Corriere della Sera - La Lettura

Capossela & Genovesi: mare, storie e desideri

- Dialogo con VINICIO CAPOSSELA di FABIO GENOVESI

Dialoghi Un romanziere e un musicista si trovano davanti al mare della Liguria per parlare di mare. E di storie, di desideri. Di terra e persone. Perché c’è il mare a unire Fabio e Vinicio, che è anche uno scrittore e in «Eclissica» racconta un pezzo della sua vita e i suoi viaggi

Domenica, l’estate è alla fine ma non gliel’ha detto nessuno, allora oggi splende feroce e ostinata, e noi ne approfitti­amo seduti su un terrazzo davanti al mare. Vinicio Capossela versa un tè che teneva in valigia, da una piccola teiera che stava nel bagaglio pure lei. Siamo a Camogli, per il festival della Comunicazi­one, dove lui parlerà di Dante e io del Calamaro Gigante, ma adesso siamo qua per parlare tra noi. Anzi, in realtà io voglio solo ascoltare. Perché ho appena finito di leggere il suo nuovo libro, e se certi libri sono viaggi, altri come Eclissica sono un mondo. E arrivare alla fine di un viaggio può essere malinconic­o, ma accomiatar­si da un mondo è ancora più difficile.

Eclissica si apre e si chiude nello stesso posto, piazza San Pietro, pienissima di fedeli alla morte di Papa Giovanni Paolo II nell’aprile del 2005, deserta e zitta per la preghiera di Papa Francesco nel marzo 2020, quando stavamo tutti chiusi in casa. Tra i due estremi, quindici anni che Capossela racconta in una navigazion­e intensa e generosa, profonda e magica, sempre disposta a perdersi e a trovare così tesori inattesi, che ci parlano di lui e di noi. Del lavoro che sta dietro ai suoi dischi, dei suoi viaggi, di un cammino tra lampi ed eclissi, tra musiche, pensieri e gesti che hanno riempito la sua vita e la nostra. Avventure per mare, per terra e sottoterra, ossa e polpa, lutti e rinascite, la peste vera e quelle contempora­nee, esplose tra virus e social, e tante storie, tanti libri, tante suggestion­i di carta che diventato vive grazie a una lingua che incanta. Un mondo insomma, il suo e il nostro, dentro al suo nuovo libro. E non vorrei uscirne. Voglio rimanere, voglio ascoltare ancora la sua voce, sospesa a tratti dai sorsi di questo tè senza nome.

Vinicio, iniziamo da dove siamo, dal mare, e vediamo dove si va.

«Proprio qua vicino, su una chiatta nella Baia del Silenzio a Sestri Levante, nel 2008 ci siamo inventati una cosa che si chiamava Storia di marinai, profeti e balene. Un’idea nata al Salone del libro di Genova, dove abbiamo viaggiato tra diverse letture. Il mio rapporto con il mare è quello di un marinaio di carta, ho esplorato i mari solo a bordo dei libri. Non ho mai fatto un viaggio in una barca vera, però mi ha sempre interessat­o la letteratur­a di mare, che ha relazioni col destino, col fato. Soprattutt­o Moby Dick, il poema sacro di Melville, e l’Odissea. Insieme all’Ulisse di Dante, e Conrad. Da quei libri sono poi scaturite delle canzoni e quel disco. I libri sono come vasi comunicant­i che permettono il travaso della materia, contenitor­i per l’immaginari­o, che puoi travasare, imbottigli­are in cose più piccole, fino al messaggio nella bottiglia. La letteratur­a si travasa in altre forme, in canzoni e in tanto altro, ma anche nella sostanza della vita, che la rigenera e la rimescola. Il rapporto tra i libri e la vita è l’aspetto più interessan­te. Nel caso di Eclissica, ci sono tanti libri che si legano alla vita, e nel rievocare le esperienze personali si rievocano i libri che l’hanno in qualche modo accompagna­ta. Il pretesto narrativo è l’interruzio­ne del tempo della nostra vita, e il trasferime­nto a quello dell’immaginari­o, esperienza vissuta da tutti dal marzo dell’anno scorso, in quella sottrazion­e all’uso delle nostre vite. L’immobilità, il confinamen­to, cose che limitando l’attività e il fluire degli eventi ci hanno spostati altrove. Il libro è un tentativo di eternare il ricordo, non solo quello della nostra esperienza diretta, ma anche di come ce la siamo immaginata, l’accesso a un tempo immobile che non cambia, il tempo verticale del racconto, in contrasto con il tempo orizzontal­e della vita che si consuma e vive. Nel periodo del confinamen­to, l’impennata di questo tempo verticale è stata come quella del capodoglio, come racconta Jules Michelet ne Il mare: quando si devono riprodurre, questi giganti raggiungon­o i due poli, e nascosti all’occhio umano si ergono come enormi candele schiumanti dall’acqua. È quel che è successo a noi, confinando­ci: ci siamo impennati al tempo verticale del racconto. Il capodoglio, questo grande cetaceo si presta a tante metafore. Giona, Geppetto, quando si sono spente le luci del mondo, mi è venuto in mente Geppetto nello stomaco della balena o del pescecane, col suo mozzicone di candela a illuminare l’oscurità. Ognuno di noi era così, col suo mozzicone, in attesa di essere risputato alla luce».

Quando parli del capodoglio, mi viene subito in mente il suo combattime­nto poderoso col Calamaro Gigante. Il capodoglio è un mammifero, respira l’aria come noi, eppure il cibo che più ricerca sta nell’abis

so, a mille metri di profondità, nel buio misterioso. Allora deve farsi forza, prendere un grande respiro e calarsi laggiù, cercando come noi qualcosa che non vede cos’è, né dove sta. Però sa che c’è, e forse lo sente chiamare, e lui deve tentare di afferrarlo. Come i fantasmi che ci riempiono la vita, e spesso la modellano per noi. Appunto il tuo libro si apre con questa dedica: «Ai fantasmi».

«Se torniamo alla letteratur­a, le sirene, il loro canto nell’episodio omerico...che cosa sono? Omero non le descrive fisicament­e, sono solo voci, ti seducono perché ti danno la conoscenza, ma a mio parere anche perché convocano gli assenti. Il loro scoglio è pieno di ossa, ma non sono di esseri umani che loro hanno ucciso, sono di uomini che si sono lasciati morire perché nel canto delle sirene hanno già trovato tutto quello che cercavano. I fantasmi sono tutto quello che ci riporta alla memoria, cose che magari abbiamo vissuto davvero, ma che diventano fantasmati­che e si confondono con altre che non abbiamo conosciuto in prima persona, e vengono dai libri o da racconti o chissà cosa. Presenze che vivono nel buio, i fantasmi popolano la stanza e ci fanno compagnia, ma sono anche pericolosi, perché possono metterci voglia di non accendere più la luce. Il fantasma tiene compagnia, sì, ma bisogna prendere qualche precauzion­e. Come Ulisse, che per resistere si fa legare all’albero della nave. Anche noi dobbiamo avere un albero a cui legarci».

E tu, a quale albero ti leghi?

«A quello dell’invincibil­e quotidiani­tà. Per quanto tu vada lontano, a casa ci sono i tuoi luoghi, i rapporti, le relazioni. C’è chi non torna, e fa un viaggio verso le stelle o altri territori in cui puoi perdere la sanità mentale o la salute. Come l’Ulisse di Dante, in nome della conoscenza puoi andare oltre la possibilit­à del ritorno, ma è un viaggio che può portarti fino alla morte. Allora ti leghi a quello che ti tiene ancorato al vivere, qualche forma di quotidiani­tà. È per questo che è importante avere qualcosa. Ci vuole una qualche Itaca a cui voler tornare, la persona con cui stai, o anche il tuo cane: il tuo cane ti riporta molto a sé, e a te. Devi accudirlo, ti aspetta, e ti aiuta a tenerti aggrappato alla vita».

È una paura che hai avuto quando scrivevi «Eclissica», un libro così corposo e denso, quella di perdertici dentro, da qualche parte? Avevi paura di non saper più tornare, o di non trovare una chiusura?

«Le ore che si passano a scrivere, aldilà del risultato, sono sempre importanti. Ore in cui c’è un’altra dimensione di noi stessi, e di verità che nella vita ordinaria non riusciamo a trasporre».

A proposito della vita vera, tu scrivi di aver sempre avuto un’inclinazio­ne alla disobbedie­nza. C’è una foto di classe, in prima elementare, in cui sei l’ultimo della fila, col grembiulin­o nero ma senza fiocco. Dietro di voi le vigne dell’Emilia, ma «noi non siamo nati da quelle vigne, ci siamo stati portati». È questa tua storia di vita, forse, da straniero, da esule in qualche modo, che ti ha permesso di avvicinart­i in maniera così intensa alle tue origini, come ad altre culture più lontane, sapendole comprender­e, e prendere, e impiegarle come materia viva nei tuoi lavori?

«Sono cresciuto in Emilia Romagna, ma da una famiglia che veniva dall’Alta Irpinia. Pensando alle migrazioni di oggi sembra nulla, ma era comunque un altrove, dove si cresceva e da cui si arrivava. I miei genitori erano abituati a raccontare i fatti delle nostre terre, e lo facevano in dialetto. Conservare una lingua propria ha a che fare con un’appartenen­za, i dialetti sono molto impor

tanti, sono una casa in cui abitare. Abitare una terra che io in realtà non ho abitato. Quelle terre che nel libro si chiamano “Terre dell’osso”, l’ombra che ci ha generato, quell’inconscio collettivo, ho cominciato a coltivarle grazie al racconto di questa comunità allargata che era la mia famiglia. Racconti che non facevano a me ma tra loro, magari mentre facevano i turni. Io ero piccolo, e li ascoltavo. Questo ha posto una zolla di immaginari­o in cui mi era possibile abitare. La parte corposa di “Terre dell’osso” è l’ombra dell’origine, ma anche della storia. Anche i canti ci portano quella storia, quelle ceneri, col canto-sonetto che a Calitri, dov’è nato mio padre, ancora si pratica. In generale le musiche dei territori che sono fuori dalla storia mi affascinan­o e mi chiamano. In quei luoghi la storia viene solo portata dall’esterno, a cambiarli. Prima c’era qualcosa di più antico e più arcaico, che negli anni Settanta ho potuto vivere nelle sue ultime vestigia. Quindi, se anche in quella foto da bambino non avevo gli strumenti, poi capisci che quell’ombra da cui vieni non riguarda solo te, ma l’intera civiltà della terra, da cui tutti ci siamo separati. Così quel discorso diventa interessan­te in un senso più ampio, non personale ma umano».

In effetti c’è la Storia, con la S maiuscola, che quasi mai parla di noi, e poi le storie — le singole storie, quelle di ognuno di noi — che ci hanno portato al

Capossela: ho capito che è ora di iniziare a capire non più cosa non posso fare, ma cosa voglio fare

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