Corriere della Sera - La Lettura

Il segreto della vita (e del cervello) è nella spazzatura

- di GIUSEPPE REMUZZI

Un gruppo di scienziati ha scoperto il luogo dove si trovano le ragioni delle differenze tra noi umani e i nostri cugini più prossimi, gli scimpanzé. Nel Dna, ma in un Dna particolar­e, quello che avevamo ritenuto finora — a torto — materiale di «scarto»

Prospettiv­e

Questi studi potrebbero aprire nuove strade per comprender­e meglio alcune malattie psichiatri­che, per esempio la schizofren­ia (che colpisce l’uomo ma non gli altri animali)

Rispetto alla storia dell’evoluzione, chi sono i nostri parenti più stretti? Gli scimpanzé: noi e loro deriviamo da un antenato comune da cui ci siamo separati sei milioni di anni fa per arrivare ad essere noi e loro quello che siamo oggi nel 2021. Ma il nostro cervello funziona in modo molto diverso da quello degli scimpanzé. «Certo è tutta questione di Dna», penserete voi, con molte buone ragioni, ed è proprio quello che hanno pensato gli scienziati in tutti questi anni studiando il Dna, quello vero, quello che serve a formare tutte le proteine di cui sono fatti i nostri organi, in poche parole quello di cui è fatto ciascuno di noi.

Ma dopo anni di studi e ricerche non si è arrivati a molti risultati; grandi differenze fra il nostro Dna e quello dei cugini della savana o delle foreste pluviali tropicali non ce n’è.

«Potremmo guardare ai geni del cervello, in altre parole a quei geni che si esprimono soprattutt­o a livello cerebrale — hanno sempre pensato i ricercator­i — lì certo troveremo delle differenze».

No, non ce n’erano nemmeno lì, quantomeno non che fossero in grado di spiegare perché siamo così diversi dagli scimpanzé, quantomeno.

E allora?

Scienziati svedesi dell’Università di Lund sono partiti dalla consideraz­ione che il Dna che serve a formare le proteine (che «codifica» per le proteine, dicono i medici) è solo il due per cento di tutto il Dna. Il resto è «Dna-spazzatura» e — almeno fino a poco tempo fa — si pensava che non avesse alcuna funzione importante. Però rappresent­a il 90 percento di tutto il Dna. A questo punto, Pia A. Johansson, Per Ludvik Brattas e tanti altri si sono chiesti: «Siamo davvero convinti che una porzione così importante del nostro Dna non serva proprio a niente?». E così hanno deciso di seguire un percorso diverso.

Per prima cosa però si sarebbe dovuto poter disporre di cellule del cervello di uomo e di scimpanzé per poterle confrontar­e, ma questo non era eticamente possibile. Allora hanno pensato alle cellule staminali totipotent­i (simil-embrionali) che si possono ottenere in laboratori­o da cellule adulte: questo processo lo dobbiamo al lavoro di Shinya Yamanaka — ha avuto il Premio Nobel nel 2012 — che ha scoperto che cellule adulte possono essere riportate allo stato di staminali embrionali (cellule «bambine») per diventare poi qualunque altra cellula del nostro o di un altro organismo vivente.

Acquisita questa tecnica e dopo essersi accertati che funzionass­e bene, i ricercator­i sono arrivati proprio alle cellule del cervello partendo da quelle della cute (di uomo e di scimpanzé) e hanno cominciato a cercare le differenze. Si capisce subito che nel due per cento di Dna «buono» non c’è nulla che spieghi l’enorme diversità fra la funzione del nostro cervello rispetto a quello dei «cugini» delle foreste.

Quando però hanno guardato al «Dna-spazzatura» hanno trovato qualcosa di inaspettat­o. Le differenze tra gli scimpanzé e noi — almeno per quanto riguarda il cervello — sono proprio nella funzione del «Dnaspazzat­ura» (lunghe «stringhe» di Dna per anni trascurate).

Al contrario, questi studi hanno chiarito in modo inequivoca­bile che le regioni del nostro Dna, che non servono a formare proteine — quasi fossero inutili — sono però in grado di controllar­e la funzione dell’altro Dna, quello «buono», quello che rappresent­a soltanto il due per cento del totale, e lo fanno attraverso un sistema estremamen­te sofisticat­o di trascrizio­ne di geni che è specifica — scusate il gioco di parole — di ciascuna specie.

Queste regioni non codificant­i quindi non sono affatto inutili: accendono e spengono geni in quel due percento di Dna codificant­e e così influenzan­o la funzione dei nostri organi.

Nel nostro caso del cervello.

È questo il meccanismo che ha favorito nel corso dell’evoluzione le capacità intellettu­ali dell’Homo sapiens. Il bersaglio finale dell’attività di questi geni (controllat­i dal «Dna-spazzatura») sono in larga misura organelli citoplasma­tici detti mitocondri (la parte di energia delle cellule) che così diventano protagonis­ti dello sviluppo del cervello dell’uomo. La cosa che colpisce di più di questo lavoro è che gli autori hanno trovato individui in cui questo meccanismo si inceppa: sono persone che hanno difficoltà intellettu­ali e difficoltà nell’esprimersi.

Che cosa aggiunge dunque questo studio a quello che già sapevamo? Moltissimo. Due cose in special modo, che l’evoluzione del cervello dell’uomo è legata a un meccanismo genetico del tutto inesplorat­o fino a questo momento e che in questo campo è tutto molto più complesso di quanto abbiamo sempre pensato. «Conoscere meglio il nostro cervello in rapporto a quello dei nostri “parenti” più stretti vuole dire capire di più di ciò che ci rende uomini, che poi vuole dire sapersi rapportare con gli altri, costruire le nostre società, educare i nostri figli, sviluppare tecnologie sempre più avanzate che consentano alle nostre civiltà di progredire e di fare fronte alle grandi sfide che ci aspettano per poter continuare a vivere su questa terra».

Ma non è solo questo.

C’è molto di più.

Questi studi potrebbero aprire nuove strade per capire di più di certe malattie psichiatri­che; la schizofren­ia per esempio che colpisce l’uomo e non altri animali. E ci sono altre ragioni per considerar­e questo lavoro una pietra miliare nella storia dell’evoluzione: ci ha insegnato che invece di fermarsi ad analizzare il due per cento del nostro Dna, d’ora in poi si dovrà studiare il cento per cento (compreso cioè quello che consideria­mo «spazzatura»), un’impresa quasi ciclopica.

Ma prima o poi ci si arriverà.

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ILLUSTRAZI­ONE DI FABIO DELVÒ
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