Corriere della Sera - La Lettura
Il nuovo lavoro
La pandemia ha rivoluzionato la gerarchia dei valori. Prima era il «workaholic»: più ore, più soldi... Ora il virus ha destabilizzato priorità e comportamenti: i datori vengono sfidati sulle questioni etiche dell’azienda, sugli orari flessibili, sullo smartworking, su scelte che condizionano lo stile di vita. Perciò molti se ne vanno e i posti restano vuoti. Sociologi ed economisti hanno battezzato il fenomeno Great Resignation, epidemia di dimissioni. Ecco che cosa succede
«Èla prima volta dagli anni Ottanta — quando Ronald Reagan piegò la resistenza dei controllori del traffico aereo e mise alle corde il movimento sindacale — che il mondo del lavoro riacquista potere negoziale. E non parliamo solo di aumenti retributivi. La pandemia ha cambiato la gerarchia dei valori. Se prima era tutto un lavorare duro per più ore per guadagnare di più, oggi i datori di lavoro vengono sfidati sui comportamenti etici dell’azienda e su scelte che incidono sullo stile di vita e il benessere dei dipendenti, come la possibilità di lavorare in remoto o di distribuire l’orario in modo flessibile». Sostiene Richard Edelman — capo della società che porta il suo nome, maggiore azienda mondiale di consulenza e pubbliche relazioni con seimila dipendenti e 60 uffici internazionali (compresi Milano e Roma) — che il Covid-19 ha alzato l’asticella delle imprese: indagini come l’«Edelman Trust Barometer», il barometro della fiducia (un sondaggio periodico tra campioni di lavoratori di numerosi Paesi), confermano che, oltre al reddito e ai progressi di carriera, i dipendenti sono sempre più attenti all’impatto sociale della compagnia per la quale lavorano. «Se l’imprenditore li delude — aggiunge Edelman durante una discussione sull’improvvisa e massiccia mancanza di offerta di lavoro che si registra negli Stati Uniti e in altre parti del mondo — i dipendenti votano con i piedi: se ne vanno».
Vale solo per l’America, per i professionisti della conoscenza e per i mestieri più esposti e rischiosi o faticosi? Edelman non lascia nemmeno finire la domanda: «Il netturbino che raccoglie la spazzatura tra le ville sulle spiagge di Long Island, fino a tre anni fa lavorava tranquillo, anche se non era felice. Oggi che rischia in tempi di coronavirus e che raccoglie i rifiuti di gente che guadagna moltissimo più di lui, che lavora da casa e che non rischia nulla, è molto arrabbiato». Se può, protesta, sciopera o se ne va.
Due anni di semiparalisi per la pandemia hanno sconvolto l’economia ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti, che dipendono in modo massiccio dalla precisione cronometrica di catene logistiche colpite dall’infarto dei lockdown e ora riattivate con grande fatica. Ma il sistema-Paese paga anche l’improvvisa carenza di manodopera (oltre 10 milioni di posti disponibili sono scoperti) nelle professioni più sofisticate e in molti mestieri umili, nonostante buona parte degli oltre 20 milioni di lavoratori che hanno perso l’impiego all’inizio dell’epidemia non sia ancora tornata sul mercato del lavoro.
A colpire chi esamina questo fenomeno dal punto di vista sociale ed economico è il fatto che negli ultimi tre mesi censiti dal ministero del Lavoro 12,7 milioni di americani hanno lasciato il loro impiego: hanno scelto di cambiare attività, sono andati in pensione o hanno deciso di fare altro. In America la mobilità dei lavoratori è sempre stata abbastanza elevata, ma quella attuale registra un’impennata: ogni mese il 3 per cento degli occupati cambia casacca o smette di lavorare. E i numeri sono in crescita: dai 2,3 milioni mensili dell’era pre-Covid ai 3,3 milioni del settembre 2020, ai 4 milioni del luglio scorso, ai 4,4 milioni di questo settembre. Sociologi ed economisti hanno battezzato il fenomeno Great Resignation.
Le definizioni altisonanti sono sempre rischiose: molti avvertono che è sbagliato fare di tutta l’erba un fascio parlando di «epidemia di dimissioni», dal momento che le uscite sono massicce soprattutto in alcuni lavori faticosi, malpagati e molto esposti a possibili contagi come la ristorazione; o in professionalità scientifiche — matematici, ingegneri, computer scientist — difficili da reperire sul mercato del lavoro. Professionisti portati, più di altri, a sbattere la porta se non ottengono quello che chiedono, certi di trovare, comunque, un altro lavoro.
Il termine resignation non piace all’amministratore delegato di LinkedIn, Ryan Roslansky, che preferisce parlare di Great Reshuffle: per il capo della grande rete sociale che collega 800 milioni di utenti professionisti siamo davanti a un grande rimescolamento di carte del mercato del lavoro. Ma la sostanza del ragionamento non è molto diversa da quella di Edelman: «I dipendenti — dice Roslansky — rimettono in discussione non solo il loro modo di lavorare, ma anche le ragioni per cui lavorano, che cosa vogliono fare della loro carriera e della loro vita». Parallelamente, aggiunge il Ceo di LinkedIn, i capi delle aziende rivedono il modo
di fare funzionare le loro organizzazioni, ripensano la cultura d’impresa e i valori che rendono attraente lavorare per una certa società. LinkedIn, dice il suo capo alla rivista «Time», si è accorta del fenomeno sette mesi fa e ora (dato aggiornato a fine settembre) il 54 per cento dei suoi utenti afferma di avere cambiato lavoro nell’ultimo anno. Una rivoluzione che Roslansky vede con ottimismo: «Il rimescolamento dei talenti andrà avanti ancora per un altro anno o due. Quando le cose si assesteranno vivremo in un mondo di imprese meglio organizzate e consapevoli e di dipendenti più soddisfatti».
Non c’è dubbio, dopo decenni in cui il coltello dalla parte del manico lo ha avuto il capitale, con la conseguenza di creare un mondo sempre più polarizzato anche per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, che una riscossa del mondo del lavoro potrebbe servire anche a ridurre le diseguaglianze. Ma, nell’immediato, anche le carenze di manodopera, insieme ai colli di bottiglia delle catene logistiche, sono all’origine di malfunzionamenti dei servizi e scarsezza delle merci che provocano aumenti dei prezzi e, come già vediamo, inflazione.
Rischia, insomma, di riproporsi la vecchia questione della rincorsa tra prezzi e salari, ignota ai giovani e anche ai quarantenni, ma ben nota ai più anziani che fino agli anni Ottanta del Novecento hanno sperimentato gli effetti devastanti di un’inflazione elevata che distruggeva il potere d’acquisto degli stipendi.
Tutto questo accade anche perché il fenomeno è più esteso di quanto sia stato inizialmente stimato. Si pensava che le categorie interessate fossero quelle dei lavoratori della conoscenza e i professionisti che, grazie a una situazione patrimoniale solida, possono permettersi di rischiare, lasciando un lavoro che non li soddisfa. Poi s’è scoperto che a gettare la spugna erano anche tanti lavoratori addetti a funzioni front-line, esasperati e con una situazione finanziaria meno precaria rispetto al passato grazie a tre fattori: i sussidi anti-Covid ricevuti dal governo; i risparmi accumulati nei due anni della pandemia con viaggi, spettacoli e vita sociale ridotti a zero o quasi; l’ottimo andamento della Borsa che ha reso più ricchi i fondi pensione sottoscritti dalla metà, circa, dei lavoratori Usa.
Così, dalla sanità alla scuola, dai negozi agli alberghi fino ai trasporti pubblici e privati, sono moltissimi i servizi, oltre alla ristorazione, che funzionano a ritmo ridotto (e a costi più elevati) a causa della mancanza di personale. Il caso più sorprendente, e anche il più devastante sul piano economico, è quello dei camionisti. Gli americani che si guadagnano da vivere guidando un furgone o un autotreno sono 3,5 milioni. Per anni s’è detto che l’automazione, l’era dei veicoli guidati dai robot, avrebbe trasformato questi autisti in disoccupati difficili da riconvertire verso altri mestieri. E da tempo questo malessere da categoria in via d’estinzione spinge i camionisti verso posizioni (politiche e tecnologiche) conservatrici. Poi arriva lo tsunami del virus e improvvisamente si scopre che la carenza di camionisti, già avvertita in modo lieve prima della pandemia, si è trasformata in un infarto del sistema dei trasporti. E questo avviene in molti Paesi: in Gran Bretagna, dove non arriva più il carburante alle stazioni di servizio e il cibo nei supermercati (gli inglesi devono ricorrere ai militari e fare per la Brexit che ha costretto molti lavoratori stranieri a lasciare il Paese); in Germania, che scopre di avere bisogno di 80 mila autisti che non riesce a trovare (non ne arrivano più nemmeno da Polonia e Turchia, tradizionali serbatoi d’immigrazione). Non va meglio negli Stati Uniti, dove Biden interviene in prima persona per fare in modo che i porti della West Coast lavorino 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, per assorbire il flusso di navi portacontainer in arrivo dalla Cina. Ma poi spesso le merci restano sulle banchine per mancanza di camion e di autisti. Perché?
La pandemia ha cambiato l’atteggiamento di molti lavoratori. I più anziani, che prima tendevano a restare al volante a oltranza, ora scoprono di essere stanchi, sanno di essere più vulnerabili ai contagi e, appena possono, vanno in pensione. I giovani che dovrebbero rimpiazzarli non hanno la stessa passione dei padri per i «mostri d’acciaio», né — tantomeno — il mito di Easy Rider.
Quella dei camionisti è un’anomalia di per sé, ma meccanismi simili funzionano anche nel resto del mercato del lavoro americano: gli anziani della generazione del baby boom, i nati fra il 1946 e il 1964, che fino a qualche tempo fa restavano al lavoro il più a lungo possibile anche perché negli Stati Uniti la pensione pubblica della Social Security è molto bassa, mentre i datori di lavoro non volevano privarsi della loro esperienza, stanno cambiando atteggiamento. Si ritirano appena possono per ridurre l’esposizione al Covid-19, perché non riescono ad adattarsi a modi di lavoro diversi, basati sulle nuove tecnologie, o perché un’epidemia che ha ucciso 750 mila americani, tra i quali anche parenti e amici, li ha fatti riflettere sulle priorità della vita, su come è meglio impiegare il tempo che rimane.
Quanto ai giovani, il loro atteggiamento non è certo quello da workaholic, affamati di lavoro, delle generazioni precedenti. Sono più sensibili ai valori etici e per loro la qualità della vita conta quanto, e forse più, del successo professionale. Per questo, soprattutto nelle aziende tecnologiche, ma non solo, chiedono ai datori di lavoro — oltre a soldi, promozioni e smartworking — anche azioni contro il razzismo, contro le discriminazioni di genere e, in alcuni casi, addirittura l’impegno a non condividere con le forze armate o gli organismi di polizia le tecnologie sviluppate all’interno dell’azienda.
Tutto questo, nota Edelman, mette le aziende davanti a scelte difficili. «Ma a uscirne bene sono quelle che riescono a darsi una strategia, non quelle che pensano di cavarsela con qualche stratagemma». Certo, non si può ignorare che in questi atteggiamenti dei giovani ci sia anche un po’ di utopia. Alcune impennate verranno seguite da ripiegamenti e delusioni. Del resto questa mobilità varia con l’età: la quota degli utenti LinkedIn che dichiara di avere cambiato lavoro nell’ultimo anno scende dall’80 per cento della generazione Z (i ventenni) al 50 dei millennial (i nati fra il 1981 e il 1996) fino a ridursi al 31 della generazione X (quarantenni e cinquantenni), mentre per i baby
boomer, ormai in gran parte pensionati, la mobilità precipita al 5 per cento.
Per adesso, comunque, la realtà è che in America molti datori di lavoro offrono bonus di migliaia di dollari per attirare dipendenti. Vale nelle industrie della tecnologia come nel mondo dell’istruzione, dove ci sono sistemi, a corto di personale in ogni area, che offrono incentivi anche di migliaia di dollari per assumere infermieri scolastici, autisti degli school bus, insegnanti di sostegno, addetti alle mense. Può darsi che con il passare del tempo (e l’assottigliarsi dei risparmi) questo fenomeno rientri almeno in parte (già si parla di boomerang worker), ma il risveglio esistenziale dei giovani sembra destinato a durare e a estendersi anche fuori dagli Stati Uniti.
Quanto ai lavoratori che «tornano all’ovile», spesso non lo fanno da sconfitti, ma sulla base di offerte più generose di un datore di lavoro che preferisce la loro esperienza ai costi e ai tempi lunghi dell’addestramento di nuovi assunti. Più che una rivincita del lavoratore sul datore di lavoro, è il riconoscimento di una maggiore centralità del fattore lavoro. La vera rivincita è quella del produttore sul consumatore, che per più di vent’anni è stato il sovrano dell’economia. Ora l’equazione è capovolta: chi lavora ottiene condizioni migliori, ma deve sapere che, quando si toglierà i panni del produttore per indossare quelli del consumatore, pagherà di più per servizi meno soddisfacenti.