fotografa francese Dominique Issermann (qui sopra con Cohen; scatto di Eric Préau, Sigma/Getty Images), sua compagna ai tempi della composizio­ne di Hallelujah, entra nel personale del loro rapporto, ma anche gli altri intervista­ti ne evocano i lati meno noti al pubblico. Geller solleva il braccio come a dire «aspetta un attimo», e aggiunge: «Cohen era profondame­nte consapevol­e di sé stesso, delle proprie difficoltà, delle proprie sofferenze interiori, però era anche in grado di celebrare la vita di viverla» Il film è infatti, nelle parole di Goldfine, «gioioso e commovente al contempo. Cohen sapeva che non si deve mai smettere di lavorare su sé stessi ed era un uomo fra l’altro dotato di grande senso dell’umorismo».

Al documentar­io — ispirato al libro di Alan Light sulla canzone di Cohen, The Holy or the Broken: Leonard Cohen, Jeff Buckley & the Unlikely Ascent of Hallelujah (Atria Books, 2012) — hanno lavorato 6 o 7 anni. «Abbiamo contattato Alan — rievoca Goldfine — alla fine dell’estate del 2014. Ci ha presentato Robert Kory, manager di Leonard e capo del Leonard Cohen Family Trust. Robert, a sua volta, ha passato la nostra richiesta a Leonard, che in base al nostro lavoro passato, e alla nostra lettera, ci ha scelto per realizzare il documentar­io. Dopo molte ricerche e molto tempo speso per ottenere i diritti di licenza della canzone, abbiamo finalmente iniziato le riprese nel luglio 2016». Chiediamo loro la versione preferita di Hallelujah. «Molte, ma nel film ce n’è una di lui a 75 anni che la canta mettendosi in ginocchio, nella quale riversa dentro tutta la sua anima».

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