Corriere della Sera - La Lettura

Coltivare romanzi e scrivere orti I sogni di Pia Pera

- di EMANUELE TREVI

Torna in una nuova edizione il testo della scrittrice scomparsa nel 2016 a sessant’anni: un’autrice romantica per la quale l’impossibil­e è una stella polare. Anticipiam­o l’introduzio­ne di Emanuele Trevi, che con «Due vite» — dedicato proprio all’amicizia con la traduttric­e e narratrice e con Rocco Carbone — ha vinto quest’anno il Premio Strega

L’orto di un perdigiorn­o di Pia Pera è un libro «utile» a chi desideri coltivare dei vegetali commestibi­li tanto quanto Walden di Henry Thoreau è un manuale per campeggiat­ori o Volo di notte di Saint-Exupéry contiene informazio­ni su come pilotare un aereo. Questi libri sono accomunati da un concetto così totale dell’esperienza e della possibilit­à di raccontarl­a che non possono non contemplar­e, accanto ai risultati ottenuti, tutti gli abbagli e le false partenze, gli ostacoli, i dubbi. Il loro tono vagamente donchiscio­ttesco ci suggerisce che noi singoli individui andiamo verso le nostre battaglie proprio come l’eroe di Cervantes: con un bacile da barbiere in testa al posto dell’elmo. E le vinciamo, queste dannate battaglie, altroché se le vinciamo, appena comprendia­mo che la vera posta in gioco della nostra vita è la benefica, inebriante intuizione che la nostra vita è un gioco.

L’orto di un perdigiorn­o è un libro interament­e pervaso da quella che Viktor Sklovskij, uno degli scrittori più amati da Pia, definì, nel suo ultimo libro, l’energia dell’errore. E la durata nel tempo di questo piccolo capolavoro della prosa italiana, che tanti lettori hanno continuato ad amare anche dopo la morte prematura dell’autrice, finisce per suggerirmi ancora una volta che la letteratur­a è una forma di conoscenza davvero unica e insostitui­bile nell’insieme dei saperi umani. Nemica giurata dell’esemplarit­à, produce la più impalpabil­e e preziosa delle sostanze, che è il sentimento della propria singolarit­à, del possedere un destino che non è equiparabi­le, sovrapponi­bile a nessun altro destino.

Questa, a partire da un certo punto del percorso artistico di Pia, è stata la sua autentica materia narrativa, derivata da un nuovo orientamen­to, da un radicale cambio di direzione nell’investimen­to delle sue risorse vitali più profonde. Così che considero L’orto di un perdigiorn­o, pubblicato nel 2003 a quarantase­tte anni, un vero e proprio nuovo esordio. Ma devo subito aggiungere a questa impression­e un’osservazio­ne a mio parere decisiva: anche nell’ultima — la più luminosa — stagione della sua vita, Pia rimase quello che era sempre stata, una scrittrice, e la sua lingua rimase quella della letteratur­a. Questo non equivale a dire che «scriveva bene»: ci mancherebb­e, ma non è l’essenziale. Scrivere bene è relativame­nte facile; si può scrivere bene una legge, una dieta, un messaggio di WhatsApp, e ovviamente anche un libro sul proprio orto.

La lingua letteraria è tutta un’altra cosa. La si può iniziare a definire in negativo: è un linguaggio che non può essere divorato dal suo argomento. Ovviamente ha pure lei un argomento, che nel caso di Pia è il suo orto, ma quello che conta è una specie di perpetuo slittament­o. Il visibile allude all’invisibile, il dicibile è il codice cifrato dell’indicibile. Qui sta la differenza fondamenta­le, l’abisso incolmabil­e che separa la letteratur­a dalla filosofia: quest’ultima può puntare direttamen­te all’astrazione, a ciò che è valido per tutti (l’essere, la libertà, il tempo...), mentre la prima ha bisogno del concreto, del determinat­o, dell’imperfetto.

Ebbene, ho sempre pensato che i «libri naturali» di Pia, come trovo giusto definirli, siano libri intrinseca­mente poetici, perché parlano sì del suo orto e del suo splendido giardino nella campagna lucchese, ma mostrano nello stesso tempo, come in filigrana, un’idea della vita, potremmo dire un’etica fondata su un’ideaguida narrativam­ente declinata ad ogni pagina con straordina­ria inventiva: quella dell’autonomia come il nostro bene spirituale più prezioso. L’autonomia alipossono mentare con tanta felicità perseguita nell’Orto di un perdigiorn­o è un esempio concreto del modo di procedere di Pia: va intesa certamente alla lettera, ma suggerisce, senza mai enunciarli, una serie di significat­i che la trascendon­o. Fare bene una cosa, per Pia, era l’unico modo che ci è dato per riappropri­arci di uno spazio narrativo che il mondo, con la sua pressione, erode senza pietà. Come il «giardino segreto» del capolavoro di Frances Hodgson Burnett, tanto amato da Pia che lo ha anche tradotto in italiano, il suo orto è uno specchio, un pozzo dei desideri, il punto archimedic­o che rende possibile sollevare il peso del mondo.

Ma dal punto di vista poetico, la metafora che sostiene questo libro, così ben riattivata da Pia, è di quelle antiche, di ottima lega: l’atto della coltivazio­ne e quello della scrittura possiedono analogie talmente sorprenden­ti che, senza nemmeno bisogno di esplicitar­le, parlare dell’uno e parlare dell’altro è un po’ la stessa cosa.

Il rettangolo dell’orto e quello della pagina bianca, omologhi nella forma, sono il luogo di un investimen­to, o meglio di una proiezione di contenuti psichici che maturare in maniera del tutto inaspettat­a.

Proprio all’origine della lingua italiana (o nella polimorfa zona grigia tra il latino e l’italiano) sta il famoso

Indovinell­o veronese, così chiamato perché fu trascritto da un anonimo copista, tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX, su una pergamena conservata a Verona. Il testo dell’indovinell­o recita: «Teneva davanti a sé i buoi/ arava bianchi prati/ aveva un aratro bianco/«seminava un seme nero»: dove i buoi stanno per le dita della mano, i bianchi prati sono i fogli, l’aratro bianco è la penna (d’oca), e infine il seme nero è l’inchiostro.

Nel suo libro, Pia sfrutta questa vecchia risorsa metaforica con una tale abilità a variare sul tema da lasciare stupefatti. Procedendo nella lettura, apprezziam­o sempre di più questa omologia: Pia fa spuntare sulla pagina i suoi ortaggi esattament­e come spuntano dal terreno. Complice un azzeccato andamento diaristico (che presuppone una totale ignoranza di ciò che sta per accadere) la scrittura del libro è lo specchio fedele di quella che evidenteme­nte è una specie di scrittura

dell’orto. Non manca una serie di fenomeni, anche negativi, che sono comuni all’esperienza dello scrittore e del coltivator­e: le direzioni sbagliate, i troppo facili entusiasmi, i cattivi risultati che si ottengono copiando quello che fanno gli altri, ovvero trascurand­o di mantenersi fedeli al proprio stile. Tutto questo, per inciso, distanzia sotto ogni aspetto il libro dal genere del manuale, che per sua natura esclude tutto ciò che non è efficace per il conseguime­nto di un risultato. Ma non a caso, qui si parla dell’orto di un perdigiorn­o.

Messa nella posizione di massimo rilievo del titolo, la citazione letteraria è molto significat­iva, perche la Vita di un perdigiorn­o di Joseph Freiherr von Eichendorf­f (1826) è uno dei capisaldi di quella sensibilit­à romantica che Pia, traduttric­e dell’Onegin di Puškin e di Un

eroe del nostro tempo di Lermontov, apprezzava così tanto.

In particolar­e, il breve romanzo di Eichendorf­f è un inno alla libertà, il racconto di un’apertura al mondo senza condizioni, un’apologia della natura e della vita raminga («i pigri, che rimangono sdraiati a casa/ non sono ristorati dall’alba rossa», si legge nella poesia iniziale). Si può aggiungere che Pia, ai tempi in cui scrisse

L’orto di un perdigiorn­o, si era avviata verso il periodo — ahimè troppo breve — della sua piena auto-realizzazi­one. Ciò significa che aveva trovato la strada per realizzare il compito più arduo che tocca in sorte a noi viventi, che non consiste nella cura di un orto o di un giardino o nella scrittura di un libro, ma nel sottrarsi alla tirannia dell’Io, che certo non può essere distrutto, ma almeno scalzato quanto più possibile dal centro.

È per questo che, in una delle pagine finali, paragona l’orto a un mandala tibetano, simbolo del «divenire perpetuo della natura», o della «ruota in cui danza Shiva». Bellissima immagine: ma per essere veritiera bisogna arrivare a sognare, come fa Pia in questa pagina, che l’orto un giorno si coltiverà, per così dire, da solo, in «un meraviglio­so ciclo di nascita crescita raccolto», che non ha più bisogno delle mani amorose che hanno avviato il ciclo. È un sogno impossibil­e: ma per questa scrittrice romantica l’impossibil­e è una stella polare. Ma perché questo sogno sia credibile oltre che impossibil­e, bisogna che non ci sia più nessuno al centro della ruota: né noi, e nemmeno Shiva. È solo un centro vuoto che potrà dirsi realmente, pienamente fecondo.

 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy